EMILIO DE MARCHI I NOSTRI FIGLIUOLI STRENNA A FAVORE DEL PIO ISTITUTO DEI RACHITICI MILANO - 1894 PROPRIETÀ LETTERARIA TIP. DELL'ISTITUTO ITALIANO D'ARTI GRAFICHE - BERGAMO PARTE PRIMA I CHI SONO I RACHITICI È un pezzo che dura quest'uso della Strenna dei Rachitici, ma, ch'io sappia, nessuno pensa a lamentarsene; anzi ogni anno pare che la Strenna diventi una cosa sempre più desiderata e quasi necessaria, come le vecchie amicizie. A voi, vecchi associati e benefattori, porge l'occasione di fare un po' di bene, e questo bene so che vi fa bene: dunque per voi la Strenna è un gusto e un bisogno del cuore. Per gli altri, che vedono il libro la prima volta, è una curiosità che invoglia. Alla vista di un libro così ben stampato, è naturale che uno desideri di sapere chi sono questi Rachitici, e che cosa si può fare per loro: e la Strenna risponde: - Giù quattro passi dal ponte di porta Romana, un tratto al di là della chiesa di S. Calimero, per una strada vuota e silenziosa, dove all'ombra di un gran muro cresce l'erba tra i sassi, sorge un bell'edificio, chiuso da una cancellata e tutto circondato da un giardino. A tutta prima il luogo ha l'aria d'una villetta. Il sole, il verde, le ombre, il riposo fanno del sito, a chi passa guardando senza saper nulla, un angolo delizioso; se non che, osservate un po' bene, tra le foglie, sotto il portichetto... ecco seduti o accovacciati su delle basse seggiolette dei bimbi e delle bimbe, al di sotto dei sette anni o poco al di sopra, quale in una posa stanca e sfasciata, quale colla grossa testa che cade sul petto, quale penzolante sopra il fianco: chi si strascica a fatica attaccato al seggiolino, chi va colle gruccette, chi dorme in un aria malinconica, chi guarda il sole in una specie di attonita immobilità, chi par che aspetti qualcuno che non vien mai. Sono i Rachitici: è l'infanzia malata, la cosa più triste a vedere. * * * Voi che avete i vostri figliuoli così sani e allegri e così santamente indiavolati, vi sentite stringere il cuore alla vista di questi piccini, che sembrano già stanchi di vivere. Voi che li avete avuti malati qualche volta, o che avete tremato presso il loro lettuccio, sapete che cosa voglia dire un bimbo che non può guarire. È la vita schiacciata sul nascere, è la vita nata male, è la progenie del dolore e della miseria, del peccato e dell'imprudenza, del brutto e della tristezza. Son corpi mal concepiti, che contengono spesso anime fine, delicate, anime che ingrandiscono a poco a poco nell'angusto e rattrappito organismo e ingrandiscono qualche volta fin troppo, fino a soffrire più di quel che il corpo possa capire. E allora la morte manda la malinconia a prenderle queste povere anime. Intanto vi guardano attraverso a occhioni languidi, vi parlano in tal maniera che voi, lasciati i sofismi, non andate più a cercare (come vien voglia) perchè questa miseria di corpi viene al mondo e se vale la pena di conservarla. Si sente subito - e siamo appunto per questo quel che siamo - si sente solamente che bisogna fare, fare, fare, dare, dare, dare e lasciar cantare ai sofisti quel che vogliono cantare. Bisogna fare tutto quello che si può per rendere la vita fisica di questi esserini meno dolente e la vita morale meno incresciosa. Bisogna dare tutto quello che uno si sente di dare, quasi per togliere un peso, uno scrupolo, una mortificazione dal cuore. Per sollevare una miseria c'è sempre una gran ragione che non si può definire, ed è in queste ragioni senza parole che consiste la logica del cuore. Provate: giù quattro passi dal ponte di porta Romana... * * * Che la Strenna giovi ai poveri Rachitici è inutile dimostrare, perchè vien dimostrato ogni anno dai rendiconti dell'amministrazione. L'obolo dei generosi che si trasforma in carne, in brodo, in vino, in rimedi e in cure mediche è per tanti infelici sole e rugiada: e se molti di quei piccini malinconici riescono a stare sulle loro gambe, se molti sentono l'anima diffondersi meno disagiata nel corpo, se molti sorridono alla vita, qualche merito l'ha questa Strenna, non tanto per quel che dice, quanto per quel che suggerisce. Oh si potesse trovare un rimedio anche all'altro grande Rachitismo morale che logora da qualche tempo la povera Italia! È per una malinconica analogia che vien voglia di fare dei confronti. Questi piccini grami di corpo fan compassione; ma non minore è la compassione che suscitano questi grandi rattrappiti nel pensiero e nella coscienza, che non sanno nemmeno d'essere malati, anzi pretendono di guarire i mali del tempo e del paese. Io non so se il brontolamento sia nell'aria, o se veramente le cose vadan male: ma non mai come in questi tempi l'Italia fu malata di tristezza, di anemia, di esaurimento nervoso. E non c'è Strenna che possa aiutarla! E non l'Italia sola è malata, ma il mondo sta poco bene. I vecchi vizi cominciano a produrre il loro effetto. Ve lo dicono i giornali di tutti i paesi, che da qualche anno in qua non fanno che registrare e commentare ruberie, oltracotanze, malvagia speculazioni, rovine pubbliche, catastrofi private, nervosità senza scopo e senza ragione, e dappertutto la stessa incapacità nei buoni a trovare un rimedio. Spesso i rimedi son peggiori dei mali: segno che la forza morale è sfinita, anemica... rachitica. È una sfiducia immensa negli animi; rovina la fede di qua, la buona fede di là, l'onore e l'illusione un po' dappertutto e non si sa camminare che appoggiati alle gruccette di qualche sofista declamatore, oppure ci si sdraia nella nostra seggioletta, indifferenti, ad aspettare che l'ultimo raggio di sole si spenga dietro l'orizzonte. Non è rachitismo? E non ci deve essere un rimedio anche per noi? Perchè non si fanno dei libri di igiene morale o almeno delle Strenne? Io son d'avviso che qualche cosa si possa fare, se non per noi, almeno pei nostri figliuoli. Per noi che viviamo ormai di reminiscenze, invecchiati prima del tempo (o forse è il tempo invecchiato prima di noi?) poco male ci fanno i mali e poco bene ci possono fare i rimedi; ma i nostri figliuoli hanno diritto di nascere sani e robusti e di vivere in un'aria non ammorbata: e trista sarà la nostra responsabilità, se non facciamo presto una lega tra noi padri di famiglia in nome della santa igiene morale per amore di queste creature che seguitiamo a mettere al mondo e che ci domanderanno la consegna dell'azienda, quando noi saremo per andarcene. Guarire i cronici non si può; ma i figli nostri hanno diritto d'essere sani: la salute del mondo non può venire che da loro. "Io ho sempre pensato - diceva il vecchio Leibnitz - che si riformerebbe il genere umano, quando si riformasse l'educazione dei giovani". I nostri figliuoli son l'anima dell'avvenire. Predicare riforme sociali ai morti che giova? educate bene i vostri figli e sarete detti i salvatori del mondo. Fate che un vostro figliuolo cresca sano e forte d'anima e di corpo, con una volontà robusta, col sentimento robusto della giustizia e avrete scritto il miglior trattato di igiene e di morale pubblica. Chi predica libertà, riforme, progresso, istruzione, solidarietà, e non si cura de' suoi figliuoli, è un ciarlatano che non crede ai rimedi che spaccia. Chi è cattivo padre di famiglia non può essere buon cittadino. * * * - È per questo che la Strenna dei Rachitici s'intitola quest'anno i nostri figliuoli? - Per questo; ogni pretesto è buono per dire qualche verità. - Se il mondo credesse ai libri.... - Scusi, signore: ha dei figliuoli lei? - È il caso di dire: troppa grazia, sant'Antonio! - Non si lamenti. I figliuoli portano fortuna. - Io non mi lamento. Si ha quel che si cerca. - Scusi, un'altra domanda, se mi permette. - Si accomodi. - Sa lei come vanno educati i figliuoli? - Cioè, che cosa intende dire? - Suona il flauto il signore? - No. - E allora non le chiederò come si fa a sonare il flauto. Ma poichè ha la fortuna d'essere padre di famiglia, è naturale che sappia in che consiste la buona educazione dei figliuoli. - Certo lo so, o almeno credo di saperlo, quantunque io sia cresciuto un po' come una pianta. Ma eran altri tempi. So che i figliuoli devono crescere obbedienti, sobri, studiosi, religiosi, virtuosi insomma.... - È già qualche cosa aver delle buone idee. Ma crede che tutti i padri sappiano educare i loro figliuoli? - Tutti no, pur troppo. Ce n'è di quelli, che ingolfati nella politica o negli affari, non se ne curano affatto. - Perchè li hanno messi al mondo? - Chi sa? per distrazione. Ce n'è di quelli che se ne curano sì e no, a seconda dell'umore; e di quelli che li educano sì, ma alla rovescia. Ce n'è di troppo bigotti, e ce n'è di troppo liberali: di ignoranti e di pedantissimi: di amorosi e di intransigenti: di fanatici e di guastamestieri. Ci son padri dissoluti, padri prodighi, padri ubbriaconi.... - Per modo che la prima regola per ben educare i figliuoli sarebbe, secondo il suo avviso.... - Quella di educare i padri che li mettono al mondo. - Pienamente d'accordo. E aggiunga anche le madri. II. NON BASTA PREDICAR BENE Fu celebre in Milano alcuni anni fa l'avvocato N. uomo di ruvida ed energica eloquenza, di selvatica bonarietà, che conservava nei tratti e nelle espressioni tutta la sincerità della sua origine popolana. Una sera d'estate egli sedeva nel giardinetto dell'elegante caffè Cova nell'ora del più gran concorso, circondato dai soliti amici e ammiratori, che convenivano ad ascoltare volentieri l'arguta maldicenza, con cui il famoso penalista sapeva tagliare i panni sul dosso a colleghi e ad avversari. Quella sera aveva condotto a prendere il sorbetto un suo nipotino, ragazzo sugli otto o nove anni, a cui il vecchio burbero, che non aveva figliuoli, voleva un gran bene. Non so come si venne a parlare di scuole, di figliuoli e del modo di educare: - A me piace sempre trattare i ragazzi come si trattano gli uomini - diceva col suo tono rauco e rabbuffato il famoso avvocato - cioè mi piace ragionare e farli ragionare. I figliuoli non sono cani, ma è la bella maniera, la persuasione, la logica che ci vuole. Così il ragazzo impara a ragionare e a distinguere col suo cervello il bene dal male, diventa un essere logico e non una macchinetta.... A questo punto della bella predica Giacomino, arrivato alla fine del sorbetto, che al Cova non è mai troppo abbondante, credette lecito di dare una leccatina al piattello, commettendo un atto poco pulito certamente per qualunque sito, ma addirittura sconcio in un luogo così aristocratico e così frequentato. Lo zio, che stava dimostrando la forza educativa della bella maniera e della persuasione, offeso, irritato da quell'atto senza decenza, colla stessa mano che teneva in aria quasi a fabbricare il suo essere logico - To'.... impara a leccare i piattelli, animale! - fece e lasciò cadere nell'impeto della collera un tal manrovescio sulla zucca di Giacomino, che ragazzo, sedia, vassoio, piattello e tazza dell'acqua andarono a rotolare d'un colpo sotto il tavolino. Il ragazzo abituato a questo genere di dimostrazioni si rialzò alla meglio, sforzandosi di non piangere; ma gli amici, che cominciavano a credere alla teorica della persuasione e delle belle maniere, non potettero trattenere una risata, che sforzò a ridere nella barba anche il burbero benefico. Giacomino ebbe in compenso un altro sorbetto. L'aneddoto piccolo in sè dimostra che a far delle teoriche educative ci arrivan molti: spesso ci arrivano anche coloro che non sanno far altro. Una cosa è il dire e il dar precetti e il riconoscere quel che è buono e ragionevole: un'altra cosa è il saper applicare e praticare queste leggi e il non guastarle col proprio temperamento. Non c'è maestro d'abbicì che non si creda in caso di scrivere un libro di massime: ma pochissimi sono coloro, che non sacrificano le più belle massime del mondo ai risentimenti, ai vizi del loro temperamento o alle piccole ragioni del loro tornaconto. La maggior parte di quelli che credono di ben educare, più che condurre, urtano, e se qualche volta l'urto è per caso in senso buono, il più delle volte manda l'allievo a rotolare sotto i tavolini e obbliga a un eccesso d'indulgenza che guasta in un altro senso. Per educar bene ci vuole, oltre al cuore e al cervello, una mano eguale come quella del tessitore; non l'impazienza, ma la continuità, non le scosse nervose che scompaginano i fili della tela, ma la volontà scorrevole e forte che opera senza stridere. I rimproveri che scattano, non dal risentimento della ragione, ma dalla foga e dalla sovrabbondanza di un temperamento troppo eccitabile, sono armi che si scaricano in isbaglio, son colpi perduti, che vuotano l'arme senza vantaggio e possono anche uccidere un innocente. Nell'educazione il temperamento dell'educatore può essere un bonissimo servitore; ma è sempre un cattivo padrone. Càpita qualche volta che un temperamento troppo forte, venendo a urtare in un soggetto troppo delicato, lo guasti per sempre o perchè lo avvilisce o perchè lo snatura. Il debole spaventato è uno a cui mancano le forze: che vale frustare un cavallo sfinito? Ho conosciuto uno di questi padri troppo rigorosi, che aveva un culto così solenne della virtù e un senso così alto dell'autorità paterna, da non permettere ai figliuoli d'aprir la bocca, se non interrogati su cose di grande importanza. A pranzo si taceva come in un convento: il ridere forte era sconvenienza, il rider per nulla sciocchezza, il dormire un po' a lungo indegno dell'uomo, il mangiare con troppo gusto foga bestiale. Il far il bene era la regola, quindi inutile la lode a chi fa bene, come non si loda il sole quando ritorna al mattino. L'idea del male, del disordine morale, del debito, della dissolutezza giovanile non si discuteva neppure, come non si parla di cose che non ci riguardano. Non ammettevasi nemmeno in ipotesi che uno di casa potesse, passando vicino a qualche cosa di sporco, insudiciarsi un pochino la manica. E i figliuoli eran così persuasi di questa fatalità morale, che per paura di mettere il piede in fallo non si arrischiavano quasi a camminare. Così da un padre forte e austerissimo discese una famiglia di ragazzi timidi, paurosi dell'ombra propria, sempre indecisi, che dopo aver tentennato in varie cose, finirono per mancanza di presenza di spirito in umili impiegucci senza gloria e senza responsabilità. Uno solo più vivo degli altri, avendo cercato ribellarsi, andò a cader peggio. Messo in collegio imparò subito a falsificare gli attestati scolastici, tale e tanta era in lui la paura di tornare a casa con qualche punto al di sotto del bene. Per coprire i falsi dovette imparare anche l'arte del mentire con prontezza senza arrossire: per comperare il silenzio dei complici pericolosi dovette più d'una volta pigliar del denaro in casa, e non bastando, pigliar anche quello in prestito dagli strozzini. Scoperto, la paura di confessare questi delitti a un padre così terribilmente virtuoso, riempì l'animo del nostro timido colpevole di tanto terrore, che preferì fuggire e darsi a una vita d'avventure. E se ne andò per molti anni reietto e maledetto, vivendo un po' della pietà dei parenti, un po' mendicando la vita in uffici degradanti, perseguitato dalla voce che insegue sempre i colpevoli, nell'ombra gelida della diffidenza e della paura. L'austero padre ne morì di dolore e l'ultima parola che scrisse nel testamento fu una sciagurata imprecazione al Caino, che aveva disonorato il nome di una intemerata famiglia. Il vecchio intemerato scese nella tomba colla coscienza della sua infelicità, non con quella della sua incapacità educativa e della sua colpa. * * * Son due casi di persone colte, educate al senso delle cose, che credevano d'applicare dei princípi: ma quanti altri casi potrei recar qui di persone meno colte, o ignoranti del tutto, alle quali la natura assegna il santo e nobile ufficio di educare e non sanno nemmeno da che parte s'incominci. Come può educare gente che non fu mai educata? Chi dà il diritto a certi vetturali di guastare l'anima d'un uomo, come non guasterebbero peggio il corpo d'una bestia? A qual prezzo hanno acquistato questo sacro diritto? Perchè un uomo in un momento d'ubbriachezza ha generato un figliuolo, basta per riconoscere in lui la dignità di padre? può la società, che dall'unione di tutte le famiglie ritrae la forza sua, riconoscere questa dignità in persone, che ammaestrano la prole come si fa colle scimmie? e perchè non potrà togliere quest'autorità a chi non è degno, come leva i diritti al ladro e all'incendiario? Guastare un uomo non è qualche cosa di peggio che scassinare un uscio o dar fuoco ad un pagliaio? Ecco un gruppo di questioni che una Strenna non potrebbe per ora risolvere senza diventare un libro troppo serio e forse anche un poco pericoloso; lasciando al lettore la fatica di rispondere, citerò altri esempi, osservati da me, e che son troppo frequenti per non essere creduti: anche questa volta si tratta di gente, che credeva di dare ai figliuoli quel che si dice la loro brava educazione. * * * Era mio vicino di casa e abitava un appartamento dirimpetto al mio un modesto impiegato dell'archivio, il quale aveva un figliuolo che capiva poco il latino. Il buon padre, volendo che il ragazzo approfittasse anche lui della bella lingua dei protocolli, si metteva ogni sera d'estate dietro il tavolino del figlioletto, mentre questi attendeva ai doveri di scuola, e aperto il libro degli esercizi, cominciava di solito con questo preludio: - Ora vediamo il sor asino alla prova... - Si noti che le finestre erano aperte e che la voce squillante del padre educatore passava sopra i tetti. I casigliani, che in quelle ore d'estate stavano alle finestre a prendere un po' di fresco, erano dunque invitati ad assistere alle prove del sor asino. Il quale asino diventava un somaro al primo scarabocchio, e il somaro un somaraccio, e siccome i somari meritano d'essere picchiati, ecco scapellotti massicci piovere sulla zucca rossiccia del piccolo Tito Livio a ogni minima sconcordanza. Il povero educando sentendosi scombussolare sotto quei colpi le caselle delle declinazioni, capiva ancor meno; e più il padre zelante strillava coi diti aperti per fargli intendere la regola dell'ut e del quamquam, tanto meno il ragazzo era in grado di intendere. Non bastando gli scapaccioni, il padre maestro provava a scoterlo sulla sedia, a schiacciargli il muso sulla grammatica, finchè qualche vicina pietosa non usciva a gridare che quella non era la maniera d'educare i figliuoli. - II libero cittadino, offeso ne' suoi diritti domestici, rispondeva che di suo figlio era padrone lui, e che quando un padre procura di dare a un asinaccio la "sua brava educazione" la gente non dovrebbe metterci il naso. Il ragazzo, che capiva d'avere ne' casigliani dei santi protettori, cominciava a strillare come un aquilotto; e allora alle tranquille meditazioni filologiche succedeva la casa del diavolo. Volavano sedie, ballavano tavolini, urlava il padre irritato, schiattiva il figlio inseguito, e qualche volta la lezione educativa finiva con una rottura di vetri, che il figliuolo doveva pagare a poco a poco a furia di mortificazioni sulla colazione e sul desinare. Quel povero padre archivista soffriva sinceramente d'aver un figliuolo così testardo; nè si accorgeva nella sua buona fede che l'asino era lui. * * * Nella stessa casa abitavano certi coniugi Cuci, di Napoli, piovuti a Milano dopo una lunga serie di peripezìe domestiche con un nidiata di bambini dagli otto anni in giù. Di che cosa vivessero e come nutrissero i figliuoli, non si è mai potuto capire. Il marito usciva la mattina dopo aver regolarmente picchiata la moglie, che forte e robusta come una montanara, sapeva magnificamente difendersi colle molli del camino. Poi usciva anche lei e perchè la gente non rubasse i bambini, li chiudeva in casa, vestiti sì e no, coi letti disfatti, spesso col fuoco acceso. Venivano da quelle stanzuccie strilli, schiamazzi, lunghi piagnucolamenti di bimbi in camicia, che tiravano per la casa le coperte del letto e invocavano la mamma. Quando questa, rientrando dopo le sue misteriose escursioni, trovava la casa in disordine, picchiava a destra e a sinistra senza distinzione di sesso; se la sera rientrava il marito ubbriaco, la musica era perfetta. Con tutto ciò non mancavano i giorni di tenerezza, quando marito e moglie e i cinque figliuoletti, ravviati con qualche cura, uscivano insieme a prendere un sorbetto o a far una passeggiata sui bastioni. Guai a colui che avesse toccato un capello a uno di quei vezzosi piccini! L'ultimo dei maschietti andava quasi sempre vestito da bersagliere e il babbo se lo portava attorno in braccio con una specie di ostentazione patriotica, come se mostrasse Luciano Manara. Eran bei bambini biondi, delicati, ma sporchi, ignoranti, turbolenti, sempre alle man tra loro, senza rispetto per nessuno: nelle contese tra babbo e mamma ne pigliavan sempre, ma poi si faceva la pace. Papà sonava la chitarra e quando non era troppo ubbriaco, intonava volentieri una canzonetta di Piedigrotta. Data la nota e il tono cantavan tutti come merli in quelle quattro stanzette aperte in cui entrava il bianco raggio della luna. Babbo e mamma avrebbero dato il sangue per i loro cari "piccirilli"; ma era un amore ubbriaco, che ispirava un ubbriaco sistema di educazione. Ero alle mie prime armi - mi raccontava un giorno la buon'anima del professor Marchini - e in grandi strettezze di mezzi. La laurea mi aveva portato via gli ultimi risparmi dell'annata e i miei di casa, più che a darmene, aspettavano che io cominciassi a restituire. I mesi delle vacanze passarono senza lezioni e senza offerte: già cominciavo a disperare, quando un prete del mio paese mi propose di entrare in una casa di signori in qualità di precettore e di maestro d'un giovinetto sui quindici anni, futuro erede d'un gran nome e d'una grande sostanza. Per quanto mi facesse male l'idea di chiudermi in gabbia, pure, visto l'andamento della stagione, accettai subito e rimpannucciatomi con denari presi a prestito, mi presentai, non dispiacqui al conte e alla contessa e coi primi di novembre entrai a far parte della famiglia. Per un uomo nato in una fattoria, abituato alla giacca e alla pippa del cacciatore non fu un piccolo sacrificio il dovere star sull'etichetta dell'abito nero, sempre in quinci e in quindi nei discorsi, nei complimenti, nelle riverenze. Non tutti son nati per far la vita del signore e uccel di bosco non ama la gabbia d'oro; ma non mi aveva il mio professore di pedagogia parlato dell'opera dell'educatore come di una missione di sacrificio? lo spirito d'un signore davanti alla scienza ha gli stessi diritti dello spirito d'un poveretto e se altri, migliori di te (dicevo a me stesso) si sacrificano a una vita di stenti, in cima a una montagna, per la redenzione morale delle plebi, puoi anche tu, Giacomo, sacrificarti a mangiare tre piatti a tavola per redimere un conte. Questo giovinetto un giorno sarà padrone di due o tre milioni; tu non hai milioni, Giacomo, ma hai delle idee. Se puoi innestare delle buone idee sui milioni del tuo discepolo, non vedi quanto bene puoi fare a lui, alla patria, all'umanità? Con questi propositi dètti principio alle mie lezioni di latino, di greco e di bel comporre. Ma avevo fatto i conti senza l'oste, e l'oste era questa volta, parlando con poco rispetto, l'illustrissimo don Momolo, mio scolaro, un bel ragazzotto sano e robusto, pieno di vita e di prepotenza, che amava più il suo cane da caccia e il suo puledro che non tutti gli eroi della Grecia e di Roma presi in un mazzo. Sapeva d'essere ricco, sapeva che avrebbe ereditato alla morte di uno zio un immenso patrimonio, sapeva che la mamma era debole e il babbo inconcludente, quindi comandava a bacchetta, per non dire a bastone, trattando la servitù come bestie, ignorante sì, ma altrettanto pieno di sè, come se il mondo fosse stato fatto pe' suoi piedi. La prima volta che ci trovammo soli davanti al tavolino, accese una sigaretta e mi disse tra una fumata e l'altra: - Senta, sor Giacomo, lei capisce che io di queste sue grammatiche non so che farne e che se mi rassegno è per non disgustare il principe mio zio. Anche per far piacere a quella buona gente là (voleva dire i suoi genitori) mi rassegno a star qui con lei qualche ora al giorno; ma vediamo di non tormentarci a vicenda. Lei spieghi, io cercherò di capire, ma se non capisco non si disturbi. Dica a mamà e a papà che le cose van bene e così vivremo in pace. Per lei, è tanto fiato risparmiato, lavora meno e non ci perde nulla, per me è tanta salute. Coll'altro suo predecessore si era fatto così e si andava benone. - C'è già stato un altro prima di me? - domandai. - Dica due o tre, tra cui un prete pedante che si rese impossibile per la sua sporcizia. L'ultimo era più ragionevole, ma sul più bello mi accorsi che mi rubava le sigarette. Speriamo che con lei si possa trovare un modus vivendi... dico bene in latino? Lascio immaginare l'effetto che un discorso di questa natura in bocca a un ragazzo di quindici anni produsse sulla mia povera pedagogia. Il primo sentimento fu di ribellione, cioè di prendere il cappello e di andarmene; ma la povera contessa al mio risentimento si commosse fino alle lagrime, mi pregò di aver pazienza, di non dare importanza alle parole. Le avevano detto molto bene di me e ormai la stagione era troppo inoltrata per poter trovare un altro personale. Don Momolo non poteva naturalmente frequentare le scuole pubbliche, dove s'insegna un po' di tutto, e lo zio principe pretendeva che fosse istruito almeno nei classici. Ora stava per entrare in un'età pericolosa e guai se non avesse avuto sempre al fianco una brava persona prudente! Io dovevo fare insomma da contrappeso alla sua giovanile sfrenatezza e impedire che lo zio principe si disgustasse d'un nipote così poco disciplinato. - Proveremo tre mesi - dissi - ma voglio carta bianca. Se dopo tre mesi non vedo un miglioramento, dichiaro fin d'ora che cambio mestiere. - Noi ci fidiamo di lei - esclamarono colla voce piagnucolosa quei due poveri genitori spodestati; e confesso che in quel momento provai una certa compassione della loro debolezza. Buoni, teneri di cuore, innamorati e superbi di quel loro maschiotto, unico erede d'un gran nome e d'una grande sostanza, avevano cominciato fin dai primi anni a rinunciare ai loro poteri. Tutto era bello quel che veniva da Momolino, anche gli schiaffi e le insolenze. Tutto era ben fatto quel che faceva lui, anche quando metteva le mani nei piatti della salsa e la salsa in faccia alla gente. Tutto doveva inchinarsi davanti a don Momolino e se don Momolino diceva che il sole era polenta, non bisognava contraddirlo, ma: sì, signorino, il sole è polenta, sono io l'asino, il sapiente è lei... - Così per una serie lunga di amorose vigliaccherie, padre, madre, parenti, servi, maestri avevano messo insieme quel bel tipo di ragazzo, ingordo nel mangiare, intemperante nel bere, già bisognoso di liquori alla sua età e con quel temperamento, manesco con tutti, fin colle ragazze... E io dovevo colla mia pedagogia, co' miei Romani e co' miei Greci far da contrappeso a questo colosso, redimere uno spirito, domare la belva. Era possibile sbagliare nel metodo; fallita la forza dell'amore e della persuasione, chi garantiva che potesse giovare la forza della forza? Il ragazzo era troppo forte egli stesso, troppo padrone della situazione e del cuore de' suoi per non saper resistere a un giovine pedagogo armato fino ai denti di cronologia e di verbi. Se un giorno io avessi respinta una sua insolenza con un'altra e il futuro principe avesse alzata una mano, a me, naturalmente, non restava che di stritolarlo, o di metterlo sotto i piedi, sistema non ancora approvato dalla pedagogia sperimentale e il meno adatto forse per la buona educazione d'un giovine signore. Basta - dicevo per consolarmi - -tre mesi non sono la morte d'un uomo; mordere non mi può mordere: o almeno speriamo che non sia idrofobo. Cominciai a tenere un contegno riservatissimo, corretto, senza adulazioni e senza sgarbi, una vera posizione verticale, come dev'essere sempre la linea dell'educatore. Quando tornò a ripetermi il suo famoso programma di studio, risposi semplicemente: - Parlo al gentiluomo, non all'allievo. Capisce che io non posso accettare e nemmeno ascoltare simili proposte, ma d'altra parte non voglio essere nemmeno il suo carceriere. Proviamoci a vicenda tre mesi; se non c'intenderemo, ci lascieremo da buoni amici. Nè lei ha bisogno di me, nè io fortunatamente ho bisogno di lei. Riconosco anch'io che lo studio per un giovine vivace e ricco come lei possa sembrare una gran noia. Lo so per prova, perchè è stata una noia anche per me. - Che? anche lei si è annoiata? - Mortalmente. Alla sua età preferivo dar la caccia ai fringuelli, ma poi ci ho pigliato gusto, come vede, e vivo coi libri. Per me il caso era un po' diverso; io dovevo farmi una posizione e mettermi in grado di guadagnarmi il pane; lei non ha nessuna necessità di sacrificarsi. Provi questi tre mesi; se dopo sentirà di non poter resistere, io persuaderò i suoi genitori a non tediarla più. Non è necessario che tutti siano sapienti a questo mondo: anzi... - e lasciai capire che è quasi un bene che i ricchi siano un po' ignoranti. Il discorso parve a don Momolo così nuovo e così originale, che mi guardò con occhi meravigliati e non osò replicare; e siccome non cessava dal rotolare sigarette, gliele tolsi di mano, con bella maniera, dicendo: - Senta, io ho un vizio più brutto del suo: fumo nella pippa. Troverebbe decente che io affumicassi di tabacco trinciato il suo gabinetto? Dunque facciamo un sacrificio a vicenda. - Sulle prime parve sorpreso lui stesso di non poter respingere questi comandi; abituato a vincere sui deboli, non capiva questa