Due anime in un corpo (1878) PREFAZIONE DELL'AUTORE PUBBLICO di buon grado per incominciare una lettera che mi scriveva il Cav. Prof. Marco D'Olona: Caro De Marchi, Io sono d'avviso, amico mio, che raccogliendo voi queste novelle sparse su pei muricciuoli, non facciate opera di cui la Patria senta estrema necessità; come quella che intesa tutta alle pratiche cose e alle severe discipline sociali, ha manco bisogno di queste vane quisquiglie. Infatti io sento gridare che l'arte deve oggidì, fatta meno parolaia, occuparsi di gravi e solenni argomenti a sollievo dell'umanità sofferente; mentre voi, se per avventura la mia mente qui non delira, scriveste un po' troppo a cuor leggero. Ecco quel che non vi sarà perdonato ed a ragione: un paese che si dà al bozzettino e alla novelluccia, se cronico non è, corre ad esserlo. Perciò non abbiate in mala parte, se vecchio e pedante qual io sono, aspetto da chi mi fu discepolo affezionatissimo opere di maggior momento, come so che già state elaborando. Quel vostro studio per esempio "Se l'Y sia consonante o vocale" di cui vidi le prime righe, credo che vi procurerà maggior lode presso il pubblico savio ed intelligente. Devo però lodare in voi che non abbiate fatta pompa in queste frascherie né di troppo genio, né di procacità, della quale si compiace l'arte presente, come donna che perdute le caste seduzioni della giovinezza, fa ricorso alle nudità, al liscio, ai fronzoli. L'arte di oggidì mi sembra una gallina e il raspare, credetelo a me, è segno di carestia. Lodare solamente in voi un atto di temperanza vi parrà poco, ma la parsimonia degli elogi compensi quella dei biasimi. Il dirvi oggi: Caro mio, la favola è zoppa, le parti disarmoniche, vi si vede la fretta, il rabberciamento e così via, oltre essere noioso, mi sembra rubare il mestiere ai critici, persone a modo, che non scrivono libri soltanto per non farli troppo belli. [74] Non mi resta che raccomandarvi, come figliuolo, alla pietà dei lettori, i quali vedendo essere molti nel mondo anche gli uomini inutili, non vorranno offendersi per un libro di più. Credetemi il Vostro più intimo amico Cav. Prof. MARCO D'OLONA Aprile 1878. [75] PARTE PRIMA I S'INCOMINCIA DA UN MORTO OLTRE la porta e un corridoio lungo, stretto, montante e ammattonato si riusciva in un cortile lastricato a pietre ineguali, largo due volte e mezzo il fazzoletto disteso del mio rettore di seminario, dove, già da due mesi, aveva lasciata la soprana per venire a Milano in cerca d'un impiego comechessia. Al di là del cortile, che diremo nobile, segue un androne quasi buio, sotto il quale si inerpica la scaletta, e più in là ancora un altro cortile rustico, ripostiglio delle tinozze, delle scale, dei pennelli e delle scope del signor Pietro Manganelli, imbiancatore, che mette in opera anche campanelli. Cinque o sei mani nere, dipinte sul muro a breve distanza l'una dall'altra, coll'indice teso, conducono diritte nelle braccia del signor Pietro, meno una più irregolare, che a rigor di termini manderebbe nella vasca della tromba. Un bel faccione di sasso, colle ganascie gonfie e gli occhi spiritati, fra un grottesco di tufo e di alghe dipinte in mattone, è la fisionomia della tromba, che Doro, il guattero dell'osteria vicina, dimena da mattina a notte con quella voglia stracca di chi casca dal sonno; fischia il manico, zufola Doro e la musica è fatta. Dietro i vetri, profondamente affumicati, d'una finestra a pian terreno, si vede e non si vede una figura bianca, con una aureola piatta sul capo, il cuoco insomma dell'osteria, il quale ammannisce seriamente le gastriche a' suoi avventori, e va freddamente impiccando il suo amabile Doro, quando il ragazzotto ciondola sul manico della tromba, o sprofonda tra i mucchi di carbone sul solaio. Se qualche curioso, passando di là, si ferma a spiare un minuto fra i vetri, il signor Placido, uomo di poche parole e geloso de' suoi segreti, gli fa dietro i vetri una grinta di ranocchio e alzando due dita in [76] foggia di un V maiuscolo, pare che offra all'indiscreto un occhialino inglese. Le pareti alte tre piani, sormontate da un'altana di legno, traforate da tante finestre, che le griglie dell'una entrano quasi nell'altra, serrano quel largo da quattro lati; tutto ha un colore d'acqua piovana; serpeggiano qua e là delle striscie di calce più fresca, come immense allumacature; negli spigoli salgono molte ragnatele ordinate a guisa di scansie; per terra è un pattume di calce dispersa, di gusci di fagiuoli, di penne di gallina, di zampe d'oca, di gorguzzoli, e di tutto quel po' di grazia, che vi lasciano i piedi e gli scialacquamenti di Doro, il quale, tutto il dì o quasi, vi lava bottiglie, stracci rossi di salsa, insalate, gambe di porco e al sabato le sue calze. L'odore dell'aglio, del burro e dell'olio cotto, misto a quello delle miscele coloranti, dei rimasugli rancidi e Dio sa di che altra cosa, fanno colare laggiù un'aria tiepida e morta, che fa rancido alla gola. Al primo piano, oltre il signor Manganelli, abita la Rosa stiratrice; al secondo una lavamacchie e una brava persona, che ha bottega altrove e che occupa le sue serate e i giorni festivi nel perfezionare e nel montare trappole ai topi; al terzo la famiglia Tanelli, la quale ha voluto che il secondo uscio a destra fosse tutto per me, perché il signor ragioniere (mi chiamano così) potesse andare e venire in santa libertà. Quei dell'osteria si servono di una scala interna. Un giorno - eravamo in gennaio - le persone di casa, sul mezzodì, erano radunate parte nel cortile, altre guardavano dalle finestre, e anche il signor Placido si faceva di quando in quando sull'uscio della cucina, senza lasciare di levar le calze a un pollastro. Nel mezzo, sopra un mucchio di neve pesta, ultimo e interminabile avanzo di una fioccata di Sant'Ambrogio, stava una specie di barella; rasente al muro si vedevano alcune torcie poste in fila, e una più grossa appoggiata a una sedia di legno, dove posava anche un libro sottile, legato in pelle nera con una testa da morto dorata nel mezzo, a traverso un asperges d'argento. Il prete era salito nella mia camera per la curiosità di vedere il morto, avendogli la signora Brigida, mia padrona, raccontate non so quali stravaganze. Il cameriere dell'osteria, giovinetto con una faccia di pomice, due occhi di pulce, e una zazzera sparpagliata, come un ombrello, andava sferzando con un tovagliolo profilato in rosso le gambe di Doro, perché gli aveva rubato uno zigaro, che aveva alla sua volta il torto d'esser rubato. Poi alzava gli occhi alla finestra della Rosa e faceva: - Pst, se fosse lei la morta, la mi vedrebbe piangere, oh sì! oh sì! uh! uh! - Il ragazzo si asciugava gli occhi col tovagliolo. [77] Doro a quella scempiaggine gli dava un golino colle sue ditacce grommose e i due amici si arrabattavano sommessamente, finché una voce ringhiosa brontolò: - Rispetto ai morti, marmaglia. Il signor Placido nel dir queste parole strappava la lingua al suo pollastro, che teneva sotto il braccio come un cappello di lusso. Alcuni fanciulli intanto guardavano ansiosamente su per la scaletta, che risonava di un peso strascicato a intervalli, secondo il voltare e il rivoltare dei pianerottoli. La giornata era secca, freddina, e uno spicchio di sole riverberava sopra una finestra del terzo piano, dove una vecchierella, in una bella cuffia di grisetto, appoggiate le mani al davanzale, come per sorreggersi, guardava ora il cielo, ora la barella, procurando trovare per sé una buona riflessione; le avevano detto che il morto non toccava i ventiquattro anni e, sebbene non conoscesse il Lucini, piangeva di compassione. Gli operai del signor Manganelli si radunarono in crocchio, qualcuno in ciabatte, con la colazione in mano, e chiacchierando a bocca piena, domandavano dei ragguagli alla signora Medaglia, la lavamacchie; tra gli altri un bassotto, con un berretto di carta e una blusa di rigatino, diceva, sputando briciole, che il morto era un balordo, perché a pagare e morire c'è sempre tempo, n'è vero? Il Manganelli domandava alla Rosa in un angolo del pianerottolo, se il morto era quel giovinetto serio, coll'aria di prete, che viveva a dozzina presso i Tanelli; ma, vedendomi passare in quel mentre, mi ficcò gli occhi addosso, mortificato del torto, che mi aveva fatto, e forse sorpreso nello scoprire in me qualche cosa di insolito, che non sapeva ben definire, qualche cosa che non era tutta mia. Anche la signora Medaglia, che parlava di me e del povero Lucini, al mio sopraggiungere troncò il discorso repentinamente e mi tenne l'occhio addosso, non persuasa del tutto sul mio conto. La signora Brigida, il signor Gaspare suo marito, e la figliuola, per farmi piacere, s'erano offerti di accompagnare; il povero Lucini, il quale, non avendo a Milano né figliuolo né cagnuolo, avrebbe dovuto andare tutto solo fino al cimitero. La signora vestiva un abito di seta, un po' corto davanti, talché gli scappavano di sotto le scarpe, e il signor