forza che gli resisteva, non capiva dove fosse e come fosse. Era semplicemente la forza morale che ha sempre vinto e dominato gli istinti; è la forza del fraticello inerme che arresta il cavallo del barbaro conquistatore: è la forza che vien dall'età e dall'esperienza, che serve di freno agli impeti irragionevoli della natura. I nostri studi nei primi tempi non furono mai eccessivi. Lasciando in disparte le aridezze grammaticali, mi distesi a raccontare quanto di più interessante e di più curioso offre la storia degli antichi popoli, gli usi e i costumi dei Greci e dei Romani, il segreto delle loro vittorie, l'ordinamento dei loro eserciti, il modo e la tattica delle loro battaglie, la foggia delle vesti e delle armi offensive e difensive. Parlavo passeggiando per la stanza, disegnando col gesso sulla tavola nera le figure e i punti strategici, schiarendo il discorso con libri illustrati e colla rappresentazione dei monumenti, delle statue e delle rovine. Furono per don Momolo quindici giorni di passatempo delizioso, talchè ebbe a dire con suo padre che lo studio fatto in questa maniera era un altro paio di maniche. In capo ai tre mesi rinnovammo il contratto. Don Momolo cominciò a stimare il suo maestro e a far qualche cosa; io già speravo che avrei a poco a poco rifatta la coscienza del mio allievo, ma, povero a me, non ho potuto rifare quella de' suoi genitori. Qualcuno andò a raccontare alla pia contessa che io ero un po' troppo liberale nelle mie idee, che nella storia non dicevo sempre bene dei papi, che non biasimavo abbastanza gli orrori della rivoluzione francese, che mangiavo di grasso il venerdì. Raccolsero un piccolo consiglio di famiglia e dopo aver pesato il pro e il contro, con bella maniera mi mandarono a dire che intendevano mettere don Momolo in un collegio all'estero, presso i padri gesuiti di Lione. In premio de' miei buoni servigi oltre il convenuto mi regalarono una bella pippa di schiuma. - Che Dio vi benedica! - dissi in cuor mio, non senza un po' di amarezza. Don Momolo oggi è uno dei più sfrenati giocatori; e giuoca, io credo, per dimenticare il male che ha fatto a' suoi e a sè. In mezzo alla sua rovina non ha conservato che una passione, voglio dire una certa manìa per le cose antiche. Chi aggiusta il capo a certi genitori? III. CHE COSA SIGNIFICA EDUCARE. Lasciando stare certe miserie che non si possono guarire con delle Strenne, ci sia permesso domandarci come mai da uomini probi e da donne oneste, che hanno a cuore il bene dei loro figliuoli, derivino non di rado figli libertini, dissipatori, giocatori, ragazze pettegole, ambiziose, rovina delle loro case e di quella dei loro mariti. Gli è che le buone intenzioni non bastano: è il metodo che occorre. L'educare è un mestiere, diciamo così, che bisogna saper fare come ogni altro, almeno; per non dire meglio d'ogni altro. E invece è quello che meno s'insegna e che meno volentieri s'impara. Una signora si vanterà facilmente di conoscere l'inglese e magari anche il russo; ma dirà coll'eguale assurance che, già, lei non sa educare i suoi figliuoli: che per questo li mette in collegio. Molte lo confessano con una specie d'ingenuo candore, come si confessa una simpatica debolezza che non si sa vincere; ma è pur vero che non si sono mai preoccupate d'imparare quel che non sanno. A molte questa preoccupazione parrebbe una stravagante pedanteria. O che si deve studiare pedagogia, leggere il Lambruschini, seguire un corso di metodica alla scuola normale? - Non credo che sia necessario leggere libri e andare a scuola per imparare quel che molte altre imparano così bene col cuore e col buon senso. In quanto ai libri - tranne le Strenne - è bene non fidarsene, perchè chi li scrive di solito non ha figliuoli ed è sempre facile educare i figliuoli degli altri. Basterebbe, signore mie, dire presso a poco così: "Se il mettere al mondo dei figliuoli o l'opera più importante della vita, è naturale che a quest'opera si dia qualche importanza, come la dò a molte altre cose meno importanti." "Una creaturina umana, ragionevole, così bella e delicata, uscita da me, affidata a me, destinata a vivere con me e dopo di me, a raccogliere il mio ultimo respiro, a palpitare d'amore per me e per altri esseri, destinata a patire molte ingiustizie o forse a produrre cose meravigliose e immortali, è degna d'ogni riguardo. Io la devo tener ben da conto: è la cosa più preziosa della mia casa: sempre poco sarà tutto quello che io saprò fare. Una creatura siffatta, in cui c'è il soffio di Dio, è tal tesoro che al mondo uno maggiore non può darsi. Per colpa e negligenza mia questa creaturina ora così bella e così promettente, che ruba i baci cogli occhi, può diventare un soggettaccio qualunque, un fior di vigliacco, un ubbriacone, una megera, un pezzo di fango, come all'incontro per merito mio può diventare un Rafaello, un eroe, un santo, un angelo di bontà e d'amore. Posso dunque disinteressarmi di questa missione? posso scaricarne la responsabilità sulle spalle degli altri? Io che palpito per il mio bel vaso del Giappone, che balzo dal letto se mi pare che altri me lo tocchi, devo rimanere indifferente per questo vas spirituale, che ho fabbricato io con quanto di più dolce concede la natura, coll'amore? Le visite, i libri, la musica, le scuole, la politica, la scienza, le corse dei cavalli, le ville, i vieux Saxe, i Sèvres sono tutte bellissime cose, che hanno una per una la loro ragione d'essere. I commerci, la bottega, la casa, il ménage, la scuola, lo studio, il banco, la politica, sono alla loro volta occupazioni importantissime, svaghi e pensieri che hanno pure la loro ragione d'essere; il rosario, la santa messa, la scampagnata, il romanzo, la maldicenza, il processo del giorno, la colazione, il pranzo e fin un paio di scarpe rotte possono dare un momento a pensare; ma in mezzo a tutti questi pensieri il pensiero dei propri figliuoli dev'essere sempre presente, anzi deve fare di centro agli altri, dev'essere sempre sottinteso come quello in cui s'impernia la vita. Non si capisce come non sia sempre e naturalmente così per tutti e in ogni circostanza, perchè gli altri pensieri vengono dagli uomini e dalle cose, quello dei figli vien dalla natura. Non si capisce come possa alla forza violenta della natura sovrapporsi la foggia d'un cappellino, una moda, un capriccio, una pigrizia meschina, una deviazione così strana degli affetti. Se si lasciasse parlare la voce schietta della natura, nessun'altra voce potrebbe parlare più forte; nessun dovere ci sarebbe più dolce o soave; non si vorrebbero altri compagni che i figli nostri fino alla morte; e in nessun luogo ci sembrerebbe più santa la preghiera e più bello il culto della virtù che in mezzo a loro. Così dev'essere, signore mie, non per comandamento di alcuna legge incisa in pietra o su tavole di bronzo, o per disposizione di codice sacro o profano; ma perchè così vuole l'istinto stesso dell'umanità. Rinunciare agli affetti domestici per cercarne altri più enigmatici e più lontani è come chiudere le finestre alla luce del sole per correr fuori a comperare delle candele di sego. Chi ama i suoi figliuoli è ricco di un bene che non ruba a nessuno e che nessuno gli può rubare. Negli affetti domestici e il germe degli affetti sociali, che hanno bisogno di nascere in qualche luogo e non nascono meglio che all'ombra della casa. Le virtù che non furono nel loro nascere raffinate dalla mano materna sentono sempre alcun poco dello scabro e del selvatico. È per l'uscio della casa che gli eroi passano nella storia. * * * L'avvenire vedrà molte cose, che ora non si sognano nemmeno, ma non potrà mettere uno spillo attraverso ai cuori. Se avvenire ci sarà, non potrà essere che più bello, nel senso cioè che sia dato a un numero maggiore di persone di godere delle squisite gioie domestiche, che ora sono riservate a pochi. Lo stesso socialismo, che sorge come uno spauracchio della famiglia, dovrà fondarsi su di essa quel dì che vorrà essere naturale. * * * Noi dobbiamo amare i nostri figli per quel che sono e per quel che saranno; ma se non basta questa ragione oggettiva, procuriamo almeno di amarli per conto nostro. "Il fanciullo - dice uno scrittore - non è dato all'uomo solamente per continuarne la specie, per seguirlo e per sostituirlo, ma anche per sorreggerlo, per rallegrarlo, per ripararne le perdite, per ringiovanirne la vita. Presso al termine della sua carriera, l'uomo solitario si sente preso da un invincibile languore e si distacca dalle cose con tristezza. I suoi gusti, i suoi piaceri, le sue facoltà, le sue affezioni cadono come foglie secche e sbattute dal vento a' suoi piedi. Davanti a sè non vede che una tomba. Ebbene il fanciullo lo rivolge verso una culla, nasconde l'abisso coprendolo di fiori. Il vecchio tronco rinverdisce in un tenero e fresco rampollo. No, il padre non invecchia. Egli muore, ma, dirò così, muore pieno di vita. Si spegne ma pieno di speranze. Egli sogna, fa progetti, ama, soffre, rinasce nel suo figliuolo. - Dimmi, o vecchio, quanti anni hai? - Gli anni di mio figlio." (T. DUFOUR). IV NOI SIAMO NEI NOSTRI FIGLI. Per educare bene i figliuoli bisogna prima conoscerli, ma conoscerli bene non si può, se non conosciamo prima noi stessi, che li abbiamo messi al mondo. Ciò ritorna a dire che per educare bisogna essere educati. I nostri figli, è stato scritto in un'altra Strenna(1), sono spesso la parte migliore di noi stessi; ma ciò non toglie che qualche volta possano essere la parte peggiore. In generale avranno molto di noi nelle buone e nelle meno buone qualità, a cominciare dagli umori e dal temperamento fino alle simpatie e alle stramberie. Si dà non di rado che i figli non siano altro che la risultante finale, la continuazione, lo svolgimento naturale d'un germe, che spesso rimase incompleto nei padri. Giovanni Santi, mediocre pittore, fiorisce in Rafaello; un modesto sonatore di corno trionferà in Gioacchino Rossini, suo figliuolo. Riteniamo dunque che la chiara conoscenza di noi stessi è già una buona bussola per bene orientarci nell'indole dei nostri figliuoli. La memoria di quel che abbiamo più amato e odiato da ragazzi, le angoscie sofferte per le piccole cose, le ineffabili noie lentamente digerite negli anni della giovanile aspettazione, le ripugnanze istintive per certi gusti, gl'impeti e gli scoraggiamenti tra cui navigò la nostra vita sono altrettanti documenti di quel che possiamo trovare in chi è nato da noi. Molto intende chi molto ricorda: il primo libro di pedagogia siamo noi stessi. Con questa scorta o vademecum di noi stessi potremo spiegarci dei misteri nell'animo involuto del nostro bambino. Qualche volta vi scopriremo una vocazione che non ha potuto attechire in noi, o aggravata una cattiva tendenza che non ebbe tempo di svilupparsi. Non sempre da un sonatore di corno nasce un Rossini, ma quasi sempre da un padre indolente deriva un figlio indolentissimo, se non ci si pone un rimedio. Credere in tutto e per tutto alla fatalità dell'ereditarietà, come vogliono questi scienziati e come ha dimostrato a esuberanza lo Zola in venti romanzi, non è il caso; è bene ammettere in ogni individuo qualche cosa che vien da altrove. Ma molto si trasmette e una chiara conoscenza di noi stessi è già una buona carta per orientarci nell'indole dei nostri figli. Così opereremo con più giustizia e con più compassione; non incolperemo i nostri figli di cattiverie, che abbiamo loro inflitte mettendoli al mondo, e non correremo il rischio di castigare troppo severamente negli innocenti le nostre colpe trascurate. Quando vedete un padre furioso battere bestialmente un suo ragazzo petulante, dite pure che quell'uomo batte sè stesso un po' in ritardo. E se vedete una mammina carezzare e leccare un suo caro frugolo indolente, dite pure che essa continua a carezzare la sua pigrizia. In ogni piccola vanitosa chiacchierina traluce e parla sempre una vanità e una leggerezza più lontana, che non è difficile scoprire, tornando indietro qualche passo. Se i precetti assoluti valessero qualche cosa in questa serie di rapporti diffettivi che si chiama vita, si dovrebbe scrivere che il miglior mezzo per avere dei figli buoni e virtuosi è quello di dar loro genitori buoni e virtuosi; ma siccome bisogna contentarsi sempre del minor male, è già molto se i genitori sanno prevedere nei loro figli i difetti che non hanno saputo correggere in loro stessi. Così nei figli nostri noi diventiamo migliori; educando ci educhiamo. Dove possiamo noi trovare maestri più cari e più amabili? come condurre le sacre leggi e i dolci vincoli di natura a una maggiore espressione morale? Buoni non si può essere per conto nostro? Pensiamo che pei figli nostri non si è mai buoni abbastanza. È in questo invito soave che ci viene dai piccini che troviamo la forza d'essere grandi. È in questo senso che la paternità riveste il carattere d'una missione civile e religiosa, è in questa missione che l'uomo non è soltanto un animale della terra. Che cosa di più divino sulla terra d'una madre che educa un bel sentimento in un piccolo cuore? come può esservi un uomo più nobile e più forte di colui che sorregge colla mano un giovinetto attraverso un passo scabroso? E se possiamo a due belle domande aggiungerne una terza meno lusinghiera, ci sia dato di chiedere ancora: - Quanti intendono questa missione? * * * Si son maritati per desiderio di stare insieme, per cieco amore, come si dice, e la conseguenza fu un certo numero di figliuoli. Ora che i figli ci sono, è naturale che i genitori li faccian crescere mediante un certo consumo quotidiano di pane e di pietanza e che li mandino vestiti come vuole il decoro della famiglia. Arrivati a una certa età, andranno a scuola o in collegio, impareranno quel che imparano gli altri, si avvieranno a una professione, ma tutto questo avviene per una forza naturale di successione, per il contraccolpo d'una cosa sull'altra, spesso per un disimpegno, non perchè il babbo e la mamma abbiano nel cuore un'idea e sotto gli occhi un piano di educazione. Il babbo ha la sua politica, i suoi affari in borsa, la sua candidatura, i suoi libri, i suoi giornali, gli amici del club, quando non ci sono anche delle amiche; la mamma ha da pensare alle sue telette, ai ricevimenti, ai teatri, alla sua influenza morale sulla carriera del marito, al suo salotto. L'uno e l'altra sanno che ai figliuoli non manca nulla e basta. Per i primi anni stanno nelle mani della servitù, poi in quella dei maestri, delle istitutrici o delle suore: poi passano, quasi senza fermarsi, i giovinotti nel bel mondo, le ragazze, sposate, dotate e imbrillantate, nella casa dei mariti. Questa successione di cose è quel che dicesi in generale dare una buona educazione. Non sempre riesce male, se l'indole è naturalmente buona, se i casi si coordinano da sè con una certa armonia; ma basta l'urto tra due cose per sviare una volontà, per guastare un carattere, per rovinare un uomo. Dove manca un affetto che sorveglia giorno e notte, dove manca un cuore che nota i minuti che passano, ivi non può essere vera educazione. Il denaro può pagare lautamente degli educatori mercenari, ma non può sostituire ciò che non si paga: l'amore. * * * Peggio vanno le cose quando tutta la famiglia poggia sul falso, perchè tra marito e moglie non c'è accordo di sentimenti, ma solamente un equilibrio apparente mantenuto da convenienze e da convenzioni sociali, da rispetti umani, da un freddo cerimoniale d'ordine, da regole più di galateo che di cuore. È una disgrazia nascere in queste case, anzi son d'opinione che tali figliuoli non dovrebbero nascere. Generati nell'equivoco da due persone che non si amano e forse non si stimano, devono portar nel sangue il germe dell'equivoco e della falsità. Non sono fiori nati al sole aperto dell'amore, ma poveri fiori di serra, che l'arte e l'industria dei giardinieri seguiterà a guastare fino alla fine. Da queste famiglie escono certe nature moralmente rattrappite e arzigogolate come orchidee, alle quali manca ogni profumo di bontà e di simpatia. Le malattie morali della nostra fine di secolo, la morbosità e la nevrosi di certi cuori e di certi cervelli giovanili, quel non so che di degenerato e di decadente che logora le stesse manifestazioni dell'arte moderna, sono conseguenze in gran parte dei falsi connubi. Dalla radice la crittogama si comunica a tutta la pianta e i frutti imbozzacchiscono sui rami. Bugiarda è la pace domestica, bugiardo il rispetto apparente, bugiardo il sorriso della mamma, bugiardi i grandi affari che tengono il babbo fuori di casa; bugiarde sono fin le lagrime che commuovono qualche volta il piccino, quando la mamma agitata, sconvolta se lo piglia sui ginocchi e cerca alla sua creatura un soffio d'innocenza e di sincerità. Bugiardi sono i servitori, i parenti, i conoscenti che mentiscono un rispetto, una stima, un'amicizia che non provano. Come può in quest'aria satura di menzogna crescere e svilupparsi una coscenza onesta e sincera? Se il piccino potesse parlare da filosofo, ecco quel che dovrebbe dire a' suoi genitori: "Voi mi avete messo al mondo senz'amore e senza desiderio: io vi ho seccato fin dal principio, vi secco e vi seccherò sempre, perchè io sono, per voi una bugia incarnata. Io non vi ho chiesto di mettermi al mondo; ma ora che ci sono, ho diritto alla mia parte di sole, di pane e di amore; ciò che non mi vien dato io ruberò. La bugia genera il ladro. Io sarò dunque il ladro della vostra casa, dissiperò il vostro patrimonio, ingannerò anch'io una donna, quando sarà la mia ora, le ingannerò tutte, barerò al giuoco, falsificherò qualche firma, mentirò a tutti e a me stesso, sarò insomma quel che mi avete fatto, un uomo falso". Son cose che fanno pena solo a pensarle, non è vero? eppure se si risale a cercar l'origine delle molte e spaventose catastrofi, che sgomentano i tempi nostri, a Parigi, a Roma e un poco dappertutto, al di là o al di qua del solito cherchez la femme, si trova sempre una coscienza falsa. E il filosofo che volesse risalire più in su, dove non arriva il giudice istruttore, fino all'origine di quella coscienza, troverebbe quasi sempre la responsabilità di altre coscienze false, che usurparono alla natura i santi nomi di padre e di madre. * * * C'è infine della gente - e forse ce n'è troppa - che nel matrimonio non vede che sè stessa, i suoi comodi, il piacer suo. Per costoro i figli sono un di più, per non dire un di più noioso. Questi bravi egoisti credono che la religione e la sapienza degli antichi e dei moderni legislatori non abbiano fatto altro che promovere e stabilire le leggi della loro personale felicità. Innamorati o gelosi, dopo i loro beatissimi amplessi, non c'è nulla che più li occupi quanto le piccinerie e i pettegolezzi del loro amor proprio. Sono costoro gli egoisti del matrimonio, pei quali i figliuoli e il pensiero della loro educazione guastano la digestione dell'amore. Questa razza di gente, facendo sè stessa centro del mondo e non operando che all'incremento della loro illustrissima personalità, non vedono nella istituzione del matrimonio che un meccanismo della loro felicità, non già un contratto e un'obbligazione di due convenuti verso dei terzi, che una volta incomodati, hanno diritto di essere ascoltati e rispettati. I figliuoli per i beati egoisti (tra cui il numero maggiore è forse di egoiste) più che a consolare e rallegrare la casa, nascono a disturbare una grande quantità di bei progetti e a rompere i sonni tranquilli del babbo e della mamma. E son poi questi stessi signori egoisti che al primo malumore invocano a grandi stridi la legge del divorzio. Se il meccanismo è guasto e non fabbrica più quella certa quantità di felicità giornaliera di cui hanno bisogno, gridano che il matrimonio è una galera, una catena corta, una cosa irragionevole; mai vien loro in mente che il matrimonio è fatto per l'interesse e per la protezione dei minorenni e nell'interesse generale della società. Le religioni e le leggi che consacrarono il matrimonio non videro in esso che uno scopo, precisamente quello che i beati egoisti non vedono - i figliuoli - eredi naturali della vita, del progresso e dei beni del mondo. Che deve importare al legislatore il tenero amplesso di due amanti? Ma i signori egoisti si ostinano a non veder che sè stessi, anche in mezzo a una dozzina di figliuoli. Quando ci son dei figli, il matrimonio non è più un numero divisibile per due e molto meno per quattro. Un uomo e una donna non si maritano per sfruttarsi a vicenda. Chi ha questo gusto non ha bisogno d'incomodare la parrocchia, lo Stato civile, due paia di testimoni e una mezza dozzina di carrozze di gala. Un matrimonio è un'obbligazione che due incontrano verso la società civile, che promette alla sua volta la protezione delle leggi: e - fin che ci sarà - sarà sempre un atto giuridico a beneficio di un terzo interessato, che ha diritto di essere sentito in giudizio e di dire anche lui le sue ragioni nelle differenze del signor padre e della signora madre. Se poi c'è anche un quarto o un quinto, hanno diritto anche loro di essere sentiti. E se qualcuno è a balia, bisogna aspettare che possa capire e giudicare. Che due coniugi bisbetici provvedano all'infelicità dei loro figliuoli, senza sentire nemmeno il loro parere, è cosa che grida vendetta in cielo, ossia in ogni cuore che abbia senso d'umanità. Queste son le cose che andrebbero stampate in oro nella sala del sindaco: o meglio ancora giova stampare nel cervello dei nostri figliuoli grandi che il matrimonio è una cosa seria, molto seria, tanto seria, che in certi casi se ne può far senza; che non è tutta una festa d'amore come s'immaginano le nostre ragazze, che sognano il velo bianco, la corona di fior d'arancio e le armonie dell'organo, ma una catena d'anelli d'oro d'argento e di ferro, che si sopporta bene soltanto da chi ha la robustezza di compiere il suo dovere fino in fine. Maritarsi per la smania di maritarsi è un gettarsi nell'acqua senza saper nuotare; maritarsi per impazienza e per vanità è una imperdonabile leggerezza. L'impazienza è un'impudica consigliera, la vanità una sciocca madrina. Care e simpatiche ragazze, che oggi ridete così volentieri, pensate sempre che, maritandovi, potreste avere una dozzina di figliuoli. * * * Le cose che siam venuti dicendo miravano a dimostrare che dove non c'è armonia, affetto, ordine tra i genitori e nella casa, è inutile pretendere che vi siano dei figliuoli bene educati. In questi casi i genitori sono i traditori dei loro figli. Nessun codice umano li può colpire, ma essi saranno fin troppo puniti dall'indifferenza o dal giudizio finale che i figliuoli infelici porteranno sopra di loro. Ma anche là dove regna l'armonia e la pace e dove non mancano le più belle intenzioni, vediamo spesso venir meno lo spirito educativo o per un pregiudizio di cervello o per un pregiudizio di cuore. Dove non guastano i pregiudizi, guasta non di rado la debolezza: pregiudizi e debolezza son poi sempre figli della santa ignoranza. In ogni caso noi guastiamo un'anima, cioè, dopo aver sofferto tanto a mettere al mondo una creatura e a levarla di fascie, con tutte le migliori intenzioni e col miglior volere del mondo, facciamo di tutto per renderla infelice. "Quando si pensi quale delicato congegno sia il cuor del fanciullo, quando si pensi che celestiale splendore sia quello dell'anima sua e si ricordi come ogni più tenue impressione può recare uno squilibrio nelle fibre di quel cuore e ogni impercettibile moto turbare la radiosa serenità di quell'anima; quando si sappia che un momento di sconforto, un istante di noia possono forse informare tutta una vita, allora ogni parola, ogni sillaba acquistano singolare valore: allora ci persuadiamo che in questo piccolo mondo dell'infanzia sono la divinità del mistero e la terribilità dell'infinito, che in esso le minime cose, vedute col microscopio del cuore diventano grandi, onde ciò che all'occhio profano apparisce trascurabile, da trascurare non è(2)". Quel che qui è detto dell'infanzia si può e si deve ripetere d'ogni altra età: la comunicazione di spirito tra i figli e i genitori non ha mai ora per cessare e guai se cessa! I nostri figliuoli li abbiamo nella mano, li alleviamo, li plasmiamo noi per più di vent'anni. La loro felicità futura risiede in molta parte nella nostra previdenza presente. Se non potremo dar loro una gran fortuna, potremo sempre dare una V. DEBOLEZZE DI CUORE. On meurt d'être aimé trop comme de ne pas l'étre. COPPÉE. Un falso amore è quello dei parenti che vogliono troppo bene, se questo troppo bene è frutto di debolezza. L'amore è o almeno vuoi essere il godimento della propria energia; mentre all'incontro certe svenevolezze sentimentali non possono derivare che da esseri languidi, malaticci, amanti dei propri comodi, indifferenti alla loro missione, fatti più per essere carezzati che per carezzare. So che è un argomento ingrato specialmente al cuore tenero delle mammine. E veramente secca anche a chi predica di dover dir male di un affetto che non conosce limiti e restrizioni, che è fiamma ardente e fiamma del cuor di madre in un mondo dominato dall'egoismo e dall'odio. È così difficile trovare un altro amore così puro e così disinteressato che, ripeto, il far delle proibizioni è come un voler gettare della cenere nella lampada dell'altare. Ma l'esperienza, una nonna che non perdona, deve insegnare alle madri troppo amorose che mai dalla debolezza è potuto derivare alcun bene. La forza vien dalla forza, dice, non la pedagogia, ma la meccanica morale. A molte anime gentili e pietose ripugna l'esercizio della forza. La carità adorabile di queste creature le porta a sacrificarsi tutte quante sull'altare degli altri e a dare sè stesse in olocausto ogni qual volta si domanda un sacrificio. Sono le Ifigenie dell'amore. Tutti ne conosciamo di queste anime care e ardenti, che mettono dell'entusiasmo a sacrificarsi anche per della gente che non merita nulla, che a nessuna causa buona rifiutano il loro cuore, che nessuna ripugnante miseria trattiene e respinge. Non è dunque a meravigliarsi che ci siano delle madri che si fanno in briciole e si consumano per il bene dei loro figliuoli. - "Il mio ideale - esclamava sempre la buona vedova Terassini, mentre carezzava la testolina bionda dell'unica sua figliuola - il mio ideale è di maritare Cecilia a un buon uomo di campagna e di andare a far la serva a lei e a' suoi figliuoli." C'è veramente una specie di spirituale voluttà in questo soigner le nostre creature fino all'infinito, accontentando ogni loro capriccio, bevendo le loro lagrime, raddolcendo i minuti della loro vita, attaccandoci insomma al loro tronco che cresce e frondeggia sul nostro capo. Ma c'è anche un pericolo; che delle due piante una diventi parassita dell'altra. E allora toccherà naturalmente alla più giovine mantenere la più debole; ossia finiremo con questo nostro attaccamento a succhiare l'energia, la volontà, l'originalità e la sovrabbondanza dei nostri figliuoli, che ci ripagheranno coll'arido egoismo dei deboli. In quanto alla signora Terassini fu beata quel dì che credette di aver raggiunto il suo ideale. Trovato il buon uomo di campagna, onesto e ben provveduto come se lo sognava, accompagnò la figliuola e si collocò in un angolo della nuova casa in attesa dei figliuoli. Ma Cecilia abituata alle delicatezze e alle viziature materne, a non essere mai contraddetta, a veder nascere le rose sotto i piedi, stentò a rassegnarsi ai modi alquanto recisi del suo galantuomo di campagna, che aveva il vizio di fumare nella pippa e di dormire in compagnia del suo can di caccia. Prima dei figliuoli nacquero dei guai. Quando avrebbe avuto bisogno di buoni consigli e anche di energia, la sposina trovò la "serva di casa" pronta a compassionarla, a compatirla, ad asciugare coi baci le preziose lagrimette, a ingrandire i mali per avere una vittima più grande da consolare. In questo modo sotto le carezze si spense l'ultima resistenza morale di una ragazza già troppo delicata. Il resto del romanzo s'indovina. Un signore vicino fece parere ben presto il buon uomo di campagna più ruvido e grossolano. Quando il marito aprì gli occhi, cacciò via la moglie e colla moglie la sua serva, come si caccia una manutengola. Esempi di beniamini, che risposero coll'ingratitudine e col disprezzo alle morbide dolcezze materne, non mancano nei libri e ognuno ne può raccontare qualcuno; ma gli esempi non giovano, se non entra la persuasione, e la persuasione non entra se non accettiamo la discussione nelle questioni di cuore. * * * L'aurea sentenza che al cuore non si comanda è una di quelle massime stampate su una carta che fa coll'oro un agio del cinquanta per cento. Se guardiamo al di sotto dell'aurea apparenza, troviamo spesso dell'egoismo o della pigrizia bella e buona. Perchè non si deve comandare al cuore se la legge impone di comandare al sangue, all'istinto e fino alla fame? E se questo benedetto cuore m'inganna, dovrò sacrificare i miei figli a un inganno? L'igiene mi dimostra, per esempio, che i dolciumi guastano lo stomaco dei ragazzi e che uno stomaco guastato in principio è causa perpetua di malanni, di svogliatezza, d'ipocondria, di misantropia. Può una madre rimpinguare il suo bebè di torte e di leccornie, rovinargli la digestione, renderlo ottuso ai cibi semplici e naturali, farne un eterno incontentabile, un gourmand noioso e e stupido per la bella ragione che al cuore non si comanda? - La petulanza non ha mai reso simpatico e felice nessuno a questo mondo. Può una madre permettere che il suo bebè manchi di rispetto alla gente, salti sulle sedie e sui tavoli, metta le mani dappertutto, motteggi i vecchi, i maestri, i disgraziati, si mostri insomma scioccamente spiritoso per dar