Gaspare, sotto un cappello a cilindro di vecchio pelo, sempre però degno d'un morto, andava stropicciandosi le mani contro il freddo e adocchiando la torcia più grossa. Quattro donnicciuole, secche, unghiute, linguacciute, irrequiete, imbacuccate in scialli di nessun colore, vestite di gonne floscie e sbrendolate, parlando tutte insieme, assordavano la signora Brigida per ottenere un'elemosina e il permesso di pregare per la povera [78] anima. La credevano una parente e per paura che scappasse, l'afferrarono per il vestito, per le braccia, le strapparono di mano il libro di divozione e per poco anche gli occhiali, che s'era messi per cercarmi. Mi chiamò e quelle quattro streghe mi serrarono in mezzo. - O signor padrone, diremo un rosario alla salute eterna di suo fratello. - Non è mio fratello - rispondeva colle buone. - Se è un parente, il bene fatto ai parenti è restituito da Dio. - Non è mio parente, e non c'entro, benedette da Dio. - Ella è un bel giovine - insistevano parlando tutte insieme - e non può essere cattivo. - Non è bene soltanto quello che si fa in Chiesa. - Sono una povera vedova. - Dirò una bella Avemaria alla madonna di San Celso per lei, per la sua mamma, e per la sua amorosa. - Il defunto ha stabilito una piccola somma pe' suoi funerali, è un forestiero e... - Perché tante candele inutili? - ripigliava l'una. - Taci, martora; non sparlar dei morti: il signore è tanto buono. o volentierilicazioni d'diali e riconoscenti, er far circolare il materiale fra studiosi e appassionati.- Un soldo, due soldi appena. - Sono tre giorni che non bevo un brodo, e con questo freddo... misericordia, non sente? - Il poveretto avrà qualche venialità e non fa mai danno un piccolo suffragio... Qui cominciarono a palparmi, a istigarmi, a nicchiarmi coi loro occhietti grigi e bianchi e con tutte quelle seduzioni, che tradivano un'arte appresa e dimenticata da un pezzo, tanto che, per salvarmi, frugai in tasca, presi a caso un pugno di soldi, e li lasciai cadere in una mano, la prima, la più lunga, la più gialla. La pia donnicciuola strinse, e correndo col passo d'un coniglio, scivolò dalle branche delle altre, facendosi il segno di croce col pugno chiuso, e sparì. Le altre la seguirono un po', ma visto che era fiato perso, ritornarono più baldanzose contro di me, con una ragione di più di pretendere la loro parte. - Ce n'è per tutte, seguitela - dissi schermendomi. - È una malandrina, una carcassa, che non sa nemmeno il requiem; fa sempre così, se li beve e deruba le vere bisognose. - E a me? e a me? e a me? - Basta, basta - strillai, turandomi le orecchie e rifugiandomi fra gli operai, che godevano un mondo a quella commedia; il bassotto, tocco sul cuore della mia disperazione, diè di piglio, o fece finta di imbrandire un pennellaccio, di modo che le maliarde si restrinsero in un angolo a cospettare fra i denti, e a lacerarsi fra loro. Mi fu possibile però carpire anche questo suffragio: - Eh già! [79] costui dev'essere un arnesaccio, morto disfatto nelle braccia di qualche ballerina: il diavolo ne avrà di migliori. La cassa, in cui era chiuso il povero Lucini, spuntò dagli ultimi gradini della scaletta, e si fece un gran silenzio; comunque sia, un morto mette sempre suggezione. Furono accese le quattro candele e i necrofori collocarono il feretro sopra la barella e lo coprirono d'un panno nero orlato di giallo, mentre il prete, girandogli intorno, brontolava un'orazione, che fingeva leggere sul libro, ma che sapeva a memoria. Il chierichetto, attento alle donnicciuole, s'incantò, e quando si fu al benedire, il prete dovette toccarlo sotto il naso coll'asperges per farlo voltar di qua. Nella piazza, innanzi alla porta, dove attendeva la carrozza funebre, s'era raccolto un crocchio di curiosi; molti domandavano, ma nessuno sapeva dir nulla di certo sul morto; i necrofori, con un cerimoniale alquanto soldatesco, si presero il feretro sulle spalle e a passo di marcia entrarono nei corridoio, che rimbombò; la gente si raccolse di dietro, come le increspature dell'acqua dopo una barca che passa; un uomo, tutto rattoppato e coperto di pagliuzze, zoppicando, si fece sotto alla candela del signor Gaspare, per raccogliere in un cappello di carta la cera, che sbrodettava forse troppo, con fastidio del padrone, il quale andava pesandola mentalmente e calcolando quel che ne darebbe il droghiere. Sulla porta, il prete si accostò alla signora Brigida e le susurrò: - Non hanno fatto rapporto alla polizia? - Non ha voluto