piacere e gusto al cuore? Quel che non fa la madre a tempo farà il tempo fuori di tempo. Il ghiottone vivrà stupido, il petulante morirà disprezzato. Il pigro non scosso quando era ancor possibile muovere delle forze, finirà irrugginito: il libertino consunto. E le madri loro moriranno di crepacuore e di rimorsi. Negare certe leggi di dinamica morale è un voler negare la natura per contentare un cuore irragionevole, o in altre parole è un porre il nostro egoismo travestito di benevolenza e la nostra pigrizia camuffata di bontà al posto della natura e del dovere. VI. IL SÌ E IL NO Sarebbe così bello poter dire sempre di sì, così bello e così comodo! Questo caro monosillabo, che si accompagna con una delicata movenza del capo e col ricamo d'un sorriso indulgente, è un gusto del cuore e della bocca, è la gioia di chi parla e di chi ascolta, è il sogno degli innamorati, la forza della legge, la gloria dei re, il cenno divino che afferma e crea. Troppo oscura sarebbe la vita se non fosse tempestata di piccole gioie, e ogni gioia contiene un sì. Perciò quando vi si raccomanda, dolcissime mammine, di imparare a dir di no, sappiamo di proporvi una fatica ripugnante all'indole e ai bisogni del vostro istinto. Quel no che chiude o intoppa la via dell'anima, quel no di sasso che precipita sul cuore e spreme tristezza e lagrime, quel no assoluto e tagliente come una spada, che sa anche battere e ferire, pare uno strumento di tortura nelle mani di una madre, e io compatisco se poche son quelle che all'occasione sanno mostrarsi severe e inesorabili. I babbi di solito preferiscono dir nè sì nè no, pigliano il cappello e se ne vanno. Tocca sempre alla povera mamma prender l'iniziativa, aprire la porta del bene, chiudere quella del male, tirare il sasso che fa male. E non ci vuole meno prontezza all'aprire che al chiudere; il peggio di tutto è di lasciar le porte semiaperte. * * * A proposito di porte, una buona signora, madre amorosa e intelligente, che vorrebbe conciliare il sì col no, mi scriveva tempo fa per conoscere la mia opinione sulla "chiave della porta": "Il mio Giannino ha quasi sedici anni e crede d'aver diritto alla chiave della porta, che da noi si chiude poco dopo le nove di sera. So tutto quel che significa per un giovinetto aver la chiave della porta in tasca, ma Giannino dice che l'hanno anche gli altri. Obbligarlo a rincasare tutte le sere prima delle nove è un non fidarsi di lui, dice; è un crederlo ancora un ragazzo. Tuttavia, per quanto desideri conciliare il conciliabile, non so dir di no, ma mi rincresce dir di sì. Che mi dice di fare, professore?" A questa lettera rispondevo presso a poco così: "Questo suo Giannino ha sedici anni, mi dice, e non si contenta più di guardar fuori della finestra, vuole la chiave per uscir a vedere quel che si fa nella via, oltre l'angolo, o ancor più in là, nei teatri, sul corso e nelle conventicole de' suoi compagni di liceo. Dare una ricetta per iscritto, buona per tutti i casi, è cosa difficile e potrebbe essere anche pericolosa: bisognerebbe conoscere il malato. Ma in massima io direi alla mamma: non lo lasci scappare.... Verrà lo stesso e ben presto il giorno in cui essa dovrà abdicare a molti poteri; ora fin che può, fin che il no vale il sì, dica di no e non rinunci a quella dolce autorità che vien da natura e dai diritti acquisiti. Il suo Giannino, se è ragionevole, dovrà riconoscere che il suo no è pieno di ragioni e quando avrà trent'anni, guardandosi indietro a contare gli spropositi fatti (tutti ne facciamo per conto nostro) non rimprovererà mai a sua madre d'avergli impedito uno sproposito di più. L'età che attraversa il suo Giannino è la più pericolosa, perchè è appunto la più ingenua e la più ardente. Basta un passo falso, uno scappuccio sulla soglia dell'uscio, per far perdere inesorabilmente il frutto di sedici anni di pazienza e di sacrifici. Dai sedici ai venti è la crisi morale dell'uomo. Le passioni sono poetiche, vale a dire, cattive come tutte le passioni, ma vestite dei più bei colori dell'innocenza e della virtù. Son malattie che lasciano indietro convalescenze lunghe e pericolose. Tra il raziocinio che dovrebbe essere il padrone e il corpo che dovrebbe essere il suo cavallo non c'è tutto quell'accordo che s'impara più tardi a furia di vivere. Il cavallo è spesso una bestia ardente, balzana e cieca, che non sente la mano del cavaliere, e una volta presa la rincorsa, tira il padrone in precipizio. Occorre che qualcuno venga in aiuto del signorino e giovandosi di tutti i mezzi che dispone la terapeutica educativa, di quelli cioè che l'affetto, la poesia, le distrazioni, i passatempi, i libri, la poesia, lo studio, i viaggi mettono alla portata anche di una madre, bisogna servirsene, dico, per far inghiottire quei quattro no ancora necessari alla cura ricostituente del ragazzo. In ciò beata lei, signora, che ha saputo cominciare fin dal principio, talchè non c'è nessuna novità a dir di no come a dir di si; quindi immagino che certi no saranno già sottintesi. In certi casi, quando si è costretti a pronunciarli, è già una partita mezzo perduta. Se il suo Giannino fosse già tanto innanzi nella sua emancipazione da credere d'aver diritto a una chiave, il contrastare a un diritto legittimo o supposto è sempre un po' cavilloso. Preferisco ritenere invece che il suo Giannino desideri rimaner qualche volta fuori di casa un po' più tardi delle nove, in compagnia di buoni amici, desideri vedere di tanto in tanto una bella commedia, o solamente desideri di mostrare agli altri che, volendo, può rimanere fuori di casa anche lui, che possiede anche lui il suo pezzo di chiave. In questi casi contemplati ne faccia fare una apposta un po' pesante e visibile e lo contenti: e nel consegnargliela gli dica: - Ho pensato che alla tua età tu abbia a veder qualche volta gli amici, andare a teatro, far qualche visita alle tue cugine, e in carnevale accettare qualche invito: eccoti quindi la chiave della porta. Ma pensa che è un regalo della tua mamma e che le sere che tu resterai fuori io non chiuderò gli occhi e non spegnerò il lume finchè non sia entrato a darmi la buona notte.... Siccome so che in casa sua, cara signora, le cose sono andate sempre, fin dalle origini, col sistema del "poco per volta" così son sicuro che Giannino farà anche della chiave della porta quell'uso ragionevole, e dirò così, naturale che si fa delle cose ragionevoli e naturali. Anzi stia a vedere. Messo sul puntiglio della generosità può essere che d'ora innanzi il suo Giannino torni a casa prima del solito. Se si giuoca a far piacere, son sempre i giovani che vincono. Tutto il segreto è di saper insegnar loro il giuoco ". VII. IL POCO PER VOLTA Natura non facit saltus, ha detto Linneo in un latino molto facile; e come nella natura così nell'educazione. Non crescono forse i nostri figliuoli insensibilmente sotto i nostri occhi, e non ce li troviamo grandi in casa senza che un giorno ci sian parsi diversi dall'altro? Se non ci fossero gli estranei a dirci di tanto in tanto: - Oh com'è diventata grande questa piccina! Oh che giovinetto hai qui! - per conto nostro non ci accorgeremmo della differenza tra l'oggi e l'ieri, tra l'ieri e il domani. E come si trasforma insensibilmente il corpo, similmente per un processo microscopico di assorbimento si svolgono e si trasformano i sentimenti, le voglie, i desideri, i pensieri e il modo di pensare. Non è più difficile in questo lento sistema di coltivazione educare una buona abitudine di quel che sia inocularne una cattiva; e sempre per la forza della natura una buona abitudine non la si smette tanto facilmente come si crede. La legge del poco per volta è la più naturale nell'educazione. * * * Le piante che meglio vengono in terra aperta e all'aria libera son quelle che fino a una certa grossezza furono bene coltivate nei vivai e nei vasi. * * * Il poco per volta continuamente ripetuto è la forza che crea quell'altra forza così resistente e tenace per l'esercizio della vita, che prende il nome di buona abitudine. La buona abitudine è quasi una seconda natura che veste, arma, protegge quella che si porta dalla nascita: modella la vita come una corazza d'acciaio, costringe a camminar diritti, ci fa soldati forti nella battaglia della vita. Ma i nostri figliuoli, di natura mobili e bisognosi di varietà, hanno bisogno di chi li aiuti ad acquistare delle buone abitudini. Pretendere che essi s'impongano da sè mortificazioni e strazi per diventar migliori è volere quel che non tutti i santi sanno fare. L'alzarsi presto la mattina, l'amore della nettezza e dell'ordine, il garbo, la gentilezza nel tratto e nelle parole, la pazienza negli studi e nei lavori difficili, la moderazione nel mangiare, e tante altre simili piccole abitudini non si acquistano che con un ripetuto esercizio di tutti i giorni, mediante piccoli sforzi continui e successivi e per un certo numero d'anni. Tocca a chi educa prendere l'iniziativa e mantenerla. Il famoso atleta Sandow, che passa oggi per l'uomo più forte d'Europa, che collo sforzo di due dita ti piega una moneta d'argento come un'ostia, dimostrava ad alcuni nostri ginnasti come egli non debba lo sviluppo de' suoi muscoli a esagerati movimenti dinamici, ma alla semplice e ripetuta manovra di due manubri del peso di pochi chilogrammi. Qualche cosa di eguale si può ottenere nella ginnastica morale. Non sono i salti di testa e gli sforzi acrobatici che danno gli uomini più resistenti; anzi certe specialità acrobatiche, che meravigliano per la loro agilità di spirito, buone tutt'al più per lo spettacolo d'un circo, nella pratica quotidiana della vita riescono uomini di poco conto e di nessuna resistenza. Non sono i bersaglieri che vincono la battaglia, ma è la massa solida e resistente della buona fanteria, che un passo dopo l'altro, conquista il campo e lo conserva. * * * Le grandi virtù che tanto si ammirano negli uomini straordinari e che, viste da lontano, sembrano vette inaccessibili, non sono spesso che il risultato di una serie di piccole abitudini abilmente coordinate e concatenate in modo, che una aiuta l'altra, e tutt'insieme aiutano l'uomo. Quanto valga la forza d'un'inveterata abitudine lo dimostrano luminosamente le cattive abitudini. Dite al vecchio fumatore o all'ubbriacone che lascino la pippa e il bicchiere; se anche fossero sull'orlo del sepolcro, se dallo smettere il brutto vizio dipendesse la loro vita, pochi son quelli che sanno liberarsi dal bisogno che li fa schiavi. Perchè non facciamo conto di questa forza e non cerchiamo di accumularla fin dai primi anni nel senso del bene a vantaggio dei nostri figliuoli? Chi fin dalla sua giovinezza prese l'abito del bene difficilmente se ne spoglia. Anche il far bene diventa un bisogno come il fumare e il bere. Per un uomo abituato all'ordine e alla precisione ogni disordine ripugna, come al delicato ripugna ogni schifezza che urti l'occhio e il naso. Ai buoni per abitudine l'essere buoni non costa nessuna fatica; e se vogliono qualche volta fare il cattivo, non ci riescono, quasi per una resistenza meccanica del loro organismo morale. VIII. RAGAZZI DISTRATTI, EGOISTI, POLTRONI ECC. Abituate presto i vostri figliuoli a quegli esercizi che tendono a rinvigorire la fibra morale, specialmente a quelli che aiutano a vincere la distrazione, l'egoismo e la poltroneria. I nostri figliuoli, se anche sono di buona indole, lasciati a loro stessi facilmente si stortano per la naturale loro esilità verso cattive tendenze o inselvatichiscono come piante abbandonate. Le stesse debolezze della loro natura s'induriscono e diventano altrettanti gruppi di ostinazione e di cattiveria. Una mente forte finisce col diventar caparbia e superba. Una volontà viva si fa violenta, una natura mite s'intenerisce troppo e casca nella nullaggine: un'indole riflessiva e prudente, se la si lascia incantare, finisce col perdere la forza del risolvere e dell'operare: la forza fantastica svampa in bizzarrie e in sbadataggini: il coraggio si fa crudeltà... Insomma il germe, in luogo d'un frutto dolce, non ci dà che un nocciuolo duro, o uno spino, o una buccia vuota. Se ciò avviene, la colpa non è della pianta, ma di chi la coltiva. Come opporsi a queste tendenze oblique? ci si arriva studiando attentamente l'indole del nostro bambino e un poco la nostra. È di natura distratta il vostro fanciullo? Ebbene, mi occuperò in modo speciale di raccogliere la sua attenzione ogni momento e sulle minime cose. L'obbligherò a rendermi continuamente dei piccoli conti su ciò che fa, che vede, che sente a dire, che legge: loderò in modo speciale i suoi primi saggi di attenzione e di precisione; starò attento perchè stia sempre attento. * * * Una buona madre che aveva una bambina molto dissipata, irriflessiva, volage e balorda, la guarì a poco a poco con una cura paziente di lente e minuziose osservazioni. - Gina - le diceva - va a vedere quante zampe ha una mosca. - La Gina non si era mai curata di contarle: e lo sforzo di osservare e di contare le zampe d'una mosca fu per una volta un esercizio non inutile. Dopo la mosca venne la volta dei ragni e delle formiche. Qualche altra volta la mamma dava a Gina una matita e l'obbligava lì per lì a disegnare su un pezzo di carta a memoria la figura d'un animale comune, d'una pianta, la foglia di un fiore ordinario, e non c'era pace, finchè o bene o male, lo scarabocchio non usciva nelle sue linee sommarie. Allora mandava la Gina a confrontare il disegno sul vero e obbligava la bambina a correggere. Servivano a raccogliere l'attenzione della distratta i così detti giuochi di pazienza, i rompicapi diversi, che si combinano su disegni, l'infilare delle perline a colori alternati, il mettere insieme dei piccoli mosaici coi sassolini del viale: e così a poco a poco, la pianticella sfarfallata che andava prima in sole frasche, fu corretta e raccolta. - Sapesse quanta fatica mi è costata questa cura! - mi diceva la buona signora. - Perchè? forse la Gina si ribellava? - Tutt'altro, essa era sempre docile e obbediente. Ciò che pesava a me era lo sforzo d'inventare sempre qualche nuovo artificio e più ancora quello di aspettare che fosse eseguito. Per vincere una cattiva tendenza nei nostri figliuoli non basta gridar loro: - correggetevi! - bisogna correggere, bisogna vincere dapprima la nostra forza d'inerzia, turbare il nostro equilibrio, consumare una certa quantità di energia viva e non sempre se ne ha d'avanzo. O si è stanche, o si è tribolate da altri pensieri, o ci si sente poco bene, o ci si stufa: eppure chi non sa fare questi sforzi sopra sè stesso non saprà mai educare. Le debolezze dei nostri figliuoli bisogna prima vincerle in noi. * * * Cleto, un ragazzo d'indole furiosa e prepotente, quando entrò in collegio era già arrivato a quell'età in cui la forza naturale del carattere non si può facilmente piegare; ma siccome c'era in lui un fondo di bontà e di generosità, così non rinunciai all'impresa di domare il piccolo selvaggio. Per un po' di tempo finsi di non vedere i suoi atti di petulanza e di tirannia verso i compagni più deboli; ma colsi presto l'occasione per cambiargli di posto, lo collocai vicino a un compagno mingherlino, malaticcio, un po' corto di cervello. Poi tirato in disparte il sor prepotente, con un tono serio serio, gli feci un discorso presso a poco così: - Senti, Cleto, ti metto vicino a Giovannino, perchè voglio che tu me lo aiuti un po', che me lo protegga e che me lo difenda da quelli che lo pigliano a perseguitare. Tu sei forte, hai molta memoria e potrai anche aiutarlo ne' suoi doveri. Vedi come è patito e sofferente? fagli un po' da babbo... - Mentre poco prima Giovannino era la vittima del forte, da quel dì divenne il suo protetto, il suo tesoro. E imparando così a gustare le dolcezze della bontà, quasi insensibilmente Cleto divenne da quel giorno anche verso gli altri più mansueto e più rispettoso. Bisogna saper dare ai ragazzi il gusto del bene e innestare le loro debolezze sulle loro migliori qualità. IX. PAUROSI E TIMIDI Wolfango Goëthe racconta nella sua Autobiografia: "L'architettura antica della nostra casa coi tanti angoli oscuri era fatta apposta per suscitare nell'animo d'un fanciullo spavento e timore e disgraziatamente si aveva il principio in casa nostra che ai fanciulli bisogna togliere presto il sentimento della paura, coll'avvezzarli a tutto ciò che lo può ispirare. Si pretendeva quindi che noi dormissimo soli, e quando, vinti dalla paura, lasciavamo i nostri letti per ricoverarci presso la gente di servizio si vedeva a un tratto comparire nostro padre colla veste da camera messa al rovescio, trasformato in ispauracchio, che ci ricacciava nei nostri letti. Ognuno immagina facilmente il risultato poco felice di tal sistema. Come mai potrà liberarsi dalla paura chi si vede stretto da due cose che l'ispirano? Mia madre, carattere brioso e armonico e desideroso di accontentar tutti, immaginò uno spediente pedagogico molto migliore. Era il tempo delle pesche. Essa ci promise di darci un'abbondante colazione di questi frutti ogni volta che sapessimo vincere la paura della notte. Questo nuovo metodo ebbe un risultato felice che contentò tutti". Non credo che in tutti i casi una bella pesca possa persuadere un ragazzo pauroso a digerire la sua paura. A guarire questa malattia, in cui spesso c'entrano i nervi più che non si creda, bisogna molto riguardo e molta carità. Alla paura non si comanda e molto meno si posson fare delle dimostrazioni. L'unico mezzo per salvarsi dalla bestia nera è di schivarla, girando al largo più che si può, fin che vada lontano da sè. Ridere d'un fanciullo che ha paura del buio o d'un brutto cane o d'un pitocco schifoso, trattarlo da sciocco e da coniglio, non è nè giusto nè pietoso. Uomini con tanto di barba hanno paura di cose che farebbero ridere un fanciullo. Non parlo delle mie delicate lettrici che strillano e svengono alla vista di un topo, di un ragno, di un pipistrello. Tutti abbiamo i nostri peccati in fatto di paure e di fantasmi e di irritabilità nervose. È naturale che i fanciulli più sensibili e più inesperti ne soffrano di più. Buona e vecchia regola cento volte predicata è di non metter in mente ai fanciulli paure sciocche col racconto dell'orco, delle streghe, dei folletti ecc. Giova fin dai primi anni avvezzarli alle tenebre prima che ne abbiano paura, cioè prima che colla loro imaginazione vadano a popolarle di fantasmi. Si osserva generalmente che i più paurosi son sempre i più grandicelli, quelli che pensano e ragionano di più. Non abituate i vostri figliuoli a dormir col lume acceso. Non fateli dormire in camere lontane, isolate, dove sentano troppo la solitudine; ma non teneteveli troppo addosso. Essi devono distaccarsi da voi a poco a poco. Non dite mai a un fanciullo che va a cercare qualche cosa in una stanza lontana, di sera: - Non aver paura... - È proprio la maniera di ricordargliela. E se torna colla faccia un po' smorta, non tormentatelo, ma ditegli francamente che alla sua età avevate paura anche voi, proprio come lui, forse peggio di lui, e raccontategli qualche aneddoto della vostra semplicità. Questa sarebbe la paura del niente. C'è anche la paura dei pericoli, dei luoghi, delle bestie, delle persone, che fino a un certo punto merita rispetto, perchè è una forma di difesa che la natura suggerisce al più debole. La parte morbosa si vince col condurre il fanciullo vicino al pericolo, col dimostrargli quanto esageri colla sua paura, col passare due, tre, quattro volte nei luoghi a lui più sospetti in sua compagnia. In quanto alle miserie umane che fanno senso ai ragazzi, parlatene in nome della pietà, e la paura si trasformerà in compassione e in benevolenza. * * * C'è una paura che è tutta timidezza. Guido davanti alle persone estranee diventa rosso, perde la voce, casca sulle gambe, e fa la figura d'un babbeo, mentre in mezzo a' suoi è il capo della banda e ha voce e spirito per dieci. Se lo mandan fuori a comperare un giornale o un francobollo, si rifiuta, gli vengono i lagrimoni agli occhi, ha paura, cioè ha suggezione della gente che passa, dell'uomo dei giornali, del bottegaio; a scuola non essendo da meno degli altri, fa sempre una figura meschina perchè legge male, recita male la sua lezione, e non osa rispondere quel che sa per mancanza di fiato. Questa timidezza morbosa è una malattia morale che bisogna vincere a tempo, perchè se passata una certa età, resta nel sangue, può essere cagione d'infelicità per tutta la vita. In un mondo in cui si fa a chi più piglia, guai ai timidi! Molti che non hanno saputo farsi valere a tempo, son rimasti per sempre in una posizione inferiore ai loro meriti, avviliti, sdegnosi, scontrosi, incapaci di rendere nemmeno l'interesse di quel ricco capitale d'ingegno, di volontà e d'onestà di cui natura li aveva dotati. Molti altri che passano per superbi taciturni non sono che timidi corazzati di silenzio. Questo è un gran male per chi soffre del proprio carattere, ma è anche una perdita grave per il bene generale, perchè dove non va un timido onesto, volentieri siede un intrigante e spesso un poltrone che ha il solo merito d'arrivare a tempo. Un timido non potrà mai diventare un oratore, un autore drammatico, un musicista, un intraprenditore di costruzioni, un giornalista, un direttore d'istituti, un presidente di qualche cosa..., vale a dire che una quantità di carriere son precluse a un uomo che potrebbe per ingegno e coltura distinguersi in tutte. Un timido è un infelice che molte volte fa infelici quelli che lo circondano. La forza che non si sa spendere di fuori, concentrata in casa e in se stessi, ci rende intolleranti, brontoloni, burberi, inutilmente buoni e benefici. A vincere la timidezza non c'è che un rimedio: esercitarla. Sulle prime si soffre, ma a poco a poco l'anima si rinforza e si soffre meno. Andando per gradi s'impara a conoscere la gente, a stimarla di più e anche di meno, si acquista una miglior opinione di sè: qualche piccolo buon risultato incoraggia, l'abitudine dà alla pelle una minore sensibilità, ci s'indurisce nel vivere, e si cammina, soffrendo sempre un poco, ma si cammina colla sicurezza che per parte nostra non saremo mai uomini sfacciati e prepotenti. Il bisogno e il sentimento d'un gran dovere a compiere può essere un forte stimolo per un uomo timido e modesto: e ciò spiega come aristocrazia nostra continui a restar indietro nel governo del mondo. Non avendo bisogni urgenti per vincere la timidezza e la paura dei primi esperimenti, essa rimane timida e paurosa per sempre. Tocca a chi educa premere sulla naturale timidezza del fanciullo, spingerlo avanti, esporlo ai primi fuochi, abituarlo, come si dice, all'aria del mondo. Non tenetevi il vostro Guido in grembo, non covatelo col tepore della vostra eterna protezione, ma ogni piccola occasione sia buona per servirsi di lui; adoperatelo come fattorino, come messaggiero d'ambasciate, come segretario; mandate lui a far la spesa, a pagar la pigione, a pagar le tasse, a trovar gli amici malati, a tener compagnia ai vecchi, a leggere il giornale alla nonna; fate ch'egli possa recitare su qualche teatrino, che canti, che suoni in pubblico; non lasciategli tregua, fin che non vi pare che abbia acquistata la forza necessaria a un uomo per non essere urtato e soprafatto. Guido nelle prime classi era sempre tra quelli che le pigliavano dai compagni. Quando veniva a casa a lamentarsene e a piangere, il babbo gli dava il resto e gli dimostrava in modo reciso che un uomo non deve mai lasciarsi sopraffare dai prepotenti. Contro ogni precetto evangelico gl'insegnò anche la maniera di appioppare all'inglese un buon colpo nello stomaco e gli raccomandò di farsi onore. La prima volta che Guido mandò ruzzolone un prepotente con un bel pugno dato secondo tutte le regole della box fu un altr'uomo, si sentì guarito e passò in mezzo ai compagni come un oggetto di meraviglia. La timidezza non si può cacciar fuori, se non sostituendovi il sentimento della propria forza e del proprio valore. L'angelo custode deve qualche volta cedere il posto al diavolo. * * * "Pensate che i fanciulli hanno una finezza di criterio e una delicatezza d'impressione che quelli che non l'osservano attentamente, non suppongono nemmeno. Essi hanno l'istinto dell'equità e certe parole aspre e ingiuste buttate là da noi a caso restano impresse nel fondo del loro cuore e se ne ricordano per tutta la vita. Pensate che nel vostro figliuolo c'è un uomo, l'affezione del quale scalderà la vostra vecchiezza: rispettatelo se volete che vi rispetti e ritenete pure che non c'è un granellino di semente che buttato in un piccolo cuore presto o tardi non produca il suo frutto. Noi abbiamo sul nostro fanciullo un'influenza enorme e, diciamolo, tanto più spaventevole quanto più è forza riconoscere che spesso noi l'esercitiamo senza accorgercene e quasi a nostro dispetto. La nostra vita è la soglia della sua: è attraverso ai nostri occhi ch'egli ha veduto fin da principio. Approfittate, o giovani padri, dei primi istanti di candore del vostro bambino; cercate di penetrare nel suo piccolo cuore, quando è lì lì per aprirsi e collocatevi dentro solidamente. Essere amato da una creatura che si ama non è questo il grande problema della vita, il solo forse che merita degli sforzi costanti?" (GUSTAVO DROZ, l'Enfant). * * * "Il bambino tutto riferisce a sè stesso: è un piccolo egoista che inconsciamente lotta per l'esistenza non d'altro curandosi che del proprio piacere. L'educatore deve rivolgere la sua attenzione a questa tendenza naturale. Sarebbe irragionevole tentare di soffocare questo sentimento che è parte integrante della natura umana e un fattore potentissimo della vita sociale: bisogna però moderarlo col far sorgere nell'educando il senso opposto, cioè l'amore degli altri, il quale serva d'equilibrio. I genitori in generale pongono poca cura nell'educare l'amore di sè; anzi facendo nella famiglia centro di tutto il figlio, lo abituano ad avere molte pretese, cioè a conoscere troppo i propri diritti e poco i propri doveri. I figli di soverchio accarezzati, allorquando entrano per la prima volta in società con altri, non trovando da parte di questi tutte quelle attenzioni che erano soliti ricevere in casa, si trovano assai a disagio e crescono solo con gran dolore o non riescono del tutto a sacrificare l'amore di sè per adattarsi a vivere cogli altri". (CREDARO, in Dizionario di Pedagogia). * * * "Se ogni fanciullo prendesse uno sviluppo corrispondente a quello che sembra indicato dal suo carattere primitivo non avremmo nel mondo che uomini di genio". (GOËTHE). * * * "Si può definire il fanciullo come una persona che non conosce sè stessa. Lasciando stare poche eccezioni, l'infanzia in generale è felice e buona, felice senza saperlo, buona senza volerlo. Qualche bisbetico pretende di trovare già della cattiveria nel fanciullo: non credetegli. Io non voglio dire che il fanciullo non faccia qualche volta del male e qualche volta che non lo faccia volontariamente; più tardi vien anche l'età in cui le idee del bene e del male cozzano in lui; ma la prima infanzia è buona e ingenua". (Fanet). "Il fanciullo è il padrone della società. Indipendente, irresponsabile, contemplando dal suo cantuccio sfilanti a lui d'intorno uomini e fatti, egli li giudica, egli si pronuncia in merito colla vivace stringatezza propria dell'infanzia; potrete voi adularlo, ma egli non vi adulerà". (Emerson). * * * "Il fanciullo ha in sè qualche cosa di divino, perchè la sua piccola anima ha lasciato il soggiorno e la compagnia degli dei molto tempo dopo la nostra. Egli se ne ricorda di più e se anche non sa o non vuole parlarcene, il suo occhio limpido, il suo fresco sorriso, la sua voce dolce lo tradiscono. E una grazia divina che incanta il cuore degli uomini". (La Strenna). X. RAGAZZI SVOGLIATI Mi domandano spesse volte come si fa a dar la voglia di studiare e di lavorare a un ragazzo, che di voglia ne ha poca o punta. Questa mancanza di volontà nei figliuoli è la disperazione dei poveri padri e delle povere madri, che pur di vedere i figliuoli bene avviati, non guardano a spese e a sacrifici; e molte volte si trovano con un pugno di mosche in mano. Nè rimproveri, nè castighi, nè consigli di maestri, nè mutamento di collegio, nè premio o mortificazione hanno potuto trasfondere in un ragazzo sano, grande e grosso quel po' di volontà necessaria a impedire che un uomo resti una botte vuota. Non nego che vi sian casi cronici di malavoglia, che possono derivare dalla debolezza organica di un individuo; ma un caso o due non bastano a giustificare i cento casi d'infingardaggine più o meno intermittente, da cui son presi i ragazzi specialmente dai dieci e dai dodici anni in su. Intanto è utile aver presente che l'attività è la forma più vivace della vita; quindi l'inattività sarebbe non un vizio di natura, ma un vizio d'educazione, contro natura. Il bambinello fino dai primi mesi non cerca e non desidera altro che di far qualche cosa e gode degli sforzi che può fare da solo, del sentimento che comincia ad avere della propria attività. Più tardi l'attività si trasforma in una quantità di giuochi inesauribili, che stancano prima il corpo che non la volontà di giuocare; e sul tramontare della vita il poter fare qualche cosa non è forse la gioia e l'orgoglio del vecchio cadente? e i ricchi che non hanno nulla a fare non si consolano con una quantità d'esercizi inutili di sport? Dunque la malavoglia non è un male naturale, ma un male che si prende, un guasto nella macchina che si deve poter riparare e si deve riparare prima che la macchina irrugginisca e diventi inservibile. Il ragazzo è qualche volta il minor colpevole. È stata una sequela di piccole trascuranze da parte di chi lo doveva sorvegliare, di