parlare, ad ogni costo - rispose la donna, tentennando il capo. La carrozza si mosse verso la chiesa e il rattoppato, tentennando sulle gambe, si accostò alla signora Brigida, che teneva la candela più storta, e intonò con voce di ubriaco: - Ai Maria, grazia plena, nos tecum tiesus... [80] II IO E L'ALTRO ANCH'IO sentivo in me qualche cosa, che non era del solito Marcello. Quel funerale fatto in casa mia, la mia stanza chiusa a chiave, quella buona gente, che per amor mio seguiva il feretro, tutto ciò mi faceva pensare, sto per dire, che le esequie fossero un pochino per me, molto più che in quel tragitto, attraverso la città fino al cimitero, io vestiva gli abiti del Lucini. Il Manganelli e la signora Medaglia, usi a vedermi in un zimarrone tané, e sotto un cappello di feltro scolorito, restarono edificati, e me ne accorsi, quando passò loro dinnanzi un mantello alla brava, ripiegato sopra una spalla, col bavero di martora, e un cappelletto di panno verde a cono, con una piuma di fagiano nel cordone. Il Lucini vestiva artisticamente, da pari suo, mentre io, uscito allora di gabbia, quasi smarrito nel gran mare del mondo, col capo pieno di ferravecchi, m'era contentato per allora di abiti smessi dal babbo, sperando di poterne guadagnare dei nuovi. La mia risoluzione di romperla colla vocazione e di chiudere le orecchie alla voce di Dio era spiaciuta ai miei di casa, gente di campagna, che, fattasi una certa fortuna, vedeva in me il decoro e l'avvenire della famiglia. Sicché tra me e i parenti durava un po' di ruggine, superficiale fino che vi piace, ma che bastava per stuzzicare i miei puntigli e il desiderio di non costar nulla al babbo. L'impiego era di là da venire, ma promesso e sicuro nell'ufficio del catasto; non si aspettava che la morte del capo ufficio (tutti dobbiamo morire), malato già da tre mesi d'un cancro allo stomaco, e dopo il primo segretario sarebbe montato al suo posto, e tutti gli altri, per un movimento d'orologio, un gradino più in su, finché l'ultima sedia restava calda calda per me. Intanto col tenere i registri d'un droghiere, mio compatriota venuto a Milano nel cinquantaquattro, uomo liberale, amico più del pepe che dei preti, m'ero ingegnato da me a pagarmi la pigione e il pranzo e perfino le lezioni di violino, che il Lucini, in via d'amicizia, mi dava due volte la settimana. La mamma, sempre mamma, di nascosto mandava qualche sommetta al droghiere, perché provvedesse alle mie necessità; il babbo, di nascosto anche lui, tratto tratto scriveva allo stesso signor Leonardo, perché, se io venissi in bisogno, non mi lasciasse morire, e siccome non conveniva che io mi accorgessi di queste elemosine pietose, non me ne accorsi; però seguitai a vivere per due mesi in [81] quel bugigattolo, ravvolto nel mio zimarrone tané, soffiandomi il naso in fazzoletti di cotone turchino, che per vecchia abitudine non rifiniva mai di piegare, finché ridotti alla forma d'un cetriolo, sparivano in un abisso delle falde. Il mio carattere era greve, un po' per natura, un po' per le raddrizzature patite; ingenuo e nello stesso tempo sospettoso della società, non più fondata, ahimè! sopra i principii inconcussi della religione e della verità. M'incontrai nel Lucini alla trattoria, dove si desinava assieme. Si scambiaron quattro parole, seppi che era professore di violino, che suonava quell'inverno al teatro Carcano, che era forestiero (credo napoletano), gli prestai qualche servigio di poco valore per me, e prezioso per lui straniero e nuovo della città, gli parvi un buon diavolaccio e così si strinse un po' d'amicizia. Visto che i soccorsi segreti non venivano meno, di punto in bianco mi saltò il gricciolo di studiare il violino, per rompere la monotonia di quei giorni di aspettazione. Detto fatto, dopo un mese e mezzo aveva stordito persino il signor Placido, che vedendomi passare mi lanciava di là dei vetri un'occhiata che pareva dire: Friggerlo il maledetto! Una sera, verso le dieci, sento bussare al mio uscio; accorro e vedo il Lucini pallido, esterrefatto, cogli abiti in strapazzo, il quale, premendosi le ossa del petto con ambe le mani, si avanzò come sfiaccolato, balbettò alcune parole di scusa, e andò a cadere sfinito sul mio letto. Si può imaginare la mia sorpresa. [82] III MISTERI ALLE PRIME domande, che gli mossi con tanta paura, come si può pensare, Lucini rispose solamente con singhiozzi strozzati, abbandonando la testa morta sul guanciale; quantunque i suoi vestiti portassero segni di violenza, non mi accorsi che egli fosse ferito, se non che cercava farmi capire che l'avevano picchiato brutalmente al petto. Chiamai la signora Brigida, suo marito e Gioconda, la figliuola, che accorsero colle mani in mano, invocando i trecentosessantacinque santi dell'anno, benché li pregassi, senza saperne altro, che non mettessero i vicini a soqquadro, gente benedetta che di per sé ne sa sempre una più di noi. Mandai il signor Gaspare alla vicina farmacia e ritornò poco dopo, menandosi dietro un vecchiotto peloso, dolce come una stregghia, che cominciò a maltrattare e a rimbrottare l'ammalato, perché non si fosse posto a letto subito; poi si rivolse a noi per sapere il fatto e ad ogni mia parola mi lanciava occhiate di disprezzo, interrompendomi con esclamazioni secche, che volevano dire: Belle chiacchiere, ma il caso è serio. Quando il povero Lucini potè riavere un po' di fiato, cominciò a narrare d'essere stato assalito nella via delle Tanaglie da due persone a lui ignote, le quali, dopo averlo percosso a quel modo sullo stomaco, con sacchetti di sabbia o di sale, se n'erano andate, rubandogli soltanto uno straccio di portafogli con poche lire, ma non l'orologio, non un anello prezioso, che aveva in dito. - Dunque non erano ladri! - gridò il dottore, voltandosi rabbiosamente di nuovo contro di noi, che per vero dire, non avevamo sospettato male del prossimo. La signora Brigida, che si vide presa di mira, levò gli occhi sul suo sarto e sopra di me, con tanta meraviglia che i suoi occhiali parevano ingranditi. - Come si chiama questo signore? - riprese il dottore coll'aria di chi comincia a rabbonirsi. - Giorgio Lucini - risposi con molta riverenza. - Che mestiere fa? - È professore di violino. - Abita qui? - Nossignore. - Come si trova qui? [83] - Deve sapere, dottore... - È una storia lunga e il caso è serio. Faremo un buon rapporto e per ora lo mettano a letto e non lo si stordisca; torno subito. Uscì e ritornò in seguito sei o sette volte con tutti quei rimedi, che la scienza degli altri gli andava suggerendo; però man mano che l'infermo tirava al peggio, il dottore diventava contro di lui rabbioso, come se gli giuocasse uno scherzo di cattivo gusto, finché finì coll'odiarlo, insieme a tutti quegli altri malati, che avevano avuto la disgrazia di morirgli tra le mani. Si lasciò vedere anche un delegato di polizia, mandato dal dottore, persona compitissima, che, udito il caso, voleva gettar via la testa; domandò, notò, promise una buona inchiesta, sebbene il Lucini aggiungesse di nuovo soltanto che nel portafogli v'era un ritratto di donna. Non volle dirne il nome, né spiegarsi di più, onde, a dispetto di tante buone disposizioni a suo riguardo, dopo quattro giorni morì, senza sapere a chi dir grazie. - Ai Maria, grazia piena, nos tecum tiesus - seguitava lungo la strada il rattoppato, contento di finire il suo mezzo rosario, al quale nessuno, per un certo rispetto umano, rispondeva. Cogli occhi fermi alla ruota della carrozza, io andavo rimuginando questi brutti casi, che mi lasciavano in un più brutto impiccio, come vedrà chi vorrà. Meno preoccupato, il signor Gaspare, dietro la sua ruota, seguiva con passo alquanto saltellante, quasi scavalcasse delle fascine, girando gli occhi a destra e a sinistra e accompagnando il moto con tentennamenti del capo, che pareva dire: Va bene, va bene. La moglie lo rimproverava d'aver spenta la candela; era un rubare la luce ai defunti e chi di noi vorrebbe esser seguito con un moccolo morto? Ma, si sa, non tempesta a danno di tutti e il vecchio faceva il sordo. Il cavallo nero camminava di buona gamba, sia per ordini ricevuti, sia per non sciupare il passo solenne dei funerali di prima classe, mentre la gente di qua e di là passava, si soffermava, toccava il cappello, o mormorava una riflessione, molti forse compassionando, altri invidiando, altri pensando a nulla, come se il morire sia il mestiere dei disoccupati. Giunti nel quartiere di porta Garibaldi, che per essere più vicino al cimitero ha lo spettacolo continuo dei funerali, divenuto spesso il viavai, il morto si fermò una volta per dare il passo a un carro di botti, e una seconda per non essere fiutato dal cavallo di una vettura colle tendine calate, e un'ultima volta per un battaglione, che attraversava il corso al suono della Stella confidente seguito dalla baraonda di coloro, che dimenano volentieri le spalle dietro una banda. [84] Chi abbia vegliato appena due o tre notti di fila presso un malato