piccole inerzie materne, di piccole rinuncie, di molti lasciar fare, lasciar stare, di vedremo... faremo... penseremo domani, con cui parenti e istitutori hanno ritardato l'impiego di quella giovanile attività; la quale intanto che aspettava, si è addormentata. Qualche altra volta la troppa trepidazione di una donna per la salute del suo figliuolo ne ha guastato lo stomaco e la volontà. Qualche altra volta si scopre che il ragazzo mangia troppo e troppa roba succolenta: occupato a digerire e a smaltire una grande quantità di vittovaglie, al piccolo allievo non resta volontà di far altro. Qualche altra volta invece non si tratta che di un ragazzo fuori di posto. Si sa che la forza della volontà aumenta in proporzione dei successi che si ottengono, e che molti intristiscono soltanto perchè non possono trovare un campo per manifestare degnamente quel che sono e quel che valgono. Un cantante che si sente fischiato tutte le sere è un prodigio se non perde presto la volontà di cantare. Così un ragazzo messo a studiare o a fare cose in cui non riesce, in cui fa sempre l'ultima figura, perde il coraggio e col coraggio la volontà. I rimproveri, i consigli, i castighi e anche le bastonate possono qualche rara volta ottenere lo scopo di risvegliare un ragazzo indolente, quando il male non è vecchio; ma non basteranno i bottoni di fuoco a scuotere la pigrizia d'un ragazzo condannato a farsi dare eternamente dell'asino. In questi casi i digiuni, i calci, il bastone, i castighi degradanti non farebbero che ammazzare del tutto quel po' d'energia che ci fosse. Pungere con una lesina un soldato affranto non è il miglior modo per farlo camminare; meglio è ristorarne le forze a poco a poco fin che può andare da sè. Se ogni male ha la sua cagione, cominciamo dunque a cercare il perchè della svogliatezza del nostro figliuolo, e provvediamo in merito, come dicono i legali. Qualche volta scopriremo che abbiamo messo il ragazzo col viso contro un muro e ciechi, ostinati, irragionevoli, pretendiamo che cammini contro il muro. Troveremo forse che agli strapazzi e alle violenze il ragazzo è sordo, mentre sente la voce della persuasione e della dolcezza; noi invece col seguitare a urlare e a pestare pretendiamo far sentire un sordo. In questo caso la sua malavoglia non è che la figliuola della nostra cocciutaggine. Cambiamo programma, cambiamo sistema, cambiamo strada e la volontà del nostro figliuolo ci verrà incontro allegra e festosa. Se il vostro figliuolo ha la natura della vite, a che vi ostinate a mantenerlo in risaia? Voi avete il torto di tenere il vostro figliuolo quasi sempre solo, in un ambiente annebbiato e annoiato, tra esercizi monotoni, in una bonaria ma asfissiante protezione; controllate tutti i suoi passi e tutti i suoi respiri: gli date a mangiare sempre la stessa minestra colla bella ragione che la mangiate anche voi da cinquant'anni e che vi ha sempre fatto bene; levate l'aria e la luce alla pianta, e vi meravigliate che intristisca. Non omnibus omnia; che in volgare vien a dire: quel che fa bene a uno fa male a un altro. Insomma delle somme, per vincere la pigrizia dei nostri figliuoli bisogna cominciare a vincere la nostra, studiare l'indole del ragazzo, veder quel che gli fa male, quel che lo impedisce, rimuovere gli ostacoli, cambiargli l'ambiente come si cambia la terra ai vasi di casa; bisogna essere alacri e svegli per parte nostra, perchè pigrizia per pigrizia fa pigrizia. * * * A dare la soddisfazione morale del successo che conforta è bene non pretendere dal nostro allievo uno sforzo superiore alla sua età e capacità, L'ambizione di fare dei sapienti precoci è la cagione più d'una volta che immiserisce le più fresche energie. Non si può amare ciò che ci punge. Le cognizioni acquistate faticosamente e continuamente in mezzo alle spine e alle ortiche devono finire col diventare odiose: e la volontà non si sveglia se non trova piacere e simpatia per ciò che fa. Un allievo che era l'ultimo della sua classe, dove lo si voleva mantenere per forza, divenne il primo di una classe più indietro e rimase sempre il primo fino a compimento dei suoi corsi, e oggi è ancora uno dei primi industriali della sua città. L'ambizione di correre più degli altri, è una ambizione sciocca per chi ha le gambe corte. Quando il lavoro è un equilibrato esercizio colle forze naturali, allora soltanto è lavoro sano, proficuo, piacevole, che rende più di quel che costa. Pretendere che un ragazzo lavori allegramente in pura perdita o pretendere da un ragazzo ciò che non si oserebbe chiedere nè a uno stoico nè a uno scettico che faccia professione di filosofia, e nemmeno al più modesto venditore di castagne. Mettete in disparte le straordinarie ambizioni; e contentatevi di un modesto interesse. Chi vuol fare troppe speculazioni sulla volontà e sulle forze de' suoi figliuoli, arrischia di perdere col tempo interessi e capitale. * * * La volontà che contrasta alla vocazione e all'indole naturale è una lama che si consuma sulla pietra a vantaggio di nessuno. Non insistete a voler fare del vostro figliuolo un avvocato o un dottore per forza. Mentre siete a tempo, se vi pare che la sua volontà urti in una ripugnanza naturale, fatevi coraggio, desistete con una risoluzione energica, anche con qualche danno vostro, dal grande ideale che avete sognato. I conti bisogna farli coll'oste, cioè colle cose e cogli uomini, non coi sogni. Il vostro futuro avvocato non vuol saperne di latino? ebbene mandatelo altrove, all'estero, in commercio, fatene fuori un buon contabile, un fior di commesso viaggiatore, un procuratore di banca; si vive benissimo anche senza sapere il latino: anzi i professori che confrontano i loro stipendi con quelli dei banchieri e dei commessi viaggiatori dicono che si vive meglio. Un buon maitre d'hôtel che sa tre o quattro lingue e che guadagna dieci mila lire all'anno è più utile e rispettabile d'un cattivo avvocato senza clienti. Lasciate correre la volontà nella sua china e vi moverà molini e gualchiere: imprigionatela in un pregiudizio e vi marcirà dentro. Il chierichetto annoiato, slombato, può diventare un eccellente marinaio; un cattivo liceista può avere in sè la stoffa d'un magnifico agente di campagna. Ma i cambiamenti, se occorrono, bisogna farli presto, senza rincrescimento, senza rimproveri, senza rimpianti: non è colpa dell'acqua se non è vino, e non c'è nulla di più inutile come il pretendere che l'acqua diventi vin vecchio. E se la vigna vi ha dato del vino squisito, badate a non buttarmelo via, a non sciuparmi la ricchezza d'un ingegno vivo e ardente in qualche negozio senza conforti ideali, per l'avarizia di sfruttare un beneficio casalingo o l'avviamento d'una bottega. Chi è nato per essere un buon pittore sarà sempre un magro contabile e un cattivo negoziante di candele. * * * Un buon contravveleno della pigrizia è l'amor proprio. Tenete elevato e confortato nel fanciullo il sentimento della sua abilità, qualunque essa sia, lodatelo volentieri, quando merita, per quel poco che sa fare, e il resto verrà naturalmente da sè. Mostrate in tutte le occasioni che vi servite di lui, che fate a fidanza sulla sua abilità, affidategli qualche volta impegni superiori in cui sia in giuoco qualche po' d'ambizione e vedrete la volontà riscaldarsi alla fiammella colorita della vanità. Di solito, nelle case dei ricchi e dei poveri, si segue il sistema opposto, invece di eccitare si deprime. Le saggie madri credono che non si debbano mai lodare le ragazze per non suscitarne la vanità. I padri austeri, fissi nell'opinione che i figli devono stare al loro posto, non si permettono mai di trattarli da amici. Molti non vogliono lodare anche quando son persuasi che la lode è meritata: non vogliono dire una buona parola mai, o per rozzezza di spirito, o per non mostrarsi deboli, o per quella scontrosità selvatica che non sa trovare una voce soave. Quindi ai deboli manca sempre l'aiuto d'un buon incoraggiamento, mentre non manca mai la tempesta dei rimproveri e dei colpi di bastone: di qui la sfiducia, l'amarezza, il malcontento, l'avvilimento nell'animo dei figliuoli, che non vedono mai applicata la legge della giustizia. Di qui la nessuna voglia di far bene, che è il primo passo al mal fare. * * * Se il vostro ragazzo non sa fare che l'arrotino, incoraggiatelo. L'arrotino salverà l'uomo. (La Strenna). * * * Nell'educare bisogna saper unire un cuore di madre allo spirito di un uomo. (GIRARD). * * * L'educazione deve saper sviluppare nel fanciullo l'ideale, ossia il divino che vi è nascosto in germe e provocarne lo sviluppo spontaneo. (G. P. RICHTER). * * * La peggior maniera per farsi intendere dai nostri figliuoli è quella di gridar troppo. (La Strenna). * * * Euripide ci rappresenta Ercole amante dei bambini. Ercole è il simbolo della bontà unita alla forza. Garibaldi amava i bambini: e questo è il simbolo dell'eroismo unito alla delicatezza. Socrate diceva: Amo i fanciulli e imparo più cose da loro che non da tutti i vostri retori e i vostri sofisti. Socrate era il simbolo della bontà unita alla sapienza. Cristo disse che dei fanciulli è il regno de' cieli e non mai la santità fu più bella come quando egli volle che i fanciulli andassero a lui. Perfino i tristi, i ladri, gli assassini si lasciano intenerire dalle grazie dell'infanzia. Anche il leone di Firenze ebbe pietà di Orlanduccio. Solamente gli sciocchi e i pedanti temono la compagnia dei fanciulli. (La Strenna). * * * Dio ha armato l'infanzia e l'adolescenza di grazie e di allettamenti loro particolari: le rese invidiabili e seducenti e i loro diritti, fondandosi sulla natura loro spontanea ed amata, non possono essere ripudiati. Il fanciullo è il padrone della società. (EMERSON). * * * Ai caratteri precipitosi imponete la necessità di camminare lentamente, di scrivere lentamente: ai caratteri indecisi quella di agire con prontezza. Date agli astratti sempre assorti ne' loro pensieri l'abitudine di guardare in faccia e di parlare distintamente ad alta voce. Queste abitudini hanno sull'anima e sul corpo un'incredibile influenza. (FEUCHTERSLEBEN, Igiene dell'anima). * * * I precetti teorici possono contribuire molto a creare il senso morale; ma il maggior risultato lo si deve aspettare dall'azione continua dell'educatore sulla coscienza e sulla volontà. Lo spirito dei fanciulli non è tanto un vaso che noi dobbiamo riempire, quanto un focolare che bisogna accendere. XI. EDUCATE CON BUON UMORE "Dobbiamo ogni volta che si presenta aprire alla gaiezza, porte e finestre, non esitare a riceverla, come facciamo spesso, volendo prima renderci conto se abbiamo motivo d'essere contenti. La gaiezza è, per così dire, il denaro contante della felicità: tutto il resto non è che il biglietto di banca: essa sola può darci la felicità in un presente immediato. La gaiezza è il supremo bene. Per acquistarla niente vi contribuisce meno della ricchezza e più della salute..." Così, molto bene, da par suo, scrive in certi suoi saporiti aforismi Arturo Schopenhauer, parlando della vita e de' suoi beni apparenti e reali. Se la gaiezza è il premio del vivere, non si dovrebbe mai cessare dal raccomandare ai genitori, ai maestri, agli istitutori, ai distributori della sapienza e della virtù, alle balie e alle bidelle che hanno in custodia l'infanzia: - Per carità, procurate di educare con buon umore, se volete che l'animo dei figliuoli si apra alla serenità e alla rugiada. Certe faccie arcigne, annuvolate, chiuse come vecchi scrigni, certi musi fossili, che abbiamo visto nei nostri collegi e sulle cattedre delle nostre scuole, eran fatti più per spaventare, che non per invitare delle anime allegre a sedersi al banchetto del sapere. Certi predicatori fanno di tutto per rendere la virtù noiosa e antipatica. La virtù che non sa ridere è per lo meno una virtù malata al fegato: non di rado è malata al cuore. Molti disgraziati muoiono senza conoscere e senza amare il bene, perchè hanno avuta la sfortuna d'incontrarlo la prima volta sotto la figura d'un brutto cane ringhioso. * * * Si devono abituare i ragazzi a soffrire? - Ecco quel che risponde Francesco Droz, nel suo trattato sull'Arte di essere felice, che fu premiato dall'Accademia francese: - Dicesi che sia utile collocare la scuola del dolore nell'età in cui le sofferenze sono più leggiere. C'è in questo un po' di vero e un po' di falso. Se le pene della fanciullezza ci paiono facili a sopportare, gli è perchè sono lontane da noi e non ne abbiamo più paura; ma il fanciullo che passa un anno sotto la ferula d'un maestro severo è infelice nè più nè meno d'un uomo fatto, che venga per un anno privato della sua libertà; e dirò ancora che costui è meno da compiangere in quanto un uomo fatto può trovare aiuto e forza nella sua ragione e nel suo carattere. Come possiamo pretendere che i bambini sacrifichino il presente all'incerto avvenire? potremo restituire quel che togliamo loro? Forse l'istante in cui li allontaniamo dalla felicità è il solo ch'era dato loro di godere. Se c'è un conforto nella sventura di perdere un figliuolo è di poter dire: - ho almeno cercato di renderlo felice nei pochi giorni in cui mi è stato affidato. - Tocca alla natura provarli coi dolori; nostro compito è d'insegnar loro l'arte di raddolcirli. Non è mai senza compassione che io vedo un bambino rimpiangere il suo balocco infranto e piangere il suo uccellino morto: è la natura che gli dà le prime lezioni di dolore e lo prepara a sopportare un giorno più amare perdite. Noi dobbiamo secondarla prudentemente e per consolare il bambino infelice non affrettiamoci a sviare il corso delle sue idee fuggitive e a cancellare un dolore con un piacere. Bisogna pure che i piccini esercitino il loro coraggio e la ragione infantile: noi dobbiamo aiutarli col prendere parte alle loro afflizioni e così prepareremo l'animo loro in modo che senza lamento sopporteranno il giogo della necessità..." * * * Si teme che un sistema troppo gaio di educazione non prepari abbastanza l'animo dei giovani a sopportare le peripezie della vita, o abbia a rendere più neri i giorni cattivi in confronto dei giorni troppo felici. Si teme che la troppa felicità abitui all'egoismo... e anche in questo c'è una parte di verità. Ma non si dice che l'educazione abbia a essere un perpetuo teatro; si raccomanda che non sia una cripta o un ossario. Lasciate entrare la felicità da tutte le parti, come entra il sole in un locale con molte finestre: ciò che vi si proibisce è di andare apposta a chiudere le imposte per fare il buio. Se poi le giornate saranno piovose, pazienza! i bambini sopporteranno la pioggia nella speranza del bel tempo. Certi sistemi monacali di fare il raccoglimento per forza e la musoneria per forza nell'animo dei giovani sono semplicemente attentati contro natura. E nei sistemi monacali metto anche la disciplina dei collegi militari, dove l'angheria e il meccanismo fanno di tutto per togliere alla giovinezza la libertà dei movimenti, che è il primo bisogno della vita e la prima condizione della felicità. A diminuire questa già scarsa dote di contentezza, che natura dà a ciascuno dei nostri figliuoli, concorrono da tutte le parti i programmi scolastici sovracarichi di scienza e di noia, le troppe grammatiche, la troppa analisi, la troppa carta scritta e inghiottita; e per colmo di sciagura, vi concorre fin la così detta ginnastica educativa, inventata, io credo, da un capo contabile di un distretto di provincia durante una quaresima piovosa. Che Dio salvi i vostri figliuoli dalla ginnastica scolastica a movimenti composti e persino razionali! Che sollievo per un ragazzo che desidera fare una bella corsa...(3)! e che grandi vantaggi ne ricava la fibra del nostro paese! Se poi si guarda più in basso, alla povera gente che lavora, vien da piangere, quando si vede la fanciullezza scalza e slavata obbligata a non giuocare mai e a lavorar sempre. Gli assistenti dei filatoi che passeggiano nelle corsie popolate di fanciulle dai dodici ai quindici anni, quando si accorgono che il lavoro, dopo otto o nove ore langue, che le mani perdono l'impulso e si addormentano sulle ruote e sulle bacinelle, per rianimare gli spiriti e per non perdere un filo del matassino, permettono alle lavoratrici di cantare. Son le nenie lunghe e piagnulose che escono dai nostri filatoi, dove c'è di tutto, tranne che dell'allegria. In certi stabilimenti verso sera entra una suora maestra e intona il rosario. Il brontolio delle avemarie si mescola al rumore delle ruote e così si aggiunge un altro filo al matassino. Poi le bambine vanno a dormire e dormono un sonno duro, materiale, senza sogni. Forse chi si diverte di più in quest'antica patria del carnevale sono gli uomini seri. INTERMEZZO CANTA LA MAMMA Nel letticciuol riposa Il mio piccin le membra E sembra Sembra una bella rosa. Dormi, piccino! - Ei dorme E il labro suo sorride: Chi vide Una più bella cosa? Degli angeli sull'orme Cammina il suo pensiero E il vero Coi sogni si confonde. Sogna una striscia d'oro Che mena al paradiso, E il viso Agli angeli risponde. Oh, non sognar, tesoro, Il paradiso! Oh, resta A questa Tua mamma che ti veglia. Nessun angelo avere Può d'una madre il core. O amore, Dal sogno ti risveglia. E torna a rivedere La tua mamma amorosa Gelosa Del sogno che t'infiamma. Per te più delle fole Dei sogni e bello il vero: La mamma È quello che si vuole. II. SONO MAMMA Cara Teodolinda, È la prima volta che piglio la penna in mano dopo il grande avvenimento (è un bel maschio) e dovrei raccontarti, come immagini, cento e una cosa che intendere non può chi non le prova. Quando ti chiedevo se a mettere al mondo i figliuoli si patisse molto, tu con una smorfietta di madonnina infilzata mi dicevi: eh, si sa, un pochino: non è come bere un brodo... Grazie del brodo! Tenaglie infocate d'inferno e non brodo... Se con Quel di Lassù si potesse ragionare, vorrei dimostrargli che con tutta la sua misericordia si è mostrato ben cattivo colle povere donne. Io, per esempio, avrei inventato un meccanismo più semplice e più elegante. Don Samuele, il prete confidente di mia suocera, ha cercato di spiegarmi che il Signore non c'entra e ch'è tutta colpa del peccato originale; ma sia come si voglia, io dico che se si sapesse prima, noi donne non ci pigliano e così il mondo finirebbe in pochi anni a consolazione di tutti i disperati e di tutti i pessimisti che lo trovano mal fatto. Ciò non toglie che il mio Augusto sia un maschio garantito e il più bel bamboccione del mondo. Per adesso il suo nome è stella, ma lo si potrebbe chiamare anche sole, fiore, delizia: è tutto quello che si vuole, da baciare, da mangiare, da succiare. Ha due mesi e pesa sette chilogrammi, senza la camiciola. Credo che se egli fosse ancora al mondo di là e lo vedessi così bello, così bianco, così rotondo, passerei ancora in mezzo alle tenaglie infocate; ora che c'è, mi lascierei fare a pezzettini piuttosto che darlo a balia. Che gioia immensa quando in mezzo ai tormenti dell'inferno spunta fuori il paradiso! Pare che ti ammazzino, pare che il corpo si sciolga, pare di masticare carboni accesi ed ecco a un tratto un improvviso sollievo, una freschezza, un refrigerio ineffabile, eccoti sul cuore un bambino vivo di carne viva, un bambino tuo che grida, agita le gambe, le braccia, che ti cerca, ti palpa, ti succia, ti conosce, ti vuol bene. Il mio sole mi ha conosciuto subito: dopo tre ore eravamo già due vecchi innamorati. Adesso che c'è lui, quell'altro signor seccatore, che per l'ambizione di voler essere papà mi ha fatto patire quel che ho patito, può andare pei fatti suoi. Ingannatori! Ci dànno a intendere quando si esce di collegio, che i figliuoli nascono dall'amore, come i fiori dalla terra al tiepido raggio del sole: caro quel tiepido raggio! Il mio Augusto sarà più sincero, se pure troverà una ragazza degna di lui, la quale però dovrà fare i conti anche con me. Comincio a capire perchè le suocere sono terribili!... Quante stramberie, n'è vero? lasciami scrivere, lasciami declamare, lasciami cantare. Dacchè sono uscita dal letto, mi pare che il mondo si sia tutto rovesciato, capisco cose che prima non capivo e altre che mi parevano grandi e importanti, ora quasi non le vedo più. La ragione forse è questa: che prima guardavo le cose coi miei occhi, oggi le guardo cogli occhietti di Augusto. Prima il centro di gravità era in me, ora è in lui. Prima si misurano le cose e gli uomini sull'egoismo personale degli innamorati, oggi l'unità di misura è lui, il nuovo venuto, il nuovo padrone. Tutto ciò che non va bene a lui va bene a nessuno; e siccome il signorino è molto piccolo, ha mani e piedi da bambola, così a me pare d'essere enormemente grande, e procuro di rimpicciolirmi. Oh, come ci si rimpicciolisce in una maniera deliziosa con questi esserini! Io vorrei poter vivere con lui in un guscio di noce, noi due soli, senza testimoni, lui a succiare, io a farmi succiare, in un contatto molle, dolce, senza impazienze e senza desideri: e quando ha ben succiato l'ometto si addormenta sulla sua mamma, col visino rubicondo e rorido, colla bocca rosea, semiaperta, leggiermente spruzzata di latte. E la sua mamma qualche volta si addormenta anche lei in una soave stanchezza. E allora mamma e bimbo volano insieme in un sogno leggiero, che è quanto di più bello può derivare... dal peccato originale. Così passan le notti, così passano i giorni quasi senza differenza. Se cápita una visita e ti si parla di corse, di teatri, di toilettes, di romanzi, di avventure galanti, si dubita che queste cose esistano, come dubiti che esistano gli omìni e le donnicciuole del tuo paralume chinese. Che meriti di vivere non c'è che lui, tutto ciò che non lo riguarda è una cosa scipita e indifferente. Son cose che devi sapere anche tu, che di figliuoli ne hai avuti prima di me: ma ho quasi l'illusione che sia io la prima a provarle. Per poco m'illudo fino al punto di credere che dal 25 di aprile in poi sia cominciata un'era nuova pel mondo. Guai se non fosse così! Il gran segreto della natura è di saper sempre cominciare da capo. Se ogni generazione non cominciasse a vivere da capo, a quest'ora l'umanità sarebbe una tela frusta, senza fibra e senza colore. L'acqua della vita è sempre fresca per chi va a prenderla alla fonte, e non sostituisce all'acqua naturale l'acqua imbottigliata della vita artificiale, o i liquori caustici dei falsi piaceri. Eppure mi ha detto quella brava signora che mi aiutò a patire, che ci son molte donne che non provano affatto questi fenomeni di tenerezza, che hanno in orrore la maternità, che pur di liberarsi dai fastidi, metterebbero i figliuoli al monte di pietà. A costoro si potrebbe domandare perchè si son maritate: ma siccome forse non saprebbero rispondere, resta a cercare se sian donne come noi, o fatte di un legno più duro. Io che ho tanto sofferto, ora benedico la terra e il cielo, e se darò ad Augusto una sorellina, è perchè vedo che il compenso vale il dolore, il dolore passa e questi tesori restano. Per me anzi vado più in là: trovo che l'amore materno è una provvidenza, non solo avuto riguardo alla vita del figliuoli, ma anche alla felicità e alla dignità delle madri. Che cosa sarebbe questo nostro grande amore per un uomo, se non si aggiungesse uno scopo ed una speranza così santa? Una donna santificata dalla maternità ha i piedi sui gradini d'un altare, è in certo qual modo purificata e giustificata. Altrimenti che cosa siamo? spugne?... Ma sento Augusto che mi sgrida. Egli non vuole che si dicano certe cose e capisco che bisogna obbedirgli. Egli mi dice che sarà il mio difensore, il mio scudo in tutte le tribolazioni della vita, e son persuasa che per la sua mamma si farà tagliare a pezzi. Anche una donna tradita, oppressa, bisognosa e debole può trovare in questo amore dei figliuoli la sua fede, la sua libertà, la sua ricchezza e la sua forza: i figliuoli possono essere per noi maestri di pazienza, di carità, di bontà: il mio Augusto predica già meglio di don Samuele. E come grida quando ha fame! ha una voce tremenda questo diavolo e se lo si fa aspettare perde subito la pazienza. Bisognerà che mi risolva a portarlo in campagna, perchè in questi buchi di Milano non c'è aria abbastanza pe' suoi polmoni. Benedetti i montanari, che l'hanno sull'uscio l'aria buona! Partirò lunedì e una volta a Mirabello mi sbarazzo dei vestiti da ricevimento, infilo una sottana di cotone con sopra un largo casaccone di teletta, lego i capelli con un nastro e faccio la balia. Questo si chiama imborghesarsi fino alle orecchie, lo so, e non è niente niente fin de siècle. La mia padrona di casa, la contessa che tu pure conosci, finge di approvarmi, ma vedo che in cuor suo mi compiange e mi compatisce. A lei, abituata a vivere tra le porcellane, deve sembrare così, shocking il mestiere della balia! Non hanno forse inventate apposta per questo mestiere le savoiarde e le valsesiane, che stan così bene nei loro costumi vistosi? a nutrire ci si sciupa il corpo, ci s'impegola, ci si rimette lo charme e il salotto. I figliuoli è già troppo portarli nove mesi e metterli al mondo - par che dica la contessa, la quale però è troppo educata per dire sempre quel che pensa. Certo essa preferisce una première alla Scala o un bel romanzo del Bourget a tutte le pappine del mio bebé. Per me all'incontro le gambette del mio Augusto valgono tutti i teatri e tutti i romanzi del mondo, e quando batto colle due mani un po' sopra le due gambette, mi par di sonare la sinfonia del Tannhäuser. Tutta la differenza sta nell'acqua che si beve: io la piglio alla fonte, la contessa da Vichy o da Montecatini. Bon Dieu, quelle bête! - dirai; che sia colpa del mio piccolo cervello? a me per per ora basta essere sviluppata in ciò che piace al mio Augusto; e anche sotto questo rispetto (in confidenza) non fo cambio colla povera contessa. Augusto strilla ancora come un matto. Addio, in fretta: perdonami tutte le sciocchezze che posso aver detto in un momento di felicità; ma se non si sta un po' allegre noi mamme, chi conserva l'allegria? le monache? III. SONO PAPÀ Caro Bortolo, mi è nata una bambina, domenica mattina, in tempo di messa cantata. Caterina sta bene e io pure, quantunque per alcuni giorni sia stato più di là che di qua. Se le mamme patiscono in questa faccenda, i papà patiscono non meno. Se non finiva presto, il tuo Battistone moriva di parto. Ho aspettato fino a quarant'anni a prender moglie sempre nella speranza di cavarmela liscia; ma sai com'è andata la cosa(4) e una volta maritati, il meno peggio che possa capitare è di avere dei figliuoli. Ma sento che non son fatto per le forti emozioni della vita. Anche il troppo piacere mi fa soffrire e mentre scrivo, vicino al lettuccio di Mariannina, temo che lo scricchiolio della penna me la svegli. Da tre giorni sono diventato d'una sensibilità morbosa. Ho paura dell'aria, e non ho mai tanto maledetto l'estate come quest'anno con tutte le sue mosche che minacciano di mangiarmela viva. Per sollevare la mamma mi tocca fare anche un po' la balia, ma anche per questo bisogna nascere apposta. Io non so da che parte pigliarlo questo trappolino, ho paura di scomporla, mi si sfascia nelle mani e se comincia a strillare, mi tremano le gambe. Guai se morisse! È lunga tre delle mie spanne, bionda come un cherubino, con due occhi rotondi come cipollette. Se le canto: "Mariannina, dove vai?" c'è quasi a credere che apra la bocca per cantare anche lei, tanto è intelligente. Ho paura che mi diventi una Gaetana Agnesi. In questa settimana siamo stati un po' in pena, perchè si sarebbe voluto veder più oro... Tu forse non capisci che cosa è l'oro quando si allatta. Ma forse la piccina aveva dell'infiammazione addosso o il latte era troppo pesante, perchè non si vedeva che verde, troppo verde. Quando un bimbo digerisce bene paga sempre in oro, come un inglese. Quel maledetto verde ci ha tenuto in pena due o tre giorni. Io non avevo più la testa a posto, al punto che ho venduto una partita di splendidi bozzoli gialli a 3.50, quasi dieci centesimi al di sotto dell'adequato della Camera di commercio. Il dottore consigliò un pizzico di bicarbonato di soda e le cose andarono meglio, quantunque non come desidera la mamma. Che sciocchezze! - dirai - So anch'io che son sciocchezze, e son tre giorni che vado ripetendo a me stesso che sono uno stupido, o sulla via di diventarlo. So bene che farei molto meglio a occuparmi de' miei affari, visto che l'annata è birbona, che i fieni rincariscono e il gran turco secca nelle panocchie; ma di chi la colpa se questa piccina mi ha fatto un buco nel cuore? Son cose che non si capiscono, o forse ho fatto male a prendere moglie troppo tardi. Per queste emozioni ci vogliono i giovinotti, i temperamenti forti e robusti, mentre dopo i quaranta ogni cosa fa tenerezza e per nulla sbucci le cipolle. Caterina piangeva anche lei, e siccome per farle coraggio io l'ho sgridata un poco, la comare ha detto ch'ero un turco, che non capivo nulla, che non meritavo nulla. Il gridare ha svegliata la bimba, che s'è messa a strillare; Caterina m'ha cacciato via e per quel dì non ho pranzato. Se le contassi all'osteria queste cose, farei ridere le carte di tarocco; e per non farle ridere preferisco passeggiare solo attraverso le campagne. Grazie al cielo, l'oro è tornato in circolazione e ora si pensa al battesimo. S'è voluto tardare un poco per non disturbare troppo presto la mamma e per fare le cose con un certo decoro. Tu sai come la pensi in argomento preti: ma ciò che è giusto è giusto. Mariannina sarà battezzata come richiede il suo stato e il grado del suo papà ff. di sindaco. Vogliono sonare anche le campane a festa: le suonino, e possa io sentirle anche quando battezzeranno il primo maschio di Mariannina. Mi par di soffrire all'idea