e, senza scostarsi dal letto, se l'abbia veduto mancare a oncia a oncia fino all'ultimo, quando torna fra la gente, sente in modo molto confuso di non essere tutto quello di prima; un po' di noi se ne va, credo, col morto, e un po' di lui resta in noi, insieme a quel brivido, che filtra nelle ossa e a quei cerchi giallognoli, che fluttuano nelle pupille. A me pareva infatti che tutto quel chiasso, che aveva intorno, venisse con rumore sordo da un mondo lontano; molto più che un pensiero fisso, peggio d'un chiodo, non lasciava di tormentarmi. Fra i misteri di quaggiù v'è la donna; Lucini era stato ucciso per una donna, e non per nulla io vestiva gli abiti del morto. [85] IV LE ORME DEL MORTO AL CIMITERO dissi alla comitiva che non mi aspettassero quella sera, perché non era prudente dormire nella camera d'un morto; ma la signora Brigida fu presta a offrirmi il letto di Gioconda, che sarebbe restata qualche notte da una sua zia, un buon letto grande ed elastico. Risposi che aveva già data parola al signor Leonardo, il droghiere, e mi sbrigai, lanciando un'occhiata alla Gioconda, che si fece rossa rossa come innanzi al riverbero d'un fornello. Da molto tempo supponevo che la fanciulla avesse una brace sul cuore per me, sebbene Marcello non tirasse tanto alle gonnelle, e osservandola bene, mi pareva che quel suo volto di cacio fresco, circondato da capelli più rossi delle barboline del formentone, non fosse privo d'una certa espressione malinconica, propria d'una donna che peli cipolle. Li lasciai dunque con una buona bugia e presi la mia strada verso la casa del Lucini, dove aveva fissato di arrivare, senza dare nell'occhio. Forse il mio pallore insolito, le mie parole più spicciative e più che tutto quel tabarro col cappelletto verde, lasciarono nell'animo dei signori Tanelli un malcontento indefinibile, una confusione, che non si sapevano spiegare. Voltandomi dopo trenta passi, li ravvisai ancora fermi nel mezzo del viale, colle candele strette nei fazzoletti bianchi, babbo e mamma alle costole di Gioconda, che s'era fatta restia, e che metteva qualche dispettuccio. Se ella piangeva non era certo per pietà di quel sotterra, ma pel modo riciso, onde avevo rifiutato il suo letto elastico, nel quale forse aveva preparato uno stregamento. Cara questa frinfrina! s'è fitta in capo che io bruci per lei, e babbo e mamma, nell'idea di un partito, soffiano sul fuoco; ma quand'è che l'ho degnata d'uno sguardo poetico? chi è che pensa alle barboline di formentone? Marcello, figliuola mia, è foderato doppio ed ora ha tra le mani una matassa sì aggrovigliata, che a trovarne il capo è un miracolo. Lucini abitava una camera presa a pigione per un mese in una casa a mezzo il Corso, dove calano d'ordinario a frotte quegli uccelli di passaggio, che una volta si chiamavano virtuosi e che oggidì fanno senza anche del nome; tenori e prime donne e impresari, che il vento spazza via e porta qui, a seconda della stagione. Giova sapere che un giorno prima di morire, egli mi aveva mandato a cercarvi delle carte e che, premendogli nel peggior caso, che la sua morte restasse nascosta, mi aveva pregato di andarvi verso sera, nel suo [86] mantello e col cappelletto verde, che saltava subito agli occhi, in modo da evitare ogni cicaleggio colla portinaia. Costei, che in quel porto di mare non soleva guardare per la sottile, non conoscendo il Lucini che all'ingrosso, per averlo veduto due o tre volte, mi lasciò passare e ripassare senza scompaginarsi dalla sua poltrona rossa. La scala era libera, il cancello sempre aperto ed essendovi in quella casa due o tre magazzini, pare che la gente si curasse da sé. Come la prima volta, passai franco anche la seconda, anzi meglio, perché la signora Paola, riconosciuto il mio cappello, mi chiamò presso alla gabbia di vetro posta nel vano della scala e mi disse: - Signor Violino, hanno portato questa lettera per lei. Là sotto era abbastanza buio, perché io potessi sembrare un violino, e la sera, che nelle giornate d'inverno non si fa tanto aspettare, dopo quel lungo tragitto fino al cimitero, e una fermatina che feci, per mangiare un boccone, scendeva a tempo a scombuiarmi la fisionomia. - Grazie e buona sera, madama, - dissi, voltando le spalle, e adattando la voce a un accento stretto; salii pian piano le scale, col muso sulla soprascritta, soffermandomi ad ogni pianerottolo, per levar ben bene il disegno della casa. Al primo piano un magazzino di camicie, con tanto d'iscrizione francese sul vetro e una stuoia sulla soglia con scritto Willkommen; in fondo d'ogni pianerottolo, un uscio riusciva in una corte quadrata, circondata tutta all'intorno d'una ringhiera libera, per tre piani, con molti altri usci abbastanza eleganti, specialmente nei fiocchi dei campanelli. All'altezza del primo piano giungeva un'invetriata, coperta da un retino di ferro, una specie di cupola schiacciata, che ricopriva tutta la corte, ridotta a sala di scherma. Sulla ringhiera del secondo piano un pappagallo verde, alzando una gamba dopo l'altra, ripeteva una parola inglese, che aveva l'aria d'una contumelia per chi d'inglese ne sapeva meno di lui. Una voce di donna gorgheggiava le scale sul pianoforte: un vestito di seta, con tre spanne di falpalà, era disteso sopra la sbarra innanzi a una porta, dove aspettavano d'essere introdotti una scopa e un inaffiatoio. Un signore, grasso, col bavero di pelo come il mio, mi passò innanzi, fumando un enorme trabucos; una bionda uscì e sparì; al primo piano tre signore cicalavano in francese, tutte cose importanti, ch'io osservai colla curiosità d'un fanciullo nuovo affatto del mondo. Marcello sognava già avventure, che la mamma e il babbo non dovevano sapere. Entrato nella camera, essendo le griglie socchiuse, mi accostai tentoni alla finestra, le spalancai, per rifare l'aria, spingendo nello [87] stesso tempo l'occhio a sinistra giù giù per la lunghezza del corso fino alla colonna di San Babila, e a destra alla schiena larga e bigia del duomo, di cui vedevo mezzo finestrone e la cupola coll'aguglia, profilata e rarefatta (se si può dirlo) da una nebbiolina, che pugnava ancora cogli ultimi colori del giorno. Sull'angolo di Campo Santo splendeva già una lampada, che spiccava, fra la nebbia d'un lume freddo, vicino al rosso; un lumicino, piccolo come una lucciola, si vedeva avanzarsi, soffermarsi, ridestare altre fiamme, incontro a un'altra lucciola, che veniva in su; anzi una lampada rispondeva già da San Babila e intanto la folla, col solito bollichio, batteva in due correnti contrarie i marciapiedi, lasciando nel mezzo un selciato umidiccio ai carri e alle carrozze. Chiusi i vetri con quell'esclamazione dei provinciali: - È un gran Milano! Stetti un po' sospeso sul da farsi, grattandomi la zucca come smarrito e smemorato, in cerca di quel filo, che mi aveva condotto fin là e che per un momento mi si spezzava in mano. Dopo mezzo minuto una risoluzione era presa, cioè mi chiusi in camera con due giri di chiave, parendomi così di uscire da un brutto pericolo. Viste a spiccare innanzi alla specchiera, posta sul camino, due candele ritte, come sentinelle, presi la seconda risoluzione di accenderne una; dalli, dalli, ci consumai addosso dieci zolfini, perché, essendo una candela vergine, la fiamma non voleva attecchire. Si sparpagliò finalmente un bagliore per la camera, che ricadde subito in una quasi oscurità, perché il lucignolo non voleva lasciarsi mordere, luce e tenebre, che a un poveraccio già timido per natura, avevano un non so che di malauguroso. Tenendo gli occhi fissi a quel barlume, che andava prendendo anima e corpo, al tornare della luce netta, vidi oltre la candela il Lucini, pallido, immobile, che mi guardava, cioè mi rividi nello specchio. Il mio volto quella sera non era men bianco del suo, gli occhi solamente meno vivi e le guancie più fatticcie; egli aveva due baffetti neri, io no; i suoi capelli erano ricciuti e scappavano di sotto al cappelletto verde in una bella zazzera; i miei egualmente neri, ma rasati alla canonica. Forse eccedevo due dita la sua statura, ma se mi rannicchiava un poco nelle spalle, con quella stanchezza e floscezza, che in Lucini pareva natura, la differenza per un occhio distratto era invisibile. Queste attenenze spiegavano meglio l'inganno della portinaia e per rispetto ai baffetti e alla chioma qual è l'uomo, che non possa disporne liberamente? Con un raschio di voce richiamai a sé Marcello, che cominciava a venir meno, e poiché la fortuna mi aveva messo in quel ballo, [88] era meglio ballare con disinvoltura, anzi che cascare sulle gambe, dopo una sacra promessa fatta al buonanima. Lungo la parete di fronte al caminetto (fra la cenere giacevano due legni abbruciacchiati) stava il letto, poi una greppina, coperta di teletta a fiori, colle sponde rivoltate e frastagliate a coda di delfino, in terra un tappeto forse troppo spelacchiato; fra il letto e la greppina un portapanni massiccio, ramoso come una quercia sfrondata e irrigidita; a sinistra dell'uscio un canterano con la bella pietra di marmo e sopra una cappelliera di cartone a righe rosse, un astuccio di violino e un paio di guanti raffrignati; alcune sedie, una poltroncina imbottita presso il camino, e innanzi alla specchiera, sospesa al muro l'orribile morte del conte Ugolino, che coi capelli irti stringendo un ginocchio per la fame, cominciò a pigliarsela con me. In un angolo buio, fra l'uscio e il camino, una cassa lunga, tutta d'un colore, disgustosa a vedersi; fra il camino e la finestra una scrivania, a' piedi del letto due scarpe rivolte verso l'uscio, una pipa sul camino, della musica sopra una sedia, eccetera. Meno il mobilio, il resto apparteneva al povero Lucini; sua quella borsa del tabacco ricamata in perline d'argento, suoi quegli scritti sulla scrivania, sua quella cravatta appiccata alla maniglia della finestra; mi pareva che quelle scarpe lo aspettassero, che quella cassa... non parliamo di quella cassa. Suonarono sei ore, solenni, più che le ore fatali del teatro Commenda e, per canzonare la paura, mi provai a ridere e rideva veramente, mentre sospendeva il mantello a un ramo del portapanni e di sopra il cappelletto, che ricadde colla tesa sopra il bavero, dando così la linea del Lucini, visto di dietro nelle giornate più rigide. Forse aveva sbagliato a venir issofatto quello stesso giorno, con tante memorie fresche, ma vedendo che il tornarmene via avrebbe dato pretesto alla portinaia e ai vicini di arzigogolare sul mio conto, pensai di accendere un po' di fuoco e di rifare il disegno di quell'avventura. Sentendomi alquanto impacciato nelle mani, guardai e vidi la lettera ricevuta poco fa alla porta, e che avevo dimenticato nella confusione della mente, né più né meno che uno dimentica le dita, quando non le adopra. Accesi il fuoco con due querciuoli raccattati in un angolo del camino, e lo schioppettìo delle fiamme mi tenne un po' di compagnia. Ecco la lettera: [89] "Onorevole signor Lucini! Milano, addì 25 gennaio Stante che Ella mi ha scritto che ha dovuto partire per l'improvvisa malattia di suo padre, visto che sono tre giorni che le circostanze non gli permettono di ritornare alla sua obbligazione verso di me, credo opportuno e necessario, in vista della mia presente attualità, d'avvertirla che io a malincuore ho dovuto sostituire un altro violino, che non accettò, se non in quanto io gli prometteva la scritturazione fino a stagione finita. Per il che la sciolgo da ogni legame, sperando che Ella, in vista del danno che la sua assenza mi reca, non vorrà esigere gli arretrati di questo mese. Passando a salutarla, mi dichiaro col massimo rispetto suo devotissimo servo Cav. EMANUELE GANGAMELA". Era l'impresario, al quale io stesso il giorno innanzi, in nome di Lucini, aveva scritto una buona scusa, per impedire ogni seccatura; ma il signor cavaliere non si era perduto di spirito e dolce dolce mi rubava venticinque giorni di stipendio. Non so dire quali rapporti avesse il titolo di cavaliere con queste abitudini. Le gambe distese, le mani in tasca, il capo ritratto nell'abito, tenevo gli occhi fissi nella rosa irradiata dalla fiamma della candela, che si gingillava nello specchio, e così seguitai a rimasticare il perché e il per come io mi trovassi in loco et foco del quondam benedetto. Il Lucini aveva svelato al gentilissimo signor delegato, che nel portafogli, oltre a poche lire, v'era il ritratto di una donna, e la notte prima che morisse, presentendo forse la brutta smorfia, chiamatomi a sé, mi aveva detto: - Signor Marcello, amo questa donna; l'improvvisa notizia della mia morte le sarebbe troppo fatale; mi fido a lei, perché a tempo opportuno le annunci... E dopo un istante ancora: - Signor Marcello, ho di mio un capitale di sette mila lire in libretti di risparmio: li troverà nel mio baule insieme ad altre carte. Non ho parenti al mondo, e quei denari devono pervenire segretamente nelle mani di quella donna: ella sola è l'erede, nessuno però lo sappia... Povera Marina! Cominciò a piangere e, non accorgendosi che io aspettava indicazioni di maggior rilievo, si perdeva in parole vane, in querimonie che laceravano il cuore, pregandomi sempre con lo sguardo tenero e lungo di non tradire le sue raccomandazioni. Il nome di Marina, [90] come se fosse divenuto facile a quelle labbra per l'abitudine di pronunciarlo, consolò l'agonia di quel derelitto. La camera era rischiarata da un lampadino a olio, velato da un cerchio di carta verde e posto in terra dietro