che forse non ci sarò per allora. È tanto l'amore che si prova per queste topoline, che si vorrebbe amarle fin d'adesso nei loro figliuoli. È in questo modo che la pianta si abbarbica al ceppo. Quando la vita comincia a barcollare, si sente bisogno di metter fuori delle radici. Suonino le loro campane i preti; noi, come quel tal personaggio storico, stapperemo le nostre bottiglie. Ma ho bisogno che tu mi porti da Milano due bei grossi panettoni, con una guarnizione di paste o di confetti in carta d'oro e d'argento, qualche sacchetto elegante per le signore e qualche frascheria per i bimbi. Vai dal Biffi o dal Baj e ti metti per un momento ne' miei panni. Non stare a lesinare. Venti o trenta lire di meno non guasteranno la dote di Mariannina. Il battesimo è domani per le due. Aspetto te e le tue sorelle, alle quali vorrei presentare la signorina. Mariannina, il nome della mia povera mamma, il primo che ho imparato a pronunciare, sarà l'ultimo che morirà sulle mie labbra, quando verrà il giorno della grande liquidazione. È appoggiandosi bene a questi nomi che l'uomo sta ritto nel mondo. A rivederci. Il tuo BATTISTONE. PS. Pretendono questi burloni del solito tarocco che a un battesimo non c'è decoro se non si ha il cappello a cilindro. In campagna non usano, ma siccome non vorrei mancar di rispetto a nessuno, fammi il piacere di portarmene uno sulla misura del filo che ti accludo. Alla puerpera vorrei regalare una scodellina di porcellana col piattello pieno di marenghi. Quanto fa l'oro a Milano? IV POVERA MARIANNINA! Caro Bortolo, sono tre giorni che voglio scriverti, ma non so più dove abbia la testa, non so più in che mondo viva e mi pare che da lunedì a questa parte un gran martello mi pesti il cuore. Mariannina, la mia Mariannina non ha voluto star qui col suo babbo e colla sua mamma. Era troppo bella per noi, ha voluto morire, ha voluto andar di là, dove ci deve essere un mondo più bello di questo, al quale bisogna ch'io creda, ora che c'è lei, dove vorrei andare anch'io.... Mi pare che tutta la mia vita sia sfasciata, non so che resti a fare in questa casa così grande e così vuota, ora che non c'è più lei. Dicono che passano anche questi dolori, che il tempo ha i suoi rimedi e sarà benissimo; ma intanto provi l'effetto come se una morsa ti abbia cavato il cuore e ti par di sentire al posto del cuore una voragine. In tre mesi che ci è stata in casa puoi immaginare come ci si era attaccati. La vita a poco a poco si era orientata e imperniata sopra di lei. Le altre ambizioni, le altre faccende, gl'interessi erano passati in seconda linea. Ciò che non aveva rapporto con Mariannina era per noi roba morta; e ora che essa è morta, ci par morto il mondo. Non ho più volontà di muovere le braccia, non ho più fame, non ho più occhi per vedere e sto qui come un ebete a guardar nella culla vuota, sforzandomi di non piangere per non far piangere lei, che si sforza di non piangere per non far piangere me. E così ci si guarda in viso alle volte come due imbronciati, finchè o si corre a piangere in un cantuccio di nascosto, o ci si butta l'uno nelle braccia dell'altra. Che dolori crudeli, Bortolo! non avrei mai creduto che si potesse soffrir tanto. Quando portarono via la povera mamma, mi pareva che più di così non si potesse soffrire. Ora sento che quello era quasi un dolore naturale, mentre questo è una tortura contro le leggi di natura, e qualche cosa di fisico si ribella, ti strozza, ti annienta. Passerà forse, ma il cuore resterà sempre colpito e malato da questa parte. I capelli bianchi che mi son spuntati in questi giorni resteranno sul capo. Pareva un fiore domenica mattina quando tu sei venuto per l'uva, un fiore lei, un fiore la mamma. Verso sera cominciò a lamentarsi e a indicare un male alla gola. Venne la febbre e prima di mezzanotte pareva già un cadaverino. Il dottore la giudicò subito per quel che era, per quella malattiaccia d'inferno e siccome è giovine, bravo, svelto e ha figliuoli anche lui, ti posso dire che se a questo mondo c'era un rimedio, me l'avrebbe salvata. La mamma pazza di disperazione andava supplicando il poveretto, gli s'inginocchiò davanti e poi si prese la bimba in braccio quando si tentò di bruciarla in gola, E io per far coraggio a lei cercavo di star lì col lume in mano, ma non potei resistere. Siam vigliacchi noi uomini. Per ammazzarci l'un l'altro abbiamo cuor di leone, ma per aiutare a patire chi patisce non si val nulla. Mi hanno menato via o devo essere fuggito in giardino o devo essere caduto sulla soglia dell'uscio, urtando la testa nello stipite di sasso, perchè sento un gran dolore alla tempia, dove c'è ancora il segno del sangue. Può essere anche che io abbia attraversato un momento di pazzia. È un dolore così bestiale che ti leva la ragione. La mattina all'alba quando cominciarono a cantare gli uccelli in giardino, Mariannina era già morta. Mi hanno condotto di sopra a vedere. La sua mamma era prostrata sul pavimento come una delle donne del Calvario; le altre piangevano istupidite e la mia Mariannina nella luce bianca della finestra era lì come una creatura di cera. Tutto era finito. Mi pareva impossibile che potesse incominciare un altro giorno e continuare il mondo come prima. A poco a poco divenni duro e insensibile. - A cosa fatta - dicevo tra me - non c'è rimedio. Pensiamo a farla portar via... - E così materialmente, come un sonnambulo, per tutto il giorno mi occupai dei preparativi del funerale, come se si trattasse d'una persona che non mi riguardava. Il dolore, quando è troppo forte, non si sente più, come il soldato non sente la palla che l'uccide. Le parenti condussero via Carolina che non voleva separarsi dalla sua carne; e io rimasi solo nella mia casa grande, in mezzo a molta gente venuta a consolarmi, occupato a far collocare i cavalli in stalla, a dar da mangiare ai vetturali, a servir qualche colazione, proprio come tre mesi fa quando siete venuti per il battesimo. Eran quasi tutte le stesse faccie, le stesse carrozze, gli stessi cavalli; ma il colore dell'aria era mutato. Io vedevo le cose come attraverso a un velo fitto di nebbia. Seppi però mostrarmi forte, perchè andavo dicendomi che un uomo deve essere anzitutto un uomo e non deve dar spettacolo alla gente delle sue lagrime e della sua desolazione. I dolori santi vogliono i loro tabernacoli. Pensai ai fiori, al cofanetto, e quando il convoglio uscì dal portone, stetti a guardare appoggiato al muro. Sentivo delle mani che stringevano le mie, dicevo grazie a tutti senza veder nessuno, e avrei resistito forse fino all'ultimo se, credendo di darmi un'altra consolazione, quei della parrocchia non avessero cominciato a sonare a festa. Furono sei o sette colpi di martello sulla testa. Urlando, corsi in casa e caddi sul divano colla bocca contro i cuscini. Eppur bisogna vivere, caro Bortolo, specialmente quando c'è qualcuno che soffre con te e come te. La vedessi! Non ha più nè voce nè colori e da ieri va rimestando per la casa a raccogliere tutto quello che apparteneva alla piccina. Quanta roba era già sua! quanto posto aveva già occupato in tre mesi! Ora siamo più necessari l'uno all'altro. Come due ferri caldi battuti sull'incudine, i nostri cuori non potranno più separarsi. Parleremo di lei, andremo a trovarla tutti i giorni nel suo cantuccio e se non avremo altri figliuoli, quel po' di ben di Dio che si possiede andrà in qualche modo a ricordarla per sempre a queste povere bambine del paese. Bisogna patire per comprendere chi patisce e non puoi credere il rimorso che si prova di non aver creduto abbastanza al dolore degli altri, quando beato e felice credevi di dominare il mondo. A queste povere donne che perdono un bambino si suol dire: santa croce vi aiuta... - Nel nostro egoismo crediamo di dare una consolazione. Ma quando hai piantato una croce sulla testa di una tua creatura, allora capisci che noi abbiamo sempre abbastanza coraggio per sopportare le disgrazie degli altri e troppo poco per accettare le nostre. Il dolore ci rende meno ignoranti. I figliuoli vivi ci fanno attivi, onesti, coraggiosi: quei morti ci rendono più giusti e più misericordiosi. Quando si ha un pezzo di cuore sepolto, non si può essere egoisti con quel poco che ce ne resta. Scusa se ho versato in te la mia malinconia: parlandone e scrivendone, mi par di mettere un respiro in quella povera morticina; e per un pezzo non potremo vivere che di questi respiri. Tu compatiscimi. V. LA NOSTRA FIGLIUOLA Non è dea, non è ninfa, o venerata Imagine d'altare; E figlia nostra, amici, è, come pare, Un fior di casa nell'amor sbocciata. Divino olezzo ella traspira, come Se fosse or ora uscita Colle viole dall'aeree dita Di primavera, e grazia è il suo bel nome. Sen vien correndo e il venticel non osa Pure scoprirle il piede: Appena l'erba sotto i passi cede E a farle festa adornani ogni rosa. Disarmata sen viene in un succinto Vestito bianco schietto, Ma trema l'appiattato giovinetto, Che di vincere teme e d'esser vinto. Noi lenti padri, a cui la vita manca, E colla vita il cielo, L'antica fede nel corporeo velo Vediam passar della visione bianca. Vediam passar la giovinezza e tutta Sentiam la mesta gloria Dei giorni andati e parla la memoria Al cor sopito d'un età distrutta; Quando, men note, ci parean più care Le sorti fuggitive E negli acuti spasimi più vive Sorgevan le speranze a giubilare. O giovinezza, che il giardino adorni Dei morti, o vecchio incanto! Come da suol così pregno di pianto, O fior della bellezza, a noi ritorni? Corri, fanciulla. A suscitar cammina Le meste voci e i santi Affetti e le speranze vacillanti E del vivere ancor l'arte divina. Tu passi e noi siam buoni. Al tuo splendore, Mite come la luna, Cedon le larve che l'età raduna E canta un usignuolo in grembo al core. PARTE SECONDA I. PREMI E CASTIGHI Tempo fa, invitato a discorrere sull'efficacia dei premî e dei castighi nell'educazione, un maestro di mia vecchia conoscenza, così prese a dire: "La questione dei Premî e dei Castighi o in altre parole: Quale importanza si debba dare nell'educazione moderna alla Rimunerazione e alla Riprensione è di quelle che si possono dire non risolte mai definitivamente, ma che invece, seguendo il corso del tempo, sono costrette rapidamente a trasformarsi, e ad adattarsi continuamente ai nuovi costumi. Ciò che poteva parere buono cent'anni fa, diventa spesso pessima cosa, od assurdità oggi: mentre i principî restano immutabili, l'applicazione di essi varia al variar delle lune, e chi, per esempio, pensasse di applicare rigorosamente all'educazione de' suoi figliuoli il metodo tenuto con lui da' suoi venerati genitori, può darsi che il risultato nel solo viaggio d'una generazione torni differente o contrario. Se una volta, per venire al mio argomento, poteva parere a un giovinetto il sommo degli onori il ricevere una corona d'alloro in piena accademia, o il vedersi dipinto e contornato di simbolici emblemi nei corridoi del collegio, e avere il suo nome coniato in oro o in argento, quanti dei nostri giovinetti non si sentirebbero disturbati oggi dalla pompa di queste cerimonie? Se il mandare il fanciullo a messa colla reticella da notte in capo poteva sembrare ai genitori dell'Alfieri un castigo efficace, non v'è chi vorrebbe esperimentarlo oggidì, anche sopra un bambino meno ribelle dell'Alfieri. Se una parola cortese, o il baciamano, o l'essere allontanato da un rosario domestico poteva sembrare ai tempi della fanciullezza dell'Azeglio un premio e un castigo pieno di significato, poco ne avrebbero al presente. Così dite delle orecchie di cartone, della croce fatta colla lingua in terra, dello stare ginocchioni con sassolini sotto, o in piedi colle mani alzate come Mosè, delle scorpacciate concesse in premio d'una buona azione; delle ghiottornie che si portavano una volta in collegio per raddolcire l'amarezza della prigionia, e di tutto quell'arsenale di mezzi e di mezzucci, che non risponde più al meccanismo della società e dello spirito moderno, come i vecchi telai di legno non rispondono più ai bisogni e ai desideri dell'industria. La natura umana non è meno viziosa oggi di ieri, nè la necessità dei rimedi a guarire i vizi della natura è meno sentita da noi, di quanto sentiamo la necessità delle medicine per guarire i vizi del sangue e del sistema nervoso. Anzi se dovessimo credere alle apparenze, i nostri vecchi avevano una costituzione fisica e morale più forte, mentre noi per colpa di mutate condizioni ci piglia la tosse ad ogni soffio di vento. Forse perciò la medicina va mettendo in disparte i mezzi eroici e risoluti, le ampie cavate di sangue, il sistema d'indebolire e di abbattere prima di guarire, e lasciando molto alla vis medicatrix naturæ, procura di ricostituire le forze con metodi regolari di vita. Così è pure di quell'arte medica e morale, che si chiama Educazione, che va di giorno in giorno abbandonando i mezzi violenti, estranei alla natura, contenta di suggerire piuttosto che d'imporsi. Non voglio dire con ciò che la responsabilità dell'educatore sia diminuita, o che perchè le tirate d'orecchi sono proibite, il buon uomo abbia meno da fare. Tanto l'incoraggiamento, come il freno devono entrare ancora e per molta parte nella nostra sorveglianza, perchè pur troppo la natura umana non si muove di necessità sotto una forza continua e uniforme, come si muovono gli astri, che vanno da sè al loro fine; ma è incostante, bizzarra, con impeti inconsulti e pigri abbandoni, pieghevole come un giunco ai moti dell'aria. Che cosa rappresentano nell'educazione il Premio e il Castigo? sono per i primi anni l'unica espressione viva e sensibile, che noi possiamo dare al nostro sentimento morale: sono l'entusiasmo e l'orrore, che noi manifestiamo per un'azione buona o cattiva; dietro questo entusiasmo, dietro questo orrore sta la Legge, come il popolo ebreo, popolo bambino, vedeva la legge negli splendori e nelle nuvole del monte. Rimanere impassibili come statue innanzi ai moti buoni o perversi del nostro allievo, è perdere la più vigorosa occasione di rivelargli la legge, e nel male è un farsi suo complice. L'approvare e il disapprovare sbadatamente è anche un male peggiore: è un correre il rischio di violarla, o per falsa stima delle cose, o per pigrizia, o per malizia. Una lode ingiusta può introdurre, senza che voi ve ne accorgiate, l'ingiustizia nel cuore del vostro figliuolo e introdurvela quasi incoronata e applaudita. Un castigo inopportuno può oscurare per sempre la visione del bene ed è in questo modo che sovente nascono i così detti figliuoli incorreggibili. È il vostro figliuolo veramente incorreggibile, o è la vostra correzione ingiusta e incorreggibile? E voi che tormentate il testardo colla voce e colle mani, vi tormentate una volta voi stessi a cercare la ragione della vostra ragione? Ciò vi dimostri che il nostro argomento, se non è dei più nuovi, non è divenuto ancora dei più oziosi. Anzi è un argomento che si accosta e s'incatena tanto colle leggi generali dell'educazione, che non si potrebbe parlarne adequatamente, senza toccare di quelle leggi, donde scaturisce. Perchè, se, come si disse, la rimunerazione e la riprensione sono per sè stesse un giudizio vivace intorno a ciò che conviene o non conviene di fare, bisognerebbe veder prima, se del buono e del turpe ciascuno di noi abbia in cuore la chiara coscienza. E qualora sì, vedere di nuovo se questa coscienza è così prudente e così sensibile da non lasciar dubbio ch'essa si manifesti o troppo presto o troppo tardi. Bisognerebbe insomma ch'io domandassi a ciascuno di voi il programma di ciò che intende per buona educazione o mettermi con voi a stabilirne uno. Ma, come vedete, ciò mi trascinerebbe in ben lontane peregrinazioni, e giova per il momento supporre e sperare che tutti quanti abbiate dell'educazione il più integro, il più amoroso, il più sacro disegno, in modo, che sarebbe farvi offesa il pensare che il vostro premio cada in onore d'azione meno onesta, o il vostro castigo sia lo spauracchio della virtù. Lasciando stare adunque la questione dei principî, è intorno ai mezzi e ai modi del premiare e del riprendere che noi dobbiamo quest'oggi restringere il nostro discorso. Ho conosciuto maestri, educatori, e babbi e mamme amorose lasciarsi spesso trascinare alla lode non dalla persuasione che quella buona parola cadesse a tempo, come la goccia di rugiada sul fiore, o come la goccia d'olio sopra un meccanismo in azione, o per dare una dolce sanzione morale a un atto virtuoso; ma soltanto perchè il cuore, sempre tenero e indulgente, era ghiotto esso stesso di quel dolce, che regalava altrui. O quest'oggi v'è un interesse straniero che concilia la bontà, o domani non si vuoi negare una consolazione a un poverino malato, o non si vuole che gli anni più belli della fanciullezza passino per lui meno fioriti, meno spensierati; oppure ho ben dormito la notte, ho fatto una eredità, è bel tempo e sento il bisogno di spargere intorno a me la festa, i regali, il perdono, la benevolenza. Mi servo di questi esempi per meglio accennare ai diversi casi, nei quali è facile che l'educatore sostituisca sè stesso e l'umor suo a quei principî, a quelle leggi morali di cui si discorreva più su. Io ho conosciuto anche qualche buona mamma, che nel suo figliuolo vedeva le sette meraviglie; nessuno più intelligente, nessuno più amoroso, più spiritoso e più bello. Ben difficilmente Pierino aveva dei torti, o quand'anche, erano così carini quei torti, che la ragione del maestro, della governante e perfino quella del babbo, non poteva valere di più. A poco a poco Pierino diventa un grazioso prepotentaccio, un manesco, un mariolo; ma se rompe dei vasi è buon segno di vivacità, se risponde un'insolenza è un tratto di carattere, e se ti cammina sui piedi è sì leggero ed elastico il bambino, che non fa male. Credete voi che quella buona madre applichi nei suoi giudizi i supremi principî del bene e del male? Dirò adunque fin dal principio che le lodi soverchie sono per sè stesse un'ingiustizia, sono un'immoralità per chi le dispensa, e una vera insidia all'innocenza. Sono un'ingiustizia in quanto si da più del merito, abbassando per conseguenza il vero merito a pari d'ogni mediocrissima azione, o fors'anche d'una azione riprovevole. Sono immorali per chi le dispensa, perchè dimostrano una fredda indifferenza fra ciò che è veramente grande santo e sublime e ciò che è solamente comune, ordinario, mediocre e piccino. È tanto ingiustizia negar l'alloro al povero Tasso, quanto il concederlo ad Arlecchino; questa confusione di apprezzamenti è poi la cagione prima, per cui gli sciocchi trionfano a danno dei virtuosi, e le apparenze tengono il campo della virtù, come i barattoli vuoti nelle scansie degli speziali. Sono finalmente un'insidia all'innocenza, perchè il fanciullo ci crede e s'inganna sul valore delle cose; quel giorno che egli crederà di avere in serbo un piccolo tesoro, troverà invece che le vostre monete erano tutte false. Alcuni miei compagni di fanciullezza si sarebbero per questa via perduti per sempre, quasi inebriati di sè stessi, se non piombava a tempo sul loro capo una severa lezione dell'esperienza, che li richiamò bruscamente alla vera coscienza delle cose e di sè stessi. Non posso, poichè mi trovo nell'argomento della lode, sorvolare sopra un difetto, che è specialmente comune nelle scuole, dove i maestri, trascinati da un naturale entusiasmo, largheggiano di onori più verso una buona facoltà o disposizione che sia innata nell'allievo, anzichè verso il merito delle sue vere conquiste e delle sue vere e faticose vittorie. Annibale ha vivace fantasia e scrive cose che sono piccoli poemi; per lui sono tutti gli allori, e maestri e parenti fanno a chi più esalta una dote che, se guardiamo bene, tanto meno la si può acquistare quanto più è squisita e straordinaria. Non è forse come portare dell'acqua al mare? Che direste di quell'agricoltore che, avendo varie parti del campo, quale feconda, quale arenosa, intendesse a fecondare dove c'è meno bisogno? Ne deriva quasi sempre che quel buon ingegno perde un bel giorno l'equilibrio delle sue facoltà e la fantasia trionfa sempre a danno dell'ordine, della meditazione, della diligenza, finchè, non tenuta a freno nè dallo studio nè dalla critica di sè stessa, svapora il più delle volte in una grande fumata. Se invece la lode, in questi casi, fosse riservata ad esercitare le altre facoltà più deboli, a raddolcire le pene che il giovinetto prova per tutto ciò che gli è meno naturale, non solo se ne vantaggierebbe quella dote prima, ma eviteremmo la noia di questi sognatori eterni, che dopo aver tentato un po' di tutto, col capolino asciutto, come il Giovinetto del Giusti, si sdraiano in un presuntuoso ozio senza riposo. Nelle scuole sopratutto, dove ogni nostro giudizio ha valore di sentenza, bisogna andar ben guardinghi nel commettere l'ingiustizia, se non si vuole seminare diffidenze, invidie e rancori. Lo spettacolo di chi trionfa soltanto per la fortuna dell'ingegno, è già per sè stesso un tormento per gli altri che salgono ad uno ad uno, e con affanno i gradini del sapere. Le nostre lodi siano adunque specialmente per chi lavora, e per chi ne ha più bisogno. Non credo di declamare cosa nuova, dicendo che la lode e i premi devono essere impartiti con parsimonia, essendo cose preziose; lasciamo che gli allievi ce le strappino di bocca o fuor della mano. Solo a questo prezzo se ne incapricciano, come di una fata che ha sempre del meraviglioso quando esce dalla nube. Ma se col continuo uso noi sciupiamo i bei colori di questa apparizione, toccherà anche alla rimunerazione la sorte di tutte le belle apparizioni di teatro, prese in troppa confidenza. Se v'è un maestro di cuor generoso che regala i numeri per niente, non uno de' suoi allievi gli è riconoscente; ma strappare un bel numero dall'ugna d'un pedantissimo è per i piccoli e per i grandi un trionfo da ricordarsene. La tenerezza tende molte volte delle insidie al cuore dei genitori, che insegnano a' loro bambini a far molto caso di ciò che è invece tutt'affatto secondario e di più. Cecilia è una cara bambina, con una voce che ha dentro di sè tutti i suoni dell'affetto e della civetteria. Ecco monta sullo sgabello e declama del Fusinato e del Metastasio (che non capisce) con tutte le moine d'una piccola artista: quindi lagrime della mamma, singhiozzoni del babbo, abbracci della nonna, baci e carezze, e chicche da tutte le parti, come se il recitare delle parole che non si capiscono sia veramente la più grande abilità di quella piccina. C'è dell'inganno per lei e per tutti. Cecilia sa fare benino la calza e guardate! nessuno le dice mai nulla. Non è neppur una cosa troppo facile il saper discernere, fra i meriti pari d'un buon allievo, sopra quale convenga essere più generoso; ma certamente credo di non ingannarmi, asserendo che non è necessario che la vostra lode perseguiti, dirò così, ogni piccola virtù, quasi che questa non possa essere anche il premio di sè stessa. Non solo adunque converrà talvolta sopprimere del tutto il nostro applauso, ma sarà un buon accorgimento di toglierlo a una bella e splendida azione per concederlo a qualche piccolo atto oscuro che indichi il nascere o il venir oltre di una nuova qualità da un pezzo desiderata. Carletto ha buon cuore e lascia cadere tutti i giorni una moneta del suo borsellino nella mano grinzosa del vecchierello sull'angolo della via. Posso anche fingere di non vederlo quell'atto generoso, e far invece le mie dolci congratulazioni per un primo compito meno macchiato del solito. Mi direte perciò un uomo che non capisce niente? Voi vedete, quanta importanza possa avere l'eccitamento dell'approvazione e del premio non solo per riguardo alla condotta delle buone qualità, ma anche a risvegliare queste stesse qualità latenti e come avvizzite; nello stesso tempo bisogna evitare che il nostro affetto induca nel nostro allievo un gretto egoismo. Ma le difficoltà non sono finite; bisognerebbe ch'io vi parlassi a lungo anche intorno al genere di queste lodi e di queste ricompense, che rappresentano per il fanciullo l'equivalente delle buone azioni. Il fanciullo, nella sua semplicità un po' materiale, non può a meno di giudicare della maggiore o minore bontà della sua condotta che dalla maggiore o minore grandezza del premio. Nè possiamo pretendere da un bambino ciò che fa illusione anche agli uomini grandi e ai grandi uomini. Chi di noi non è avvezzo a giudicare il merito d'una persona dallo stipendio che riscuote la fine del mese? Non è a meravigliarsi dunque che Luigino, posto fra un cavalluccio di cartone e uno di legno, stimi virtù e merito più grande quello che viene sul cavallo di legno. Se così stanno le cose, cioè se nella sua semplicità egli non può giudicare l'astratto che nelle proporzioni del concreto, voi vedete, che c'è un pericolo anche nel distribuire i regali e i premi a caso(5). Anche la qualità delle parole che si dicono può turbare il senso morale. Loderete Pierino perchè è bello? Prometterete sempre un vantaggio al suo sacrificio? Premierete un bel tratto, una bella obbedienza con leccornie o con bei vestiti? Se fra gli altri pericoli temete che il vostro figliuolo diventi un ghiottone, e un vanerello, come non lo diventerà, se la ghiottoneria e il lusso sono il premio delle sue virtù? Nella lode come nella correzione dobbiamo sempre aver di mira di far brillare agli occhi dell'allievo la giustizia; il fanciullo, che è sempre il nostro giudice, sa subito distinguere da sè ciò che noi gli diciamo per amor suo, e ciò che diciamo per amor nostro. Bisogna che l'affetto nostro e la nostra naturale inclinazione per tutto ciò che è piccino e bello e attraente, non sia il frutto d'un pigro egoismo, che perdona e concede per non scomodarsi, che ci fa schiavi a poco a poco dei nostri allievi, e seconda in loro quella tendenza di tutto rapportare a sè, come se fossero essi il centro del mondo. La giovinezza è un vaso fragile e limpidissimo. Questo dobbiamo aver sempre presente per non agitarla con scosse violenti, per non deturparla nemmeno col fiato; ma chi, per paura di romperla, permette che si deturpi da sè fino a lasciarle perdere il suo splendore, commette un tradimento. * * * Lasciate che vi ricordi una sentenza di Garfield, il povero presidente degli Stati Uniti, che fu anche un uomo di spirito. Egli disse nelle sue massime che bisogna aver il coraggio di guardare in faccia al diavolo e di dirgli: - Tu sei il diavolo! Quel "diavolo" in corpo che nell'educazione giovanile i vecchi metodi dei collegi, specialmente ecclesiastici, cercavano e cercano con ogni mezzo di incatenare, di battere e di sopprimere, io vorrei che diventasse il nostro più vigoroso alleato, perchè esso mi rappresenta quasi sempre l'energia e il carattere più distinto del fanciullo. Nelle nostre virtù noi siamo quasi tutti eguali, perchè la virtù è un inno e l'inno è un accordo di voci e di parole; è nelle male tendenze; nell'indocilità, nell'orgoglio, nell'ira, nella furberia, nella dissolutezza che ciascuno di noi si palesa e si atteggia in una sua maniera, segno che il "diavolo" vuol essere sempre indipendente. Caccieremo fuori questo spirito di ribellione? accetteremo anche noi quella vecchia parola di mortificazione, che ha dentro di sè sì malinconica radice? A mio credere nulla bisognerebbe mortificare di ciò che Dio ha creato e anche il diavolo, specialmente quello dei nostri figliuoli, vien da Dio, o col suo permesso. Ma bisogna guardargli in faccia senza paura, e fargli sentire che non si giuoca, farsene una specie di scudiero alla foggia di quel gigante, di cui racconta il Pulci nel suo poema. La correzione, come dice la sua parola, vuol essere un sorreggere, un accompagnare colla mano i passi vacillanti, non una spinta nella schiena che butti a terra. Nei vecchi sistemi (che non sono però invecchiati del tutto) per paura che allignassero delle male radici si spargeva a buon conto tutto il campo di cenere, e così colle tristi intisichivano anche le buone. Si finiva dunque collo spogliare il fanciullo d'ogni sua nota caratteristica, riducendolo a una misura convenzionale, vestendolo in una foggia prestabilita, come accade ai poveri coscritti entro le grosse vesti di tela, che si somigliano tutti. Ma togliete all'uomo il suo carattere e sarà come sottrarre il fuoco alla macchina; l'uomo, che manca di individualità, non potrà mai essere onestamente utile nè per sè nè per i suoi, ma come una macchina spenta si lascierà sempre trascinare dai più forti e dai più astuti. Voi vedete dunque, quanto importi che la nostra correzione, e il nostro castigo non siano un'opera nè di devastazione, nè di defalciazione, ma una semplice azione direttiva, repressiva anche, purchè nulla vada perduto di ciò che è vitale. Gl'Inglesi sono già arrivati da molto tempo a questa considerazione, e sebbene la libertà e l'abbandono in cui lasciano l'allievo, non sia interamente da consigliare per noi, è fatto notissimo però che gl'Inglesi mirano piuttosto a salvare il carattere anche con pericolo dell'uomo. L'azione dunque della correzione vuol essere un movimento tutto dell'animo, nulla di esterno. Ogni uomo, nascendo, porta con sè quasi il regolatore della sua vita in alcuni sentimenti, che furono finora o mal conosciuti o male apprezzati e dei quali aspetto di parlarvene fra poco. Intanto le ragioni del tempo e la coscienza nostra ci hanno già tolti di mano quegli strumenti brutali di cui pochi di noi conservano confusamente qualche remota reminiscenza. V'è una pedagogica barbara, che annovera anche il terrore fra i buoni mezzi educativi, e crede ancora all'efficacia dello staffile, come vi son molti che credono ancora all'efficacia della pena di morte. Noi non abbiamo nulla a vedere con questa pedagogica, e se perdoniamo allo zelo materno un gesto anche molto vivace della mano, là dove non entrano le persuasioni pedagogiche, oltre un punto solo vogliamo che il corpo del fanciullo sia il tempio sacrosanto di qualche cosa di immortale, e sacrilega sia la mano che lo tocca. Ai tempi di quei maestri che il Giusti chiamava "vetturali" pareva impossibile che cinquanta ragazzacci stessero uniti in una scuola se non ammaliati dal bastone, e i colpi si distribuivano a dosi come le medicine, chiamando gli stessi compagni a tener ferma la mano del colpevole. Perchè dopo trent'anni appena ci sembrano cose, dell'altro mondo? Non accusiamo i nostri padri di colpe che al loro posto avremmo commesse anche noi; ma la riflessione si faccia almeno per nostro avviso, per non cadere in altri errori, che non sono meno assurdi per quanto siano più umani. Noi dobbiamo fare qualche cosa di più, e guardare abbasso a ciò che accade anche oggidì, fra tanta declamazione di gentilezza, nelle officine, nelle botteghe, nelle famiglie del popolino e non accontentarsi di star bene noi, ma procurare anche agli altri e specialmente ai più bisognosi il mezzo di guarire. Qui non si può sperare che un discorso di più o di meno possa cangiare la faccia delle cose, ma noi dobbiamo disperare che quella gente sia preparata alla dolcezza della civiltà, finchè maestri di bottega, padri e madri di famiglia, pienamente al buio di ciò che sia educare ed insegnare, usano d'una correzione che è espressione, non d'un principio, ma dell'ira, dell'odio, dell'avarizia, dell'ubbriachezza, di tutto ciò che volete di più inconsulto, di più brutale. Una delle più vive impressioni della mia fanciullezza fu la vista di un ragazzetto di forse sei anni, che, seduto innanzi al deschetto d'un ciabattino, imparava allora a tirare i primi spaghi. Io imparava allora le prime declinazioni latine. Il padrone, un brutto ceffo che pareva tinto col carbone, gli aveva sempre gli occhiacci addosso e ad ogni colpo in fallo, faceva piombare sul viso e sulle braccia nude del bambino una doppia correggia di cuoio. La correzione lasciava il segno su quelle povere carni e il bambino s'ingegnava d'infilare sullo spago anche le sue lagrime. Un giorno lo sgabello era vuoto, e io sperai che il poverino potesse morire. Ma pensando a ciò che io ho sofferto per lui a quel tempo, e all'impeto d'odio che provavo contro quel brutto arnese, mi spaventa che oggi non sia molto meglio d'una volta. Una correzione che ha per iscopo di nutrire nel cuore l'odio e il corruccio, è un delitto come ogni sorta di corruzione morale. Nè le parole sono spesso più educative di questi atti, anzi nelle officine, e su per le baltresche corrono formole di rimprovero che son trattatelli concentrati di malizia, e gli epiteti e gli auguri che certe madri inviano alle loro figliuole, sono spesso di tal natura, ch'io non potrei pure accennarle senza offendere la dignità de' miei uditori. Ma qui non è il caso di deplorare; parole se ne fanno già molte e per nulla. Speriamo solo che gli amici del popolo comincino veramente ad amare il popolo come sè stessi. Ma anche fra noi, che presumiamo di sorgere talvolta a maestri di ciò che conviene, non sono molti coloro che in mezzo alle molteplici e fastidiose incombenze dell'educare, sotto la noia di un lungo esercizio, nella moltitudine, nell'insofferenza degli allievi, innanzi alla loro dissipazione chiassosa, turbolenta, vorticosa, non sono molti coloro che sappiano mantenere quella serenità di spirito e di parole, per cui lo zelo trabocca dalla giustizia, e non dall'impazienza e dall'ira. Battere altrui per dare un piacere alla mano è mestiere da tiranno: egualmente l'esplosione di un'anima iraconda non potrà mai essere uno spettacolo educativo. Al di sopra delle nostre passioni sta il sommo bene del nostro allievo, del nostro figliuolo, e se giova il calore della voce, il lampo degli sguardi a dimostrare un vivo amore alla giustizia, lo zelo non deve mai far le spese del nostro sangue e dei nostri nervi. Son cose facili a dirsi lo so; ma che cosa sarebbe l'ideale dell'educatore senza la virtù del disinteresse, che lo riveste d'una sacra maestà e fa di lui un personaggio meno terrestre, o meno comune degli altri? È ai giovani maestri, che più sentono le tentazioni del sangue e ai quali forse la mia voce può sembrare meno debole, ch'io vorrei raccomandare questo prezioso esercizio di osservazione sopra sè stessi, allo scopo di sceverare sempre sè stessi dalle volgari passioni del momento e di mettere più lucida innanzi la nozione del bene. Che prima di venire al castigo convenga conoscere l'indole del fanciullo per non correre il rischio di turbarne il sentimento; che non a tutti gli allievi l'egual castigo e l'eguale rimprovero torna opportuno; che bisogna procurare di piegare al meglio e non di affogare una naturale inclinazione; che il castigo troppo ripetuto perde la sua tempra; che l'ammonizione privata e amorosa, novanta volte su cento, vale più della punizione pubblica e spettacolosa, sono cose d'una sapienza troppo antica, perchè io debba ripicchiare sopra di esse. Aprite qualunque buon libro di educazione pratica, quello della Necker de Saussure p. e. intorno all'Educazione Progressiva e vi troverete scritto che "una punizione perchè sia efficace e a proposito deve essere annunciata prima e applicata in seguito a un caso ben definito; che bisogna cercare di volgere la reprensione dal lato della persuasione; che la noia delle nostre eterne querimonie finisce coll'indurre nell'allievo un sentimento di disistima verso di noi, e collo staccare il suo spirito dal nostro; che l'ironia e le frecciate lunghe e indirette sono generalmente odiose e irritanti per un'anima tenerella; che una volta scontato il fallo, bisogna restituire al fanciullo tutta intiera la nostra benevolenza e non parlarne più e così via". Nè io finirei così presto, se volessi enumerare tutte le precauzioni che il buon medico deve avere verso il suo malato; le circostanze di luogo, di clima, di natura, variano all'infinito, come variano i colori del mare, del quale non si può dire se sia verde od azzurro. È nell'applicazione che la dottrina dell'educazione diventa un'arte delle più complicate, e il dare dei precetti nell'arte, voi sapete che spesso equivale come imbrogliare le idee. L'amore è la più tenera guida, se non la più sicura; e difficilmente s'inganna chi nell'educazione interroga spesso e attentamente ciò che il cuore gli dice. Lasciando dunque da parte ciò che fu sempre sperimentato come buono e conveniente, mi preme di richiamare la vostra attenzione su certe condizioni nuove del nostro tempo, che mettono in serio imbarazzo il cuore e la mente di chi deve educare. Nei collegi, negli orfanotrofi, nelle comunità d'ogni sorta, e anche nelle famiglie, oggi, (e ve ne sarete accorti) il dovere della riprensione e del castigo è divenuto così arduo e spinoso, da far nascere il dubbio se non sia meglio chiudere gli occhi e abbandonarsi alla provvidenza. Di tanto in tanto noi leggiamo tra i fatti diversi dei giornali notizie orribili di fanciulli, di giovinetti e perfino di bambine, che per un esagerato sentimento di sè, preferiscono la morte all'umiliazione d'un castigo, e se la danno la morte colle loro tenere mani, prima di aver assaggiato nulla della vita, lasciando dietro di loro uno sgomento indescrivibile in chi, fra gli altri suoi doveri, ha pur quello di punire. I fatti sono noti anche a voi, nè io avrei coraggio di ripeterli. Sebbene la loro frequenza cominci a mettere un doloroso ingombro nelle tabelle statistiche, voglio tuttavia considerare queste sciagure come eccezioni, o come si dice, casi patologici isolati. Ma sotto a questi fatti, che spuntano a galla, sarebbe una debolezza il credere che non esista uno stato d'eccitazione morbosa o almeno una troppo delicata costituzione nelle ultime nostre generazioni. Io non ho tempo di risolvere quest'oggi un problema, che altri potrebbe ricercare meglio di me, cioè se questa estrema delicatezza o nervosità sia il buon frutto d'un sistema migliorato, il quod erat in votis, un segno infine che le generazioni vanno raffinandosi nella civiltà, oppure un segno di decadenza morale. Mi basta notare il fatto e vi prego di convenire con me che oggi i nostri figliuoli non nascono più bamboccioni solamente golosi e curiosi, ma portano col nascere, insieme al nostro sangue, quel più di vita che fa bisogno per un tempo in cui la vita e un correre, un affaccendarsi, uno spingersi l'un l'altro. A cinque anni un bambino ne sa quanto non sapevamo noi, d'una generazione non molto antica, a sette, a nove anni; e ben disse Alfonso Karr che a Parigi non vi sono bambine. Anche il nodo della famiglia si è stretto di più, il tu s'è sostituito al lei; mamma e figliuolo si abbracciano veramente come devono fare: e sembra bello, giusto e naturale ciò che alle nostre nonne pareva un peccato o per lo meno una sconvenienza. In quest'atmosfera più calda i fanciulli maturano prima; hanno libri e giornali per loro; lo scuole sono più rapide, le cognizioni arrivano più presto all'orecchio e all'occhio del vostro bambino, nè vale che voi corriate a chiudere la porta e la finestra; la cosa vi entra dall'abbaino. Ed ecco il piccolo uomo, molto amato, molto istrutto, molto eloquente, che sa d'avere dei diritti quanti sono i suoi doveri, che sente sè stesso più grande di quello che sia, che per conseguenza soffre in un modo sproporzionato d'ogni puntura inflitta al suo amor proprio. Le condizioni e le abitudini domestiche possono anche imprimere a questa natura più viva le forme più svariate e più squisite della gentilezza, della bontà, della sensibilità; se da una parte voi siete davanti a un genio altiero che non soffre catene, dall'altra parte avete animette che soffrono, senza fremiti, ma con danno mortale d'ogni piccolo colpo che voi portate alla loro sensibilità. Nell'un caso e nell'altro la mano dell'educatore non osa più pesare quanto è necessario: e non che la mano, il dito. Le madri vedono con muto stupore le insurrezioni d'uno spirito che precorre il calendario e mentre credono d'aver sulle ginocchia un bambino, è un filosofo che parla. Oh! volete castigare un filosofo nel vino e nella frutta? Chiuderete in una cameretta buia con pane e acqua un giovinetto che sa come si possa, ad un bisogno, saltar dalla finestra? Attenuate pure il volume e il peso delle mie parole, se vi pare che io abbia troppo ingrossata la voce; ma dovrete pure consentire che anche abbassando il tuono, le cose sono oggi cambiate e che l'educatore ha ragione di temere o di far troppo o di far troppo poco. Ebbene, dovrà essere menomata l'autorità del maestro e del padre da una siffatta preoccupazione? concederemo intera libertà ai sediziosi impeti della natura, o dovremo proprio sembrare spietati agli occhi loro? sono due pericoli egualmente paurosi, perchè la scarsa o la nessuna direzione non è peggiore della mancanza d'una amorosa corrispondenza. L'essere fiacchi equivale, parlando di educazione, all'essere tiranni. Quindi mentre da una parte noi sentiamo la necessità di rallentare i vincoli e di concedere ai nostri allievi quella libertà di movimento spirituale, che sola può dare forma e robustezza al loro carattere individuale, dall'altra ci sentiamo sfuggire di mano i vecchi strumenti di correzione, quale perchè logorato dal tempo, quale perchè in contraddizione col metodo, quale altro per non far peggio o per rispetto umano. Supponete un fanciullo molto ostinato che non intende più la voce paterna: che cosa resta a fare? Supponete uno scolaro indisciplinato e negligente, pel quale siano state inutili le prime, le seconde e le terze ammonizioni? Non resta al maestro che di scacciarlo, ma una disgrazia non può in nessun modo ripararne un'altra. E intanto i malcontenti prendono motivo per predicare che i tempi peggiorano, che l'autorità paterna si fiacca, che la baldanza giovanile spadroneggia, che le generazioni vanno incontro all'avvenire sbrigliate, con poca coscienza dei loro doveri; anzi con tanta poca coscienza di questi quanto è troppa la coscienza dei loro diritti. Noi non vogliamo tornare indietro, nè ormai si potrebbe più; ma dobbiamo studiare i modi di rendere buono ciò che ha in sè stesso gli elementi della bontà. E anzitutto se l'uomo si risveglia prima nel bambino, svegliamoci prima anche noi, perchè un giorno perduto nell'educazione può essere un raccolto perduto. Rendiamoci persuasi di quel che debba essere il nostro sacrificio, e cominciamo col castigare in noi stessi tutto ciò che può portare al male l'innocenza, frenando, se è necessario, anche quelle care e divine intemperanze del cuore, che sono i gridi più entusiastici della natura. Tutto ciò che i parenti e i maestri fanno per l'educazione di loro stessi, sono altrettanti dolori risparmiati ai figliuoli, e la famiglia in questo studio deve dare la mano alla scuola. Una volta che questa prima vittoria sia ottenuta, (nè deve essere difficile, se abbiamo un sentimento generoso) ottenuto cioè che l'educare non sia più un esercizio empirico di buone e di false tradizioni, ma un concetto luminoso nell'animo di tutti, il compito nostro è subito semplificato. Senza bisogno di mortificare quel diavolo che salta nel corpo, ma non nell'anima ai nostri figliuoli, potremo far entrare sane e tutte intere le forze vergini e robuste della natura nell'organismo dell'uomo senza sciupar nulla, sicuri che quando, l'uomo possegga l'animo retto e le forze rigogliose, molte cose le trova facilmente per la via. Ma come si otterrà questo miracolo? * * * Quando il nostro figliuolo viene al mondo (e non si può cominciar bene che dal principio) è come un terreno che ha in sè i germi fecondi, ma senza erbe e senza piante. Non è, come si diceva una volta, una tabula rasa, ma un suolo non dissodato, che può essere suscettibile di vegetazione rigogliosa. Tocca a noi, colla nostra attenzione, di condurre intorno a lui quelle condizioni di cose che sono come il calore, la luce, l'aria e l'acqua per il campo. Questa forza vitale, per la quale il bambino è destinato a crescere e a svilupparsi, produce quasi subito due sentimenti, che sono il primo germoglio della sua vita spirituale, voglio dire la pietà e l'amor di sè stesso. La pietà è naturale in una creaturina debole, che ha tanti bisogni, che soffre vivamente e che imagina tutte le cose dover soffrire come lui; l'amore di sè è il prodotto più spontaneo d'un essere vivo, pel quale la vita è tutto. L'una porta alla considerazione del mondo che ne circonda, e aiuta a farci conoscere la madre, i parenti, gli uomini tutti; l'altro va completando in noi stessi quelle forze egoistiche, che sono pure le colonne della nostra individualità. Le prime lagrime e i primi capricci sono appunto la prima espressione di questi due sentimenti, che per me rappresentano quasi lo strumento promotore e moderatore di tutti gli atti successivi. Educate quel buon sentimento pietoso, ampliatelo, offrite spesso le occasioni di esercitarsi, dimostrate insieme come ogni ingiustizia, dalla più piccola impertinenza alle ferite e all'uccisione, siano dolori e sofferenze per qualcuno; fatevi vedere voi stessi sofferenti e non rassegnati, e il fanciullo proverà tale sgomento che sfuggirà l'ingiustizia, come sfugge il dolore. Rifrugando nelle memorie più lontane della mia fanciullezza, mi ricordo di un giorno che, andando per un sentiero campestre, volli farmi un bastoncino del tronco novello di un gelso, piantato in un vivaio. Trassi il mio coltellino e tagliai sbadatamente al piede il tenero ramicello. Ma una voce dietro di me gridando mi fece trasalire. Era un bel vecchio contadino, il padrone del luogo, che mi rimproverava per quella brutta azione. Udendo però che non l'avevo fatto per malizia, mentre stavo come smarrito, raddolcì la voce: - Perchè hai voluto far male a quella povera pianta? non è egli vero che sarebbe cresciuta bella, alta, piena di frasche? e così tu l'hai uccisa... Questa brutta parola mi fece una sì grande compassione, ch'io ruppi in lagrime. Ne provai dentro di me un rimorso e uno sgomento, come se veramente la pianticella avesse patito umanamente... e da quel giorno imparai a rispettare le piante. Chi mi assicura che anche gli uomini non ci abbiano guadagnato? La giustizia che si presenta sotto la veste di pietosa ed amorosa bontà trova sempre buona accoglienza nel cuore del fanciullo; non resta dunque che di saper ridurre a questa formola tutta la giustizia, e di lasciare che naturalmente dalla pietà derivi il rispetto, la venerazione, l'aiuto e il coraggio. Ogni piccola colpa, si dice, offende Dio; più chiaramente si dirà che ogni piccola colpa offende una coscienza gentile(6). * * * A salvare poi dal pericolo che questa sensibilità degradi in gracilità, rimane l'altro sentimento, l'amor proprio, quel diavolo che faceva tanta paura ai claustrali e ai santi del medio evo, i quali dichiaravano per fargli rabbia, essere l'uomo abbietto verme, vil fango della terra. Io mi guarderei bene dal pronunciare queste massime innanzi a' miei allievi, e son invece d'avviso che convenga lusingare il naturale egoismo per quel tanto che possa concorrere a creare l'idea della propria dignità e del proprio valore. Funesta nell'educazione è qualunque dottrina che nega direttamente o indirettamente gli attributi quasi divini dell'uomo, e per quanto amore io porti al povero Leopardi, non è sulle querimonie sue ch'io potrei sperare di educare un buon cittadino. Così tutto ciò che è negativo, come la satira, e tutto ciò che tende ad abbassare il concetto umano, come il materialismo, state sicuri che in educazione farà sempre tristissima prova. Noi dobbiamo poter dire al nostro allievo: - Sì, tu sei il re dell'universo: tu hai fatto opere meravigliose: il tuo corpo è il più bello di tutte le creature: il tuo pensiero è un raggio divino; la tua parola è potente - per potergli dire subito dopo: - Non scender nel fango, non deturpare quella tua bellezza, non offuscare quel tuo pensiero. Le madri non dicono forse per ispirazione al loro bimbo che piange: - Ve', ve', come sei brutto!? - Ecco tutto, noi dobbiamo procurare di turbare la coscienza del nostro allievo colla immagine della sua deformità, ma questa immagine non ha altro specchio che l'amor proprio. Il non far il male per non dispiacere agli altri è un sentimento pietoso che vale per uno, il non farlo per non dispiacere a sè stesso vale per cento. Quell'Io sempre presente, che ha ripugnanza di tutto ciò che non è pulito, quell'Io alquanto altezzoso, persuaso della propria forza, è l'educatore più saggio, più vigilante che voi possiate dare ai vostri figliuoli. Diciamo dunque e presto ai nostri allievi che la sincerità è un bell'ornamento nel carattere dell'uomo, e diamo noi stessi l'esempio, non solo di non mentir mai, ma di stimare chi confessa la propria colpa, come se fosse un soldato coraggioso che torna dalla battaglia. Appena se ne provò l'esperienza nelle scuole, la bugia fuggì come se avesse le gambe lunghe, ed è bello veramente, direi quasi, commovente, lo spettacolo d'un fanciullo, che sapendo d'essere colpevole, si alza fra cinquanta o sessanta testoline e dice: - Sono stato io, mi scusi... - Il maestro commosso gli restituisce tutta la sua benevolenza e nel cuore del fanciullo non resta più nessun fondo di amarezza. Se voi fate di persuadere al vostro allievo che il lavoro nobilita, fortifica, rende più alacri e sani; che l'operaio delle miniere è un coraggioso più nobile e bello nel suo vestito affumicato d'ogni profumato vagheggino, più volentieri lavorerà egli stesso, e il lavoro non sarà più abbassato a significare castigo. Se noi possiamo ottenere che in tutti gli atti del nostro allievo siano in continuo giuoco questi due sentimenti di pietà per altrui, di rispetto per sè, diventa inutile ingombro tutto quell'apparato di premi e di castighi artificiali, che abbiamo ereditato da metodi grossolani non più in accordo colla nostra gentilezza. Questo è l'ideale a cui dobbiamo arrivare. So bene che il far delle teoriche è sempre più facile che il sapersi distrigare nella pratica; ma è guardando in alto che si contempla il cielo. L'occhio benigno o conturbato, la voce amorosa o triste, ma non mai stridente e noiosa, e sempre in voi una specie di grande, di paziente aspettazione, di vera gioia o di vero dolore - ecco in che cosa deve consistere il nostro sistema; finchè arriveremo, speriamo, o noi o i nostri figliuoli, al giorno, in cui sarà tremendo castigo per il fanciullo una nube che passa sul volto della mamma, e un premio senza pari il sentirsi dire dal babbo: - Qua la mano, mio galantuomo". II. IL DIAVOLO DEI NOSTRI FIGLIUOLI Si è nominato una volta il diavolo che salta in corpo ai nostri figliuoli e si è cercato di dimostrare che in fondo, a saperlo pigliare per i corni, può servire anche lui a qualche cosa, se non ad altro, a portar un poco il peso della nostra responsabilità. Ma è bene tener gli occhi aperti, perchè fin dai tempi d'Eva il diavolo amò trasfigurarsi e prendere le figure più strane, più seducenti, più irriconoscibili. Il diavolo, per uscir dalla vecchia metafora, son le passioni che a un certo periodo dello sviluppo saltan su come un vulcano e talvolta sconquassano tutto l'edificio pazientemente costrutto in molti anni di solida educazione; figuriamoci poi se questo edificio è tutto di stecchi e di fuscellini! Occhio dunque al nemico! aspettiamolo armati di vigilanza, di pazienza, di indulgenza, di compatimento, di carità, ma non cediamogli il passo. Attenti all'insidia del sordido rettile, che striscia voluttuosamente nel giardino dei nostri figliuoli e colla sordida bava avvelena il soavissimo fiore della innocenza! La mala bestia penetra di soppiatto, assalta il vostro ragazzo mentre dorme, lo incanta tra il sonno e la veglia, e il poveretto che nell'ingenuità sua non sa di carezzare un serpente, ne resta morsicato e avvelenato per sempre. Se non capite di che cosa parla la Strenna, chiedete al medico una spiegazione, ma non vi scusi il dire: io non sapevo. I genitori devono saper tutto, specialmente quel che fa male. Moto, ginnastica, stanchezza, sonno di piombo, aria fresca del mattino, e di tanto in tanto una occhiata medica sono i rimedi che suggerisce l'igiene fisica. L'igiene morale, consiglia una grande varietà di occupazioni, una passione viva e interessante per qualche cosa di nobile, per lo studio, per un'arte, per un esercizio, compagnie oneste e allegre, passatempi sani e un buon sentimento religioso. Certe confidenze esagerate tra padre, madre e figliuoli portano a discorsi che non giovano; peggio fanno certe letture malsane. Non abbiate paura di parer troppo rigorosi su questo argomento. Se non si può sempre riparare a tutte le passioni, che sono alle volte più forti della vita e della scienza, si faccia almeno di tutto per addomesticarle, le bestie feroci. Non stiamo ad aspettare che divorino i nostri figli. Non si creda che basti mormorare come fanno le beghine col rosario in mano: Vade retro, Satana... Ci vuol altro! il diavolo non ha mai avuto paura dei rosari, anzi qualche volta si serve del rosario per incatenare meglio una beghina peccatrice. Il diavolo astuto e svelto ha a sua disposizione, oltre al fuoco interno, i teatri, i libri divertenti, le belle pitture, la musica, il giuoco, il corpo di ballo, e le altre bellezze che all'ingenuo giovinetto fa passare per angeli, il birbone! Ci vuol altro, come vedete, che un vade retro! C'è da perder la testa e la confidenza nelle proprie forze in questo giuoco noioso, pericoloso, difficile, qualche volta grottesco, di metterci tra il diavolo e la nostra creatura, di disfare tutte le trappole coperte che egli va seminando lungo il fiorito sentiero della giovinezza, di dimostrare tutto il contrario delle dimostrazioni ch'egli dà vale a dire che il bello è brutto, che gli angeli son streghe, che lo zucchero è tossico, che il padre Segneri è più divertente del Boccaccio, che una partita a domino o all'oca in famiglia vale tutte le operette francesi e tutte le partite di bigliardo al club o al caffè. È un giuoco, anzi una fatica così immane e pesante, che molti padri, sentendosi incapaci di lottare coll'invisibile, non vi credono o vi rinunciano e dicono, parlando del loro scapestratene: - Oh, provi anche lui! la vita bisogna la conosca da sè; quando avrà fatte le sue, come noi abbiamo fatte le nostre, metterà giudizio, prenderà moglie e pace. Meglio presto che troppo tardi, perchè un vecchio che perde il giudizio nessuno lo compatisce. Chi mi sa dire quante volte su cento questo sistema del lasciar fare è riuscito bene? A noi pedagoghi mancano ancora le statistiche morali e siamo perciò obbligati ad argomentare in aria; ma per conto mio non vorrei che un mio ragazzo provasse e pagasse a sue spese l'esperienza. Anche quando il troppo non stroppia, esaurisce prima del tempo le sensazioni che madre natura ama distribuire con parsimonia lungo la strada della vita. Il soldato che mangia tutta la razione al mattino, che gli resta al mezzodì? E poi c'è dell'altro. Il gusto dolciastro del piacere, non accompagnato dal pane casalingo, disgusta dalla semplicità dei cibi alla buona. Chi succia di continuo la bottiglia del rhum dice che la virtù ha l'insipidezza dell'acqua, che è buona tutt'al più per lavarsi le mani; ed è proprio e solamente per questa benedetta virtù che noi dobbiamo educare. Il piacere si raccomanda da sè. Certo è un mestiere faticoso che rasenta talvolta il ridicolo; e son pochi i genitori che amano, uscir fuori colla gran cuffia della virtù in testa. Son così cari e simpatici questi nostri scapestrati! ma, in nome di Dio, se non lo facciamo noi di casa questo servizio di frenamento, dobbiamo forse aspettarci che lo facciano gli altri - o gli angeli, di cui sopra? * * * Ma come si fa? - Ecco la domanda che si rimandano l'un l'altro i padri di famiglia, grattandosi in capo. Anche loro son passati di là bene o male e sanno che le belle massime non hanno mai spento il fuoco, ma fu sempre il fuoco che abbruciò il libro delle belle massime. Dobbiamo incatenarli questi nostri ragazzi? I barattoli delle spezierie come le belle prediche morali non hanno mai impedita una febbre. È vero, e non c'è nulla di più assurdo e di più inutile come il pretendere che ci sia un rimedio per tutti i mali. Morire si morirà sempre in tutte le età e in tutti i paesi anche coi progressi dell'igiene e colle disinfezioni a domicilio; ciò che si cerca di guarire, predicando, è la pigrizia dei genitori, i quali se non possono salvare i figliuoli dai mali inevitabili, possono, devono salvarli da tutti gli altri. Ora è quasi dimostrato che le passioni, come le idee fisse, si guariscono colla distrazione. Aumentate, centuplicate le sensazioni oneste e il vostro figliuolo non sentirà il bisogno delle altre. Il miglior modo per non commettere peccati è di non aver tempo di farli. La varietà delle sensazioni si ottiene con una grande varietà d'occupazioni, alternate in modo, che una serva di riposo all'altra e tutte insieme concorrano a rinforzare l'energia morale e a procacciare il senso delle cose nobili ed elevate. Se un vecchio ideale ha potuto più d'una volta salvare uno scapestrato dall'estrema gozzoviglia, come non sperare che un ideale giovine e gentile non abbia a salvare il nostro figliuolo dal poco pulito? Il bene è in gran parte una questione di estetica e di galateo. Perciò ogni casa dovrebbe avere un altarino per il culto della santa bellezza e delle purissime feste della vita. Date, secondate, eccitate qualche nobile passione per lo studio, per i libri, per le raccolte, per un'arte dilettevole che venga a colmare tutti i minuti dell'ozio; nell'esercizio è la salute. La musica, il disegno, la recitazione, i giuochi, la ginnastica, lo sport, la danza, la conversazione piacevole coi compagni e anche colle saggie compagne della sua età offrono al giovinetto quante occasioni si vogliono perchè egli non abbia a desiderare passatempi estranei, insindacabili, di cui non si può parlare senza arrossire. La socievolezza colle persone di casa, specialmente colle persone attempate e colle signore, rende i nostri figliuoli più educati, più aristocratici e si sa che l'airone delicato non ama pascersi delle lumache della terra. Quel muraglione che la pedagogia barbogia suole innalzare tra i due sessi è, a parer mio, un rimedio che, esagerando il pericolo, lo rende più pericoloso. Perchè far delle nostre care figliuole lo spauracchio dei nostri figliuoli? Ognuno di noi si ricorda quante volte le nostre graziose sorelline ci hanno impedito d'essere sguaiati e vigliacchi. È trattando le cose fragili che s'impara ad essere pazienti, delicati, non inconsulti nei nostri movimenti: la morale che s'impara sulle anime vive è cento volte più sicura di quella che si studia sui libri morti. Fate che all'immaginazione del fanciullo la virtù si presenti sotto l'aspetto d'una dea bella e sorridente ed egli se ne innamorerà tanto più volentieri. III. LA RELIGIOSITÀ DEL FANCIULLO L'argomento esce soltanto col suo titolo dai limiti di una Strenna alla buona, che più che dimostrare delle verità, si propone di agitarle; ma il lettore sente l'importanza della questione, anzi credo che nessuno sia mai stato meglio disposto a sentirla quanto un lettore moderno, che vive in mezzo ai grandi contrasti morali della vita moderna. La Strenna non fa che mettervi il dito sopra. Parlar di religione oggi è un tema pericoloso, tanto per chi ci crede quanto per chi non ci crede, tanto per gl'intransigenti come per i tolleranti. Agli uni sembra che non si dica mai abbastanza, agli altri par troppo ogni minimo poco: i più prudenti consigliano di scivolar sopra e di lasciare che le cose si aggiustino da sè. Ma la religiosità non è la religione; l'una so che può essere tutta nell'altra; è vero, ma spesso l'una va senza dell'altra molto volentieri, e in molti casi vedo che si contrastano e si escludono a meraviglia. Per discorrere di una religione positiva bisogna essere almeno confermato in una teologia, scienza troppo ampia e difficile, perchè un profano non iniziato possa leggermente avventurarvisi. La religiosità all'incontro è un sentimento umano, che può essere alla portata di tutti, degli umili e dei potenti, dei dotti e degli ignoranti, abita in noi, non nei libri sacri, non ha dogmi astrusi, non vien dal cielo alla terra, ma va dalla terra al cielo, dal noto all'ignoto, dal piccolo al grande, all'immenso, all'infinito, dal cuore di ciascuno al cuore di tutti, dall'egoismo alla pietà: e una volta sceverata da quel poco di discutibile, che vi può aver portato il tempo o la debolezza umana, rimane un sentimento positivo, reale, sociale ed umano come ogni altro, di cui si ha l'obbligo di parlare quando si trattano argomenti educativi. Lasciar l'educazione di questo pio sentimento soltanto ai preti o ai rabbini, è rinunciare per parte nostra a ciò che vi può essere di più sacro nell'animo dei nostri figliuoli. Il non parlarne sarebbe come un negare che questo sentimento esista, sistema pericoloso che può piacere ai moderati sapienti, ma che non spegne un fuoco latente nell'intime viscere della natura. La religiosità nel cuore dell'uomo nasce dalla medesima radice donde nascono gli altri meravigliosi sensi della vita. Basta un'occhiata a un bel cielo stellato in una notte serena per farla nascere e anche per farla ritornare, se l'abbiamo o crediamo d'averla cacciata via. Nessuno può essere certo fin che vive di averlo ben spento questo fuoco, anche se si sforza tutta la vita di versarvi cenere sopra; e si è visto qualcuno frugare un bel giorno nella cenere per cercarvene ansiosamente l'ultima scintilla. Gli scettici, che non osano tacciarla di superstizione, si limitano a chiamarla poesia; ma il nome che importa? che Dio sia nel cuore dei poeti l'ha detto già la sapienza degli antichi. Ciò che importa è che questo istinto o bisogno dell'alto sia riconosciuto: e una volta riconosciuto, sia rispettato come una forza benefica. Quando poi si tratta di figliuoli nostri, ciò che importa è che che ognuno si metta una mano sul cuore e pesi bene la responsabilità che gli tocca. Non c'è via di mezzo; o voi dovete spegnere questo fuoco naturale, o voi dovete alimentarlo. Lasciar che affumichi la coscienza senza che mandi nè luce nè calore, è la peggiore delle risoluzioni. Il fanciullo, che è tutto calore e scintille, è naturalmente impregnato di religiosità. Per poco che voi suggerite, egli vi farà idoli il sole, il fiore, l'immagine e l'ombra di sè stesso. L'immaginazione cerca alla credenza il suo ubi consistam, come la rondinella attraverso gli spazi immensi del mare cerca uno scoglio in cui scendere a riposare. Il bambino ha assolutamente bisogno di trovare una causa a tutte le cose. Di questa causa o ragion sufficiente può far senza il filosofo con una malinconica e sforzata rinuncia, quando dichiarando di attenersi al fenomeno, al solo fenomeno, pone un limite alla sua curiosità: il fanciullo no, non può rassegnarsi a non sapere. Il filosofo, dopo sforzi faticosi, può, come la volpe della favola, rinunciare all'uva collocata troppo in alto, chiamar sè stesso positivista e l'uva inconoscibile e illudersi ancora di essere un sapiente: il fanciullo, soggetto tutto spontaneo e naturale, non crede di sapere se non quando sa, quando cioè noi rispondiamo con una ragione sufficiente ai suoi perchè, fin dove arriva la curiosità sua e la nostra buona volontà. Il suo spirito mobile, continuamente fuori d'equilibrio, ha continuamente bisogno d'appoggiarsi a qualche cosa di solido e di fisso. La grandiosità stessa della natura che lo circonda lo spaventerebbe co' suoi profondi misteri come un caos tenebroso, s'egli non potesse vedere almeno una striscia luminosa che va dalla terra al cielo. Quanti sono i filosofi che si compiacciono a contemplare la grande solitudine metafisica della natura morta? e può contentarsene un poeta? Togliere al fanciullo l'incanto d'una fede, sterilizzarne la mente col dubbio e colla negazione, oltre che non è scientificamente onesto, è pedagogicamente un oltraggio alla natura. La religiosità è l'ala dell'anima. L'anima che non vola, striscia. Il fanciullo che non sogna le stelle, ha i sonni oscuri e le notti spaventose. Pretendere ch'egli sogni delle formole aritmetiche e canti i nostri aforismi meccanici, è come un volere che un uccellino dimostri il teorema di Pitagora. La fanciullezza senza innocenza e senza illusioni non può essere che il programma d'una pedagogia di sterili. Noi siamo più rispettosi di quel che la natura ci dà: e come ci guardiamo bene dal togliere una foglia ad una rosa per aggiustarla secondo un nostro ideale geometrico, così ci guardiamo dal togliere un affetto al cuore umano per ridurre il cuore a una figura più razionale. Perchè leveremo dall'animo del nostro figliuolo la grazia innata, la bontà istintiva, l'amore per le cose belle? e se vi lasciamo queste perle, perchè vorremo levare il sentimento generale che tutte le racchiude e le raccoglie tutte. Faremo anzi ogni sforzo per educarlo, per purificarlo dalle scorie, per elevarlo fin dove può salire, certi che da un affetto puro e disinteressato non può derivare che una serie di azioni pure e disinteressate. Il cuore del bambino che si scalda nella religiosità della sua mamma sarà sempre, per noi platonici, uno dei più cari idillî della vita. Togliere la poesia alla giovinezza è un voler anticipare inutilmente e per forza d'artificî la vecchiezza: é un ingegnarsi a fabbricar delle rovine. La pedagogia degli sterili non ammette l'illusione, ma vuole che il fanciullo conosca sempre il vero, soltanto il vero, tutto il vero anche se turpe e spiacevole. La vita non deve aver veli e fiori nemmeno sulle sue piaghe: le passioni non devono arrivare sconosciute, ma previste, predette e, se è possibile, preparate e ammanite da un buon trattato di fisiologia. A sentir certi rivenditori di dottrine scientifiche, il fanciullo deve sapere non solo come si nasce, come si muore, ma anche quel che giace di più nascosto in fondo ai dolci misteri dell'amore. Così, pare agli sterili, il giovine cresce agguerrito dell'esperienza di suo padre contro le brutte sorprese, possiede il catalogo esatto de' suoi bisogni e de' suoi istinti ed è sicuro di non perdersi nel labirinto della vita. È la stessa pedagogia che toglie di mano ai bimbi e alle bimbe i libri delle fate e dei viaggi meravigliosi, che trova immorali le favole del La Fontaine, del Perault, i romanzi del Verne, tutto ciò, in una parola, che ai bimbi piace di più, per sostituirvi i libri di storia patria, i disegni di storia naturale, che certamente piacciono meno, che non parlano all'immaginazione, che non trasportano, non commuovono, non divertono, ma, badate, istruiscono nella verità. Questa sacra verità (che la scienza muta ogni secolo) deve tener il posto d'ogni cosa, del piacere, del sorriso, del sogno, della lagrima che la fanciullezza offre tanto volentieri alla povera Cenerentola. Zitto là! Cenerentola non è mai esistita. Un giorno, figliuoli, vi dimostreremo che nemmeno i sette re di Roma son esistiti, che fantasie poetiche sono i racconti della storia sacra, che Guglielmo Teli, il pomo, il fanciullo e la freccia, è tutta una fantasia: che Legnano, il giuramento di Pontida, Robinson Crosuè, Gulliver e i suoi Lilliput, la Bella addormentata nel bosco, il Gatto stivalato sono tutte fiabe dello stesso valore, indegne d'un uomo ragionevole, fiabe immorali perchè false, il vero solo avendo diritto di essere conosciuto ed amato. E quel giorno, cari figliuoli, se crederete a noi sapienti, che del vero abbiamo i documenti positivi, lascerete le fiabe e le bambole e vi divertirete moralmente, cioè scientificamente, come ci divertiamo noi, colle raccolte di mineralogia e colle classificazioni del Linneo. Noi eleveremo il giucco a dignità pedagogica: già stiamo preparando dei piccoli scheletri umani snodati, dotti come un libro, che metteremo al posto dei vecchi arlecchini e delle vecchie bambole. Giuocando, il fanciullo vedrà come è fatto l'uomo di dentro e di fuori, imparerà a conoscere sè stesso, si abituerà all'idea della morte. Altro che Robinson e il suo Venerdì! altro che le avventure del barone di Monkhausen Questa è la vita vera, spolpata da ogni fantasticheria. Poi, cari figliuoli, se sarete verosimili, vi dimostreremo in qual modo la mamma vi ha messo al mondo, cominciando dalle sofferenze dei primi mesi fino all'estremo travaglio; perchè è stato scientificamente dimostrato che un bimbo vuol più bene alla sua mammina, quando sa quel che la mammina ha patito nel darlo alla luce. Sicuro voi non ne volete abbastanza di bene alle vostre mamme, poveri bimbi, poichè credete ancora che un angelo o una vecchia comare vi abbia portato una notte sul suo letto. Quando invece avrete un'idea di quel che può essere un parto laborioso con intervento di ferri, il vostro amore diventerà un incendio, sarete più buoni, più obbedienti, più riconoscenti, più cauti nelle vostre passioni. Non crederete più, come abbiamo creduto noi romantici, ai lusinghieri incanti dell'amore. Tra voi e le vostre care cuginette scenderà sempre il pensiero delle possibili conseguenze fisiologiche. I vostri baci saranno meno vuoti di senso, e se farete dei versi d'amore, per un bisogno atavistico della psiche non ancora rigenerata nell'acqua distillata, sarà una poetica descrittiva del fenomeno erotico, come già si è cominciato a fare a dolce istruzione delle nostre ingenue fanciulle. Così, cari figliuoli, la vostra vita, a furia d'esser vera, finirà col diventare una cosa assurda e anche un po' stupida. IV. L'AVVENIRE DEI NOSTRI FIGLIUOLI Bisogna che ognuno si faccia il suo posto nel mondo e lo starvi bene, con decoro, con soddisfazione non è più un'arte facile, nemmeno per coloro che hanno la fortuna di nascere, come si dice, nella bambagia. Tocca ai genitori e a tutti quelli che hanno in consegna le giovani speranze aver l'occhio avanti, e preparare gli animi dei giovani in modo, che ognuno possa poi, secondo le attitudini sue, trovare la sua nicchia, o discernere con giudizio la strada buona e la più breve, se è possibile, della propria carriera. Questo benedetto argomento delle carriere è un problema, che punge come una corona di spine la testa dei poveri babbi e delle povere mamme. Non si guardano a sacrifici, pur di dare ai nostri figliuoli una soda educazione. V'è chi si leva il boccon di bocca per mantenere agli studi, al liceo, all'università il genio di casa; ma il mondo è fitto, la concorrenza è spieiata. La disoccupazione è un male che travaglia non la sola classe operaia, come si pensa, ma si dilata ormai a tutte le classi, che hanno bisogno di lavorare per vivere, agli impiegati che ingombrano tutti i solai della burocrazia, agli ingegneri che son più della terra, agli avvocati costretti a litigare fra loro, ai pittori che non sanno più che cosa dipingere per spacciare la mercanzia, ai maestri di musica, che Dio li benedica! ai copisti, ai letterati, che non hanno mai fatto buoni affari nel mondo nemmeno in tempi migliori, ai giornalisti, obbligati a vendersi un paio di volte all'anno, ai professori e alle maestre più numerose delle stelle del cielo, quantunque non meno lucenti. Anzi se si voglion dire le cose come stanno, le classi meno disagiate, vale a dire quelle che fanno una carriera di studio, così detta professionale o liberale, soffrono oggi di questa miseria di lavoro e di collocamento non meno o forse di più delle classi operaie, le quali nella perfezionata loro organizzazione hanno provveduto o stanno per provvedere sempre più agli alti e bassi della richiesta e agli improvvisi spostamenti del lavoro. Il professionista non può sempre adattarsi, come si adatta l'operaio, ai mutamenti. Il modesto manovale che disceso da val Vigezzo o da val Brembana tenta tutte le professioni, porta la secchia della calce, stacca i cavalli dalle carrozze, grida i giornali per le vie, si alloga in un magazzino, diventa capo fabbrica, direttore d'un opificio e col tempo banchiere o forse deputato, è un uomo, direbbe Emerson, che cammina di fronte a' suoi giorni, non si vergogna di perfezionarsi in ogni posizione, non ripone il viver suo nell'avvenire, ma vive di già; non gode i favori di una sorte, ma di cento. Se cade fa presto a risorgere, non sta ad aspettare che la fortuna passi sulla sua strada, ma va a cercarla, a scovarla dove c'è. Tutte le strade per il lavoratore libero menano a Roma. Il professionista è invece legato alla sua professione. Per venti o trent'anni egli si obbliga a un lavoro di preparazione tutto passivo, a una forte anticipazione di tempo e di denaro, a una lunga anticamera davanti all'uscio d'un impiego o a quello ancor più chiuso dei clienti: e ogni anno che passa l'uomo si sprofonda sempre più nella sua professione come in una fossa, dalla quale non solo non può più uscire, ma che gli nasconde la vista di tutto ciò che si agita di fuori. E poi non si vuol fare un passo indietro, si sa: la dignità è la toga delle professioni! e poi non si saprebbe resistere a certi mutamenti, perchè non si fa volontieri se non ciò che si sa fare. Pretendere che un bravo sonatore di violino segga a sonare il trombone, se non lo sa sonare, è un chieder l'impossibile. Ma i violini son troppi in orchestra. Ecco la disoccupazione. Molti si rassegnano a cantare nei cori. Giovani e abilissimi ingegneri usciti tra i primi dei politecnici, dove si studia sul serio, devono chiamarsi arcifortunati, se dopo tre quattro cinque anni di sospiri, trovano una logora sedia in qualche ufficio amministrativo a centocinquanta lirette al mese. E una volta seduti, non fiatan più per paura di farsi sentire da un altro più bravo, e si rassegnano a risalire tranquillamente il mare della vita sospinti da quella forza che in gergo d'ufficio è detta anzianità, E non è rado veder dei giovani scienziati già ben avviati a studi di microscopia rassegnarsi a piccoli posti di medici comunali coll'incarico della constatazione giornaliera dei cadaveri a domicilio. Di avvocati senza clienti è piena la Guida. Coloro che non si rassegnano alla grandissima carriera giudiziaria o che non riescono a fossilizzarsi in una banca o in una divisione di ministero, possono accendere la pippa delle loro notti di studente coi capitoli delle Pandette e cogli articoli del Codice. Il bisogno, sempre cattivo consigliere, trasforma i più deboli di questi avvocati o in politicanti di professione, o in azzeccagarbugli, sostegno al birbone, spavento agli innocenti. Per la carriera militare, oltre alla vocazione, ci vuole una rassegnazione speciale, che aiuti a obbedire sempre e a non ragionar mai, a digerire i lunghi ozi delle guarnigioni, a difendersi dai vizi figliuoli dell'ozio. In tempi fortunosi può essere una carriera affascinante per un giovine che non abbia pel capo fisime umanitarie e filosofiche; ma in tempi di pace squallida e lunga non c'è nulla che più secchi a un giovine vivo come l'andare attorno impettito, coi bottoni lucidi, armato d'uno spadone incruento, alla conquista delle belle ragazze che è proibito sposare. Anche con tutta questa rassegnazione i posti sono scarsi, le promozioni lente come la morte, quantunque ogni anno si mandino a riposo forzato i più anziani per far il posto ai nuovi, creando una disoccupazione pagata per rimediare all'altra. C'è la carriera dell'insegnamento. Ma non sentite che continuo piagnucolamento d'insegnanti sopra la meschinità d'una carriera, che oltre al mettere l'uomo legato mani e piedi all'obbedienza dei pochi che comandano, lo tien magro e leggiero per quarant'anni di sacrifici e di logoramento? Il professore dello Stato deve aver sempre la casa sulle spalle, pronto a partire lui la moglie e i cinque pargoletti al primo telegramma di S. E. Il maestro è alla discrezione del comune che lo paga, cioè tranne le solite e ben conosciute eccezioni, in balia del sindaco babbeo, del curato intransigente, o della sua serva pettegola. Le maestrine hanno già commosse le viscere della stampa, come sapete, colla storia dei loro dolori e continuano a ispirare poeti e drammaturghi come le figliuole di Niobe. E con tutto ciò, se c'è un posto largo il fondo d'un pane, son cento, son mille le concorrenti; dalle quali restano fuori ancora le istitutrici che non hanno diploma, le professoresse che ne hanno due o tre, le maestre di pianoforte e quelle incalcolabili di lingua francese! Dei medici condotti ha già cantata la storia quarant'anni fa il Fusinato; e la sorte non è migliorata coi tempi nuovi, tutt'altro. Non si muore abbastanza per tutti. Toccò a un autore di Strenne di mia conoscenza di dover raccomandare nello spazio di una settimana un medico per una condotta suburbana, un mezzo erudito per una biblioteca e un giovine specialista per il pubblico macello. Nessuno dei tre riuscì, segno che un altro sollecitatore più abile aveva fatto riuscire i suoi. Se interrogate, non un autore di Strenne, ma un uomo di qualche importanza, come può essere, per esempio, un deputato, un assessore comunale, un capo divisione, un commendatore non troppo avariato, uno di quei personaggi insomma che fanno correre i portieri e sfondano tutte le porte delle grosse amministrazioni, ne sentireste di curiose sulle persecuzioni a cui è esposto un uomo d'importanza da parte dei sollecitatori d'impiego. C'è della gente che si lascierebbe cuocere in una frittata pur d'arrivare sul piatto d'una persona influente. Il bisogno è ingegnoso, paziente, ostinato e non guarda se la povera dignità umana, costretta a trascinarsi per ore ed ore su per le scale degli uffici e dei dicasteri, non torna sempre a casa colla gonnella pulita. Una volta c'eran le buone carriere ecclesiastiche, veri scaricatori delle famiglie, e gli sfoghi dei conventi; ma oggi, per tutte le ragioni che si sanno, pochissime son le famiglie che fanno dei conti sul futuro zio prete. Mancano i benefici, mancano le vocazioni, manca il credito. In quanto ai conventi, quei pochi che restano a dispetto dei santi sono più una mesta rinuncia, che non una carriera d'esercizio sociale. In questo stato di cose che va diventando sempre più grave per il continuo frazionamento delle famiglie e dei patrimoni, il pensiero della carriera dei figliuoli è uno dei più tormentosi per un povero padre di famiglia, che non ha da lasciar loro che un nome onorato e l'esempio d'una vita intemerata e sobria. Se son figliuole, è ancor peggio, perchè la disoccupazione maschile ha per grande contraccolpo quella grande disoccupazione femminile, che le ragazze esprimono colla cantilena: - aspettare e non venire... I pochi e magri impieghi conducono un uomo sano e simpatico sulla soglia dei quarant'anni prima ch'egli si risolva a prendere moglie; e quando ottenuta la promozione o la stabilità sospirata, pensa a pigliarla, gli viene un'altra terribile paura: che sia troppo tardi e pericoloso. E intanto all'anima gemella non resta che mettere sul telaio un altro paio di pantofole. * * * Son cose che si dicono ridendo, tanto per non guastare la Strenna: ma non per nulla i padri di famiglia invecchiano presto. Da un pezzo si va predicando sui giornali e sui libri educativi che la donna è fatta per i dolci affetti di famiglia, non per le sterili nenie del chiostro. Andiamo ripetendo che l'ufficio della donna è la maternità, che la sua santa missione è di dare alla patria figliuoli robusti e valorosi cittadini... Ma con che cosa si fanno questi cittadini? che significano tutte queste belle parole, se non ci sono i mariti che le sposano? e come può un ragazzo di giudizio imbarcarsi nel matrimonio senza una buona posizione sociale? Da cosa nasce cosa, dice il proverbio: ma si può anche dire che una cosa impedisce l'altra. Intanto per togliere queste nostre povere e belle figliuole al pericolo del morir di fame, quando noi non ci saremo più, le sciupiamo fin d'ora negli studi magistrali, nella contabilità, nella musica, nella così detta arte scenica, nei magazzini di mode, fin nelle stamperie e nelle raffinerie, ne facciamo delle farmaciste, delle contabili, delle dottoresse, delle professoresse, che muovono quasi per dispetto una spietata concorrenza ai galantuomini farmacisti, dottori, contabili e professori che dovrebbero sposarle. Così una disoccupazione ne produce un'altra e il disagio generale si dilata, come se il mondo fosse retto da un ministero italiano. Una Strenna non può naturalmente risolvere un problema che si attacca a troppi inviluppi economici, politici, filosofici e che soltanto il tempo e la pazienza degli uomini potranno dipannare, se prima non mancherà il tempo e la pazienza. Ma è già qualche cosa aver in mente che le belle carriere facili non ci sono più: che per gli onesti l'andare avanti diventa sempre più arduo: che pei timidi e i poltroni non c'è posto nel mondo: che il perder tempo fin dai primi passi significa restare sempre indietro: che le pompose ambizioni dei titoli, dei gradi, degli alti impieghi, dei lauti stipendi, delle sinecure e dei canonicati è tutta mitologia d'altri tempi: che non basta nemmeno l'esser ricco e il possedere case e terre, se non si sa amministrare la propria roba o almeno difenderla dai ladri. Sicuro che una Strenna non può dare un consiglio buono per tutti i casi; ma un consiglio non inutile per tutti è di ripetere ai nostri figliuoli: - Per carità non perdete tempo. Tenete da conto tutte le forze di cui natura vi ha provveduto e impiegatele tutte alla conquista del pane. L'avvenire non sconta più le cambiali dell'ozio e della dissipazione e chi spreca da giovane dovrà lavorare da vecchio. Questi potranno sembrare consigli di vecchia morale tradizionale; e infatti non c'è nulla in essi che non sia già stato detto le mille volte. Ma il mondo dimentica facilmente e i nostri figliuoli sono nel caso di sentirle per la prima volta certe verità. Mentre da una parte ecciteremo al fare, dall'altra aggiungeremo qualche altro consiglio più fresco, che persuada piuttosto il non far troppo, il non desiderare di soverchio, il contentarsi di quello che si ha, il non cercare il fumo ma la sostanza delle cose, il mettere il decoro più dentro che fuori di sè. Diremo, per esempio, ai figli nostri: - "Non siate troppo ambiziosi: contentatevi anche di più modeste carriere; tutte le professioni sono nobili e pulite allo stesso modo, quando non sporcano la coscienza: toglietevi dal capo il pregiudizio che un uomo diventi rispettabile soltanto quando si chiama dottore, professore, cavaliere, e che non si possa vivere decentemente se non si spendono dieci mila lire l'anno. Chi non può essere avvocato procuri d'essere fotografo, o metta bottega di libri, o apra un magazzino di stoffe, o cerchi una rappresentanza, o dipinga delle insegne, o rompa la sua attività in tre o quattro mestieri, nobiliti egli il lavoro che fa, senza aspettare la nobiltà dai diplomi e dalle patenti di carta, che non salvano un mal capitato dal morire di fame. Abbassate, limitate i vostri bisogni alla misura dei vostri mezzi. Non è vero che senza un bicchiere di vermouth o di vin bianco secco un buon cittadino non possa acquistare appetito prima di pranzo, come non è vero che senza un bel paio di guanti lucidi e una stupenda cravatta di raso un negoziante ci rimetta un poco del suo credito presso i clienti: le abitudini costose e la vanità sono i grandi ostacoli al viver bene. Ciò che non può più dare il fasto e la pompa decorativa della carriera, lo può sempre dare la nobile e superba aristocrazia del carattere, senza della quale qualunque più fortunato e grosso affarista resta sempre un essere di razza inferiore. * * * Compensi elevatissimi offrono in ogni modesta condizione il saper gustare le cose belle e spirituali della vita, la coltura intellettuale, il gusto dei piaceri semplici ed economici dell'arte, i sentimenti di carità e di umanità verso gli altri, la coscienza interiore, per cui la vita del povero può essere illuminata di dentro più splendidamente dei palazzi dei re. E questi compensi ognuno se li può educare e crescere in casa, come si tengono i vasi dei fiori sul davanzale della finestra. Cercate la ragione sufficiente dell'esistenza nella sincerità degli affetti che vi legheranno un giorno a una donnina brava e modesta come voi, e a due, a tre, a quattro figliuoli buoni e giudiziosi come il babbo e come la mamma. Questa felicità, non di princisbecco, ma di oro fino la si può acquistare con modesti stipendi, con rendite più che modeste, se non mancano l'abitudine del lavoro e la sobrietà della vita. Non la si trova con cinquantamila lire di rendita, se non si sa scavare nel filone naturale. Queste cose i padri dovrebbero prima recitare a sè stessi per esserne prima persuasi loro e poi ripetere, ricantare, trasfondere nella coscienza dei loro figliuoli al posto delle sterili ambizioni così dette di società, le quali si riducono quasi sempre a polvere negli occhi dei gonzi. La miglior maniera per far bella figura nel mondo è di saper farne senza: o in altre parole uno tanto vale presso i suoi simili quanto dimostra loro che non ne ha bisogno. Quest'orgoglio messo al posto delle vanità esteriori ci salverà dalla peggiore delle schiavitù, quella che obbedisce all'opinione degli sciocchi disoccupati. LE NOSTRE FIGLIUOLE La miseria delle carriere che da noi in Italia si avverte da poco tempo, era già stata notata trent'anni fa da Alfonso Karr in Francia, dove i fenomeni sociali ci precedono d'una generazione. A proposito delle nostre povere figliuole, che non trovano marito, l'arguto scrittore osservava: - "È una faccenda seria, l'uso del matrimonio tende a scomparire dai nostri costumi. il numero delle zitellone cresce ogni dì, specie nella classe mediana della società. Non è inutile indagarne i motivi. Poche sono le operaie, che non trovino un operaio che le sposi, perchè per l'operaio la donna è una compagna che prende la parte sua nei pensieri e nelle fatiche della vita comune. Mentre l'uomo lavora fuor di casa per la sua donna come falegname o fabbro ferraio, essa lavora in casa per suo marito come cuciniera, come lavandaia; e se il bisogno dimanda, non ha ripugnanza a cercare anch'essa lavoro fuori di casa. Qui il matrimonio è una società nella quale ciascuno lavora nella proporzione delle sue forze. Nella classe in cui si nasce agiati, e in quella in cui la donna porta una dote illustre, il matrimonio è ancora possibile. Se la donna sa discretamente sorvegliare l'andamento della sua casa, compensa quella non troppo grave fatica che costa al marito l'amministrazione della comune fortuna. Ma nella classe media, come volete che le ragazze possano maritarsi? Tutte sono educate alla stessa maniera, cioè in vista d'uno splendido matrimonio. Tutte son così atte e preparate al gran colpo di fortuna, che poche sanno rassegnarsi a fare un passo indietro. Quel che oggi si dice il puro necessario è molto al disopra del lusso d'altri tempi; talchè si può dire che in questi tempi d'eguaglianza si vuol essere tutti eguali anche nello spendere - un'eguaglianza, ahimè, di miserie, di corrucci, d'avidità e di rapina. Ogni ragazza è cresciuta nella previsione che ella potrà guadagnare alla lotteria del matrimonio una sorte preziosa, e si immagina che potrà compensare la fortuna e la dote che non c'è con una educazione squisita, con disposizioni svariate d'ingegno e di coltura. È un inganno. Queste grandi disposizioni, queste famose abilità rendono la dote cento volte più necessaria, sto per dire, indispensabile. Per i poveri mariti di questa classe la donna non è una compagna che sia pronta a dividere e ad assumere una parte di cura e di lavoro nella misura delle sue forze; è un idolo che passa il suo tempo a ornarsi e a farsi adorare. L'uomo della modesta borghesia che si marita oggidì con una ragazza senza dote è come se comprasse un cavallo che in luogo di biada mangia perle e smeraldi. Ecco perchè son pochi i mariti: e non andrà molto che non ce ne saranno più. Si è gridato tanto e con ragione contro il celibato, al quale si condannavano le ragazze nei tempi andati nei conventi. Eppure là dentro almeno tutto le preservava dai pericoli e dalle tentazioni. Non si univano là dentro agli istinti del sentimento le seduzioni del lusso e della cortigianeria. Triste è bene questo celibato in mezzo al mondo, al quale condanniamo le nostre figliuole(7)". * * * Con più modestia nell'educazione e nelle pretese, e meglio ancora con un ideale più sano e più equilibrato della vita, molti di questi guai della disoccupazione femminile si potrebbero evitare. Dico molti, non tutti, perchè i problemi sociali più che semplificarsi stanno per complicarsi sempre più e nel cozzo dei tempi e delle cose il progresso umano come l'orco dell'antica favola si nutre di carne viva e a preferenza di quella delle povere ragazze. In questo stato di cose ci sia permesso di domandarci: le scuole pubbliche e private, che insieme alle famiglie concorrono a preparare le fanciulle delle varie classi a queste battaglie nuove della vita, bastano e giovano veramente allo scopo? insegnano esse veramente che cosa sia la vita e come ci si possa stare con onore e con sicurezza? offrono esse alla giovinetta le armi della difesa e della conquista? o piuttosto non continuano in un sistema troppo praticamente scarso e troppo teoreticamente fantastico? Tutte queste scuole femminili, che sorgono da varie parti con nomi pomposi e illustri, soddisfano veramente al programma della vita moderna, ovvero si preoccupano maggiormente di esaurire il programma stampato del ministero? Si è cominciato con un pregiudizio. Si è creduto che bastasse istituire delle scuole superiori per mettere la donna a pari dell'uomo. Si sono foggiate delle scuole femminili cogli stessi programmi, o quasi, delle scuole maschili: si aprono le porte dei ginnasi, dei licei e delle università e si invitano le donne ad accostarsi al severo banchetto della scienza. Si mescolano uomini e donne sui medesimi banchi a mangiare nello stesso piatto, a bere nello stesso bicchiere lo stesso vin forte e spiritoso, per poco non s'invita la donna a fumare nella nostra pippa (al sigaro ci siamo) e non si è badato a piccole cose: - 1° che la donna non è un uomo; 2° che ciò che all'uomo fa bene perchè rinforza la sua natura, come la scherma e il giuoco delle boccie, alla donna generalmente fa male; 3° che degenerando la donna, non c'è nessun vantaggio nè per noi nè per lei. Si è pensato a munire la donna di patenti e di diplomi, come se l'insegnare potesse essere vocazione di tutti, mentre si sa che è vocazione di pochissime. Si è pensato a sviluppare le facoltà intellettuali della donna, come se in queste ella non fosse eguale all'uomo, e si sono trascurate altre facoltà che natura nella sua sapienza distributiva diede a lei sola. Si è pensato insomma più alla professionista, che è una carriera di ripiego, come l'andare monaca, che non alla sua carriera naturale. Si è pensato più all'istruzione che è un mezzo di educazione, che non all'educazione che è il fine, più alla testa che all'armonia dei sentimenti, più alla pompa della dottrina esteriore che non alla dottrina e alla coltura delle virtù fondamentali del carattere femminile. Negli educandati, anche modesti, si vive come per incanto di magia. Suona un campanello e arriva il pranzo bell'e fatto in tavola. Ne suona un altro e la biancheria cade sul letto linda, lucida, ripicchiata, come se uscisse allora dalle mani delle fate. Finito il corso dei suoi studi, la signorina esce dal regno delle fate e si trova in un mondo dove le pentole tingono, dove le calze fanno buchi. Che è? che non è? perchè l'hanno ingannata? Come si fa? da dove s'incomincia? E grazia se la padrona di casa conosce i denari che spende. Di rado sa quel che costi a guadagnarli. Le cento lire stentatamente messe insieme da un pover'uomo nel magazzino, nello studio, nella bottega, nel foro, nella scuola, volano dalla finestra aperta della casa come se avessero le ale, o vanno a vestire l'amabile incapacità della padrona. La quale padrona, se sulle prime si meraviglia che il mondo sia così diverso dalla sua idea, superate le prime ripugnanze, un po' per amore un po' per forza, se Dio l'aiuta, si acconcia alle necessità, rimbocca le maniche e prova a tuffare le mani in questa prosa; ma a non tutte riesce bene di imparare. Nulla di più ingrato che il dover fare ciò che non si sa fare. Di qui una ripugnanza invincibile per tutta la vita e un disordine economico, principio e base di più profondi disordini morali. Eppure c'è la sua bella poesia anche nelle quattro pareti! e nulla è più ingiusto per una donna quanto il parlare della schiavitù della pentola, finchè la donna sarà schiava della sua toilette. Bello è tutto ciò che si fa con amore e l'amore si può mettere tanto in una minestra come in una romanza. Tutto sta nel formarsi un senso sano ed esatto della vita, e nel saper spremere dalla vita il miglior sugo. La poesia vien dal cuore, non dalle cose... ed è appunto a rinforzare il cuore che dovrebbe mirare la scuola, che ora si affatica più a gonfiare il cervello. Risponderà meglio adunque agli scopi della vita moderna una scuola che insegnerà a stimare le necessità della vita e a superarle: e per molti lati sarà perfetta quella che metterà in grado la donna di esercitare con sapienza e con arte ciò che oggi impara a caso, faticosamente, spesso con suo danno. Oltre agli affanni del bucato e della pentola (che coll'ordine si riducono a una pratica di poco peso) molte e più gravi responsabilità aspettano queste nostre figliuole il giorno che lasciano la nostra casa ed entrano a dirigere la casa dell'uomo che amano. Pensiamo che spesso la felicità e l'infelicità del così detto re dell'universo dipende dalle più misere cose, da un bottone di camicia, dal trovare o no la minestra pronta, da un paio di scarpe, perfino da una pantofola: e la scienza delle piccole cose non è più difficile a imparare dell'altra delle cose grandi. E nessuno sa impararla questa scienza dei particolari meglio della donna che ama e che comprende come la grande felicità è anch'essa composta di milioni d'atomi o di momenti felici. A conti fatti, se si potesse veder con un microscopio, risulterebbe quasi sempre che la fortuna di un uomo e la felicità di una famiglia dipendono non tanto da ciò che l'uomo sa fare e procurare, ma da ciò che una donna avveduta sa evitare e risparmiare. E il saper fare la felicità altrui è e sarà sempre qualche cosa di più che il sonar bene un notturno di Chopin e il portar con eleganza un vestito di Worth. E la responsabilità che la donna assume in faccia a' suoi figli? - Dal giorno che nascono, e prima ancora, queste nuove creature tutto ricevono da lei, anima, nutrimento, calore, luce, sonno, pace. La madre deve sapere come si fasciano, come si lavano, come si mettono a dormire, come se ne acquieta il piangere, quel che fa bene, quel che fa meno bene. Non passa mese nella vita dei figliuoli che non occorra quasi una scienza nuova, perchè ogni mese e ogni età hanno le loro terribili insidie fisiche e morali contro le quali le scienze mediche e pedagogiche son troppo scarse, se il cuore e l'occhio materno non scongiura. Le malattie infantili bussano come spauracchi al cuore delle madri, che sorprese bruscamente nella loro verginale ignoranza, sono spesso coi moti inconsiderati dell'istinto un rimedio peggiore dei mali. Perchè non insegnare a tutte, non dirò la scienza, ma almeno l'esperienza del bene? forse che il saper medicare prontamente un dito malato d'un nostro figliuolo non è un provvedere alla sua e alla nostra felicità? e perchè si studia tanto se gli studi non aiutano a essere più saggi e più felici? Una volta dischiusa la mente e aperto il cuore delle nostre fanciulle al gusto delle cose vere che son sempre le più semplici, questa educazione casalinga, che oggi sembra un povero ideale borghese, si presenterà alle nuove generazioni come un diritto e come una conquista di più. I matrimoni combinati sulla base dell'interesse e della boria saranno meno frequenti in una società in cui la donna avrà il gusto delle cose semplici: e si sa che gli uomini hanno il gusto delle donne. Con più coraggio i giovani assestati affronteranno i rischi del matrimonio, quando saranno più sicuri di trovare nella compagna della vita una collaboratrice intelligente e una rendita quotidiana di virtù positive. Quindi sarà meno frequente l'ingiustizia sociale, che obbliga oggi un uomo a lavorare dieci o dodici ore al giorno per dar tempo a una moglie sfaccendata d'andare in gran lusso a divertirsi(8). * * * Molto si avrebbe a dire su questa benedetta educazione delle nostre figliuole, perchè i pareri son discordi e non è ancora definitivamente dimostrato che una grande coltura contribuisca ad accrescere ciò di cui la donna ha specialmente bisogno: la pace del cuore. A molti par che l'eccessivo esercizio dell'intelletto torni a danno delle facoltà più geniali, e che dai libri la donna esca meno spontanea, o come diceva un mio vecchio amico libertino, troppo vestita. Lo zio Cassiano, nato e cresciuto in campagna, è sempre della vecchia opinione che la donna è nata per la casa e a un nipote in procinto di prender moglie raccomandava d'osservare bene il pollice e l'indice destro della fidanzata: - Se c'è il segno dell'ago, fidati. (Per lo zio Cassiano le macchine a cucire non sono ancora inventate). Uomo ipocondriaco e materiale, egli diffida egualmente della donna che legge romanzi, (non sa che oggi le donne li scrivono) della donna che parla di politica, delle teologhesse, delle spiritiste, della donna che fuma, della donna che fa conferenze e di tutte quelle che non entrano bene nelle casseruole. Lo zio Cassiano è anche un uomo goloso ed egoista: e se non lo dice, pensa che la donna sia stata fatta dal Creatore pei comodi dell''uomo. La Strenna per non voler entrare essa in un ginepraio, è andata a consultar una sapiente sibilla, cioè una donna d'ingegno e di cuore, che non si nasconde nel velo trasparente di Memini. Interrogata su quel che pensava circa l'educazione che si può dare alle nostre figliuole e se in genere convenga a una donna aver una vasta istruzione, la donna gentildonna. che in Mia e nell'Ultima primavera ha dato prova di conoscere i misteri del cuore femminile e di possedere la grazia e la simpatia delle cose umane, rispondeva la lettera seguente, colla quale, oltre a molte verità, si dimostrerà che anche una Strenna può finire come un bel libro: * * * "Ho aspettato proprio in extremis a scriverle sul noto argomento, cioè se convenga o no d'impartire alla donna una estesa educazione letteraria. Il tema mi era parso pieno di attrattiva e la domanda si presentava chiara e precisa. Ma cercando di approfondirla, mi sono urtata ad una varietà prismatica dei suoi aspetti e sono rimasta assai perplessa. La disparità dei pareri è grande tuttora. Molti pregiudizi in proposito sono stati banditi dal buon senso e la vecchia scuola convenzionale del ridicolo non sussiste più, Ma nella concessione stessa accordata alla donna di affermare la propria intelligenza e di coltivarla seriamente, è rimasto come un lievito di diffidenza, una specie eli restrizione mentale del privilegio. L'uomo da noi si fa un'idea bizzarra del temperamento morale della donna e delle sue attitudini al lavoro della mente. Non la studia nè la conosce abbastanza, la giudica ad occhio e croce, e dall'alto dei suoi studi universitari sorride benevolmente al corso anodino dell'educazione femminile. Uomo e donna non condividono il pane della scienza. All'estero invece, in Germania, in Svizzera, in Inghilterra l'istruzione è parificata fra i due sessi ed offre loro per un periodo d'anni un dato ambiente unico di lavoro, durante il quale essi possono valutare a vicenda le loro forze ed i gradi delle loro attitudini intellettuali. Ignaro e non curante delle condizioni in cui si sviluppano le capacità della mente femminile, l'uomo in Italia rimane serenamente convinto della propria superiorità di fronte alla donna. Non ha fede sufficiente in lei, in ciò che ella ha di più bello dopo il cuore, l'intelligenza! Non la intende quasi mai nella sincerità e nel carattere delle sue attitudini serie. L'adula bensì, con facile indulgenza, che nulla gli costa e l'incoraggia talvolta nel tentativi ch'ella fa per alzarsi al suo livello, ma sempre coll'ironia segreta di un compatimento più o meno benevolo, come si tratta un avversario non temibile e che si è sicuri di vincere ad ogni modo. Pure, la donna nei primi tempi della vita è spesso superiore all'uomo. Accanto al monello sbrigliato, tutto giuochi violenti e moti disordinati, ribellione perpetua a tutto ciò che è regola ed autorità, sta quella figuretta ravviata, per bene, della bambina. I suoi fini istinti le stanno a fior di pelle e si rivelano prestissimo quando non siano tosto soffocati o pervertiti dalla volgarità dell'ambiente che trovano. Un acuto criterio razionale, che non si sa, non si capisce d'onde venga o come operi in quella testina, si spiega nelle sue osservazioni, noi suoi ragionamenti; pur lasciando incolumi la serenità sacra della mente infantile. La sua immaginazione (parlo, s'intende, di una bambina molto intelligente) è prontissima, e s'improvvisa, di botto, nel suo cervellino. Ebbi meco, per qualche tempo, una nipotina sul cinque anni, un vero folletto di intelligenza e di umorismo. Ella aveva innato il senso dell'inventiva. Adorava le storie di qualunque genere e io che ho sempre avuto lo stesso vizio, dalla mia fanciullezza in poi, gliene andavo narrando a piacer suo. Essa ascoltava, con profondo raccoglimento, nel suo sguardo si levavano tesori d'intensa attenzione e d'assimilazione assoluta del pensiero, al senso della novella. Una sera, costretta ad assentarmi, dissi alla bimba, ch'era duopo ch'ella rinunciasse alla sua storia. Ma ella si mise a ridere: Non ci pensare zia. Quando non ci sei tu a contarmi delle storie, me le conto io da per me! L'espressione era alquanto sgrammaticata, ma valeva un peso d'oro! Me ne disse poi qualcosa, di queste sue storie. Erano ciò che dovevano essere; un'insalatina di idee vaghe ed informi, ma qua e là tradivano degli accenni di penetrazione e di un meraviglioso intuito della fantasia. Gettai uno sguardo commosso e un po' triste su quella testina, ove dimorava già e s'agitava, nella sua forma embrionale, il romanzo del pensiero! L'amor proprio è più presto sentito dalla bambina che dal maschietto, in tutto ciò che riguarda lo studio. Il sentirsi lodare in casa, citare in scuola, stuzzica in lei la compiacenza d'una vanità segreta, che frena l'uggia naturale dello studio e la dispone a una serie di sacrifizietti ch'ella fa di buon grado, come farà di buon grado, più tardi, i sacrifici dovuti ad un altro genere di vanità. Il fratello biricchino studia per forza, di mala grazia, senza capire ancora cosa sia di grande e di benefico il lavoro al quale è costretto. Intanto la bambina va avanti, senza fermarsi, sino a un certo limite. Ma qui accade spesso un piccolo fenomeno. Le parti si scambiano, la bimba è diventata una signorina e, a meno di eccezionali disposizioni, o della necessità ferrea di farsi una carriera letteraria o di puro insegnamento, nella donna si rallenta, lo zelo pel lavoro intellettuale, l'amore allo studio si va eliminando. La gioventù sboccia nel suo cuore e la chiama fuori dell'ambiente scolastico. I suoi mezzi naturali non li perde, ma senz'avvedersene si sviano in altre direzioni ed ella cessa di applicarli esclusivamente alle cose intellettuali. Lo spirito è distratto dalle visioni nuove, dalle larve vaghe dell'avvenire e queste s'impadroniscono alla lor volta dell'immaginazione e bene spesso è una liberazione la fine di quel piccolo corso di studi che la scuola ha imposto alla fanciulla. Il fratello ha seguito frattanto la sua via e la prosegue. Malgrado le sue felici attitudini, la donna è rimasta indietro, generalmente, e l'uomo le passa davanti, col saluto ironico del vincitore. Ma non per tutte le fanciulle resta chiuso l'adito ad una carriera utile e decorosa. Se hanno approfittato dei loro studi, possono, alla lor volta farne approfittare altrui, possono dedicare le loro forze a pro della pubblica Istruzione. Una dignità simpatica sorride sulla fronte della fanciulla che si dedica all'insegnamento, per elezione naturale o per forza di circostanza. Assorbita nel soverchio sforzo mentale di acquistare le cognizioni richieste per le abilitazioni all'insegnamento, la fanciulla rinnega generosamente gli impulsi dell'adolescenza per dedicarsi al faticoso studio della preparazione. Il suo tirocinio lo fa in casa, come può, frastornata da mille interruzioni. La considerano in casa come un futuro elemento produttivo per l'utile dalla famiglia. Certo non sempre la famiglia è conseguente nei suoi apprezzamenti, forse un fratello ignorante, un nonno borbottone, la deridono e la tormentano per quei suoi eterni libracci! Marta e Maria si contenderanno qualche volta il tavolone del salotto, questa per distendervi i suoi quaderni da consultare, l'altra il bucato da rammendare, ma ciò non turba definitivamente la pace e la tranquillità della famiglia. Giunge l'epoca terribile degli esami, le snervanti trepidazioni, i fiaschi... il successo e un nugolo di maestrine nuove spiccano il volo per tutte le regioni italiane. Sono sole, ora, le maestrine, davanti al loro avvenire. Non tutte hanno forze e valore morale bastevoli all'ardua taccia. Hanno detto, scritto, a proposito di maestre, una vera iliade di lacrimevoli guai e pur troppo non manca qualche esempio che valga a giustificare dei severi giudizi. Pure; quanto è bello lo spettacolo complessivo di tante virtù, di tanta abnegazione, inesorabilmente richieste dall'indole stessa di questa missione! La donna non vi è punto spostata. Un'aria di famiglia, un'immagine di maternità le aleggia sempre d'attorno, il suo cuore può rimanere ciò che è. Il suo carattere soltanto è costretto a temprarsi a forze virili, la sua coltura è avviata ad uno scopo diretto che non può travia in inganno, non può sviarsi per via. E una coltura impersonale, per così dire, l'ha acquistata ma non per uso suo esclusivo, bensì per trasmetterla come un sacro deposito alla più recente generazione. Le ribellioni sono rare, in quei ranghi serrati alcune infelici o sconsigliate non potranno forse sottrarsi al pericoli e alle tentazioni dell'isolamento, e vi soccomberanno per colpa loro od altrui. Ma la maggioranza - oh no, starà salda al suo posto, così utile e decoroso! Migliaia e migliaia di esistenze femminili vi troveranno un sicuro rifugio, una quiete relativa e sopratutto una vera rispettabilità di posizione. La patente maestrale è un foglio di via che apre nuove e meglio retribuite occasioni di collocamenti nella carriera dell'insegnamento privato. Tutta una classe di buone, intelligenti, e di oneste attività, ha uno sfogo naturale in quella professione difficile, spinosa, non scevra di profonde amarezze, ma sicura almeno e altamente onorevole! Ma nelle altre classi sociali quale azione pratica e positiva al par di questa esercita la coltura intellettuale della donna? Essa non è organizzata in quello stretto senso disciplinare, è lasciata all'arbitrio dei genitori, al capriccio e all'inclinazione individuale, all'azzardo dei mezzi e delle opinioni. L'uomo ci pensa poco, o non ci attende guari. Lo scienzato accorda alla donna l'onore di un'analisi anatomica del suo cervello, di fronte a quello dell'uomo e dal quale risultano differenze di peso, di misure, di valori proporzionali! Non ho mai potuto comprendere e non son certo in grado di contrastarla, quella teoria condannatrice, ma mi parve sempre così puerile e assurdo quel battibecco puntiglioso fra l'uomo e la donna, mentre sono essi l'insieme e l'armonia della creazione in tutte le sue manifestazioni! Checchè ne sia e lasciando in disparte quelle vane gare ed i giudizi preconcetti, è certo che si riscontrano nella donna attuale maggiori attitudini all'alta coltura di quanta ne possedesse tempo addietro. È un bene, o un male? Il tempo pronuncerà la sua sentenza. E il privilegio sublime potrà costar caro alla donna che lo vanta, non sarà sempre nè la felicità, nè la gloria! Esso lo impone una dualità ben distinta di doveri. Bisogna che il suo cuore e il suo senno soverchino in altezza e in latitudine i privilegi della sua mente. I pregiudizi, l'egoismo, la volgarità di mente, l'ignoranza, la bassa invidia di altre donne la costringeranno a mille immolazioni dei suoi gusti, la tortureranno persino nelle sue più luminose certezze. Il suo mondo non le permetterà le superbe gioie d'una indipendenza procuratasi da sè stessa, il suo immenso capitale non avrà sempre sbocco nè impiego. Ogni tanto, nell'uomo, sorgerà un senso di malumore, meschino, basso, un pentimento d'averla proclamata capace di essere qualcosa per se stessa e si tradurrà in amare vendette, in un duello in cui egli avrà appunto la ragione del più forte. Soffrirà, soffrirà sempre la donna in quelle condizioni, eroiche, ineguali, di battaglie mentali... pagherà a caro prezzo l'entusiasmo che strapperà ai suoi stessi detrattori, l'audacia della sua discesa nella profondità cupa della miniera ove si elaborano, in seno alla tenebra, l'oro e le scorie del metallo umano. Pagherà lo scotto dei suoi maschi studi, dei suoi forti istinti, con un'esacerbazione continua di tutti i suoi sentimenti femminili, si troverà sempre sola, isolata, malveduta sul trono del suo ingegno, fraintesa, sfigurata nelle lodi stesse di una turba che la acclama, che l'applaude in nome d'una ribellione che ha creduto di ravvisare in lei. La celebrità la ricompenserà e la punirà ad un tempo d'aver voluto essere più delle altre. Sarà talvolta la gloria, ma spesso la sventura. Pure ella non può rinnegare se stessa e la sua missione virile. Perciò non augurerei mai ad una donna che mi fosse cara, una strapotenza di mezzi intellettuali. Madre; tremerei di ravvisare in mia figlia una di quelle formidabili vocazioni che sbalzano talvolta le anime femminili fuori delle orbite loro e le fanno errare, gigantesche, perdute nelle infinità cieche del vuoto. Non oserei oppormi al volere della Natura se così si spiegasse in un'anima a me cara, ma quale eterna trepidazione sarebbe il mio vivere! Lo so, l'umanità di tutto si giova, non si arresta davanti a niente, tutto diventa strumento fra le sue mani per agitarsi nello slancio irresistibile delle sue evoluzioni, ma è triste la sorte di quelle vittime che a uno scopo intellettuale immolano se stesse e la quiete della loro esistenza e l'esercizio dei più cari doveri del cuore, dei più sublimi privilegi della femminilità!.. Ma se ho sognato talvolta un ideale di donna, nell'illusione di maternità che Dio non ha voluto concedermi, il mio sogno non si è aggirato attorno alla donna intellettuale dell'estremo grado. Ho sognato un animo eletto, sano, lieto. L'ho scelto in quella schiera di anime di lusso che sono consone alle aspirazioni di quella che io chiamerei: l'eccezionalità normale, con un'espressione che sa di sproposito, ma che non saprei come sostituire. Vorrei che la mia figliuola avesse anzitutto una squisita educazione dell'anima e che a quella unisse una coltura reale, seria, forte, virile nelle sue basi e sana nei suoi risultati, che le insegnasse a odiare il male, che nella sua mente profondesse la luce, la libertà, la letizia e l'amore alla vita e ai suoi doveri. Vorrei che quella coltura non la stancasse nè l'attristasse, nè soverchiamente la assorbisse e fosse scevra da ogni esaltazione. Vorrei che nella mia figliuola ci fosse il convincimento assoluto e l'amore della sua missione, l'idea di tutta la sua entità, nell'immenso e nell'infinito che si stende dietro gli stretti limiti che sembrano circoscriverla. Vorrei ch'ella avesse l'arte di amare e di farsi amare, che la sua coltura fosse dolce, umana, vorrei che si stendesse, pietosa, a tutte le miserie dell'umanità e alla cognizione delle sue deficienze morali, ma non dimorasse cieca dinanzi alle sue glorie ed alle sue virtù. La voglio impulsiva, amorosa, fedele alle sue sorgenti. La voglio padrona di sè, leale, stretta ai suoi legami, austera nei suoi gusti, buona alla donna, ai deboli e alla mediocrità. Non voglio che sia cosa morta, inerte, quella coltura, nè che i privilegi della sua aristocrazia morale si disperdano nella vacuità plebea di ipocrite gare e di pettegolezzi convenzionali, Abbia le qualità che più le giovano e che meglio convengono ai suoi tempi, al tesoro sacro del presente, alla prosperità delle famiglie e del pubblico. Non sono ottimista per carattere e una certa esperienza m'ha insegnato che il successo delle idee razionali non è mai rapido come dovrebbe esserlo e non si completa, se non dopo un lungo circuito di prove, infelici bene spesso ed insufficienti. Ma credo altresì che il tempo verrà in cui la coltura femminile troverà il suo posto definitivo e il mondo indovinerà quanto le anime di lusso potranno essere anche le anime d'uso e le operaie del vero progresso intellettuale. Io, almeno, non chiedo altro al mio sogno. Mi perdoni la impulsiva chiacchierata e mi creda sua obbligat. MEMINI INDICE PARTE PRIMA: I. Chi sono i rachitici II. Non basta predicar bene III. Che cosa significa educare IV. Noi siamo nei nostri figli V. Debolezze di cuore VI. Il sì o il no VII. Il poco per volta VIII. Ragazzi distratti, egoisti, poltroni ecc. IX. Paurosi e timidi X. Ragazzi svogliati XI. Educato con buon umore INTERMEZZO: I. Canta la mamma II. Sono mamma III. Sono papà IV. Povera Mariannina! V. La nostra figliuola PARTE SECONDA: I. Premi e castighi II. Il diavolo dei nostri figliuoli III. La religiosità del fanciullo IV. L'avvenire dei nostri figliuoli V. Le nostre figliuole (1) Le Quattro Stagioni, Strenna a beneficio dei Rachitici, anno 1892. (2) DAZZI, Elogio di R. Lambruschini.] coscienza che resiste ai mali. E non si dica ch'è troppo presto per cominciare; ogni giorno perduto può essere un'occasione perduta. Ogni granello perduto nella seminagione è una pianta perduta nella raccolta. Il tempo è un mostro che mangia sè stesso e non c'è nessuno che batta con più impazienza alla porta di casa quanto il signor domani. Se avete una bambina di cinque o sei anni, pensate fin d'ora che domani, cioè tra una dozzina d'anni, può essere una sposina e che andrà all'altare col portamento con cui oggi conduce a nozze la sua bambola. Le idee che in quel gran giorno molineranno nel suo cervello di sposina devono aver già le loro piccole radici nel cervello della bimba: questi capricci di zuccaro saranno i suoi capricci di granito, questa vanità la sua vanità, quest'impazienza la sua impazienza. E noi, tollerando e perdonando, non facciamo che lasciar crescere delle spine inutili dove un giorno vorremo coltivare dei fiori. (3) Contribuisce ancora a dissipare la serenità nelle nostre scuole, oltre alla congerie indigesta dei programmi, la poca attitudine di molti insegnanti a vivificare l'insegnamento e la nessuna conoscenza che certi dotti cattedratici hanno della natura e dei bisogni dell'animo giovanile. Quelle qualità alla buona, che facevano dei nostri vecchi maestri eccellenti educatori, anche quando non brillavano per eccesso di dottrina e per numero di pubblicati volumi, col sistema attuale dei concorsi non avrebbero modo di valere e di farsi apprezzare. Le commissioni giudicano l'insegnante sul libri che fa, non mai o ben di raro su quel che sa insegnare, sul modo che insegna, sugli uomini che fa. Anime di ghiaccio son mandate a infiammare anime di scolari: nessuna meraviglia se la scuola diventa una ghiacciala. Così dev'essere e così sarà fin che nel maestro delle nostre scuole secondarie non si cercherà il maestro prima, l'erudito e l'archivista poi. Un dotto trattato di strategia, ch'io sappia, non ha mai procurato a nessun nano il grado di colonnello. Invece basta una grammatica o un nuovo prospetto di verbi irregolari per fare d'un pedante, d'un sordo, d'un balbuziente un professore di ginnasio o di liceo, vale a dire un distributore di idee, di sentimenti, di gusti, di opinioni che non ha o che non sa esprimere. Il gusto per gli studi classici non è mai tanto scaduto in Italia come dal giorno che salirono sulle cattedre dei licei i nostri giovani filologi così bravi nei libri; e col gusto dei classici venne meno il gusto di quel bello ideale che è la simpatia delle cose. Mancando lo scopo morale di questi studi, vien naturale di domandare a che cosa servono, e se non è meglio studiar ragioneria. L'insegnamento vuol essere cosa viva, vivificante, lieta come il vivere. La noia è il sonno dell'anima, il sonno simbolo della morte; con questo di più che tra le varie noie che affliggono il mondo quella che viene dagli eruditi, forse perchè più concentrata, è la più efficace In quanto alla ginnastica ecco l'opinione d'un fisiologo, il Mosso: "La ginnastica delle scuole è ora tutta indirizzata allo sviluppo delle braccia, non tiene quasi conto delle marcie e non tende, come dovrebbe essere suo scopo unico, a rendere robusta la gioventù. Dobbiamo cambiare e dare maggiore importanza alla marcia, alla corsa di resistenza e alla corsa di velocità... Fino a questi ultimi anni gli educatori e i fisiologi s'erano limitati a dire che la ginnastica tedesca era inutile e noiosa; ora si comincia a dire che è dannosa. E lo diciamo perchè essa dà troppa importanza allo sviluppo delle braccia in confronto delle gambe". (Nuova Antologia, 1 ottobre 1893). (4) Vedi lettera di Battistone nelle Quattro Stagioni. (5) Il soffocare poi i nostri bambini di regali e di balocchi è un rompere anche questo criterio. Quei cento ninnoli onde sono circondati i bambini dei ricchi finiscono col significare più nulla: e infatti vedete che subito ne sono annoiati. (6) O dignitosa coscienza e netta Come t'è picciol fallo amaro morso! DANTE, Purg. III. (7) KARR, Les femmes. (8) Da qualche tempo si è fatto o si va facendo più d'un tentativo per dare in Italia anche all'istruzione femminile un avviamento meno aereo, più conforme ai bisogni e al sentimenti dol tempi moderni. Oltre alle molte scuole tecniche e professionali sorte qua e là noi vari centri, è entrata anche nei collegi l'idea che l'istruzione più che un ornamento abbia a essere uno strumento della vita. A Milano, per esempio, per iniziativa della valentissima signora Agostina Bianchi Feltri, direttrice dell'antico Istituto Bianchi-Morand, fin da due anni fa si è inaugurata accanto allo varlo sezioni di studio (tra le quali anche un corso ginnasiale femminile) una Sezione domestica, dove le allieve oltre al cucire o al ricamare imparano gli elementi della igiene alimentare, la pratica dol cucinare, la direzione amministrativa d'una casa o anche un po' di medicina domestica poi casi improvvisi ed urgenti. Le parole riportate qui sopra facevan parte appunto della conferenza colla quale s'inaugurò il nuovo indirizzo, e a quest'ora i risultati cominciano a premiare l'opera coraggiosa o tutta moderna dell'iniziatrice. Gli studi utili non impediscono quelli d'ornamento, anzi il rendono meno oziosi, per non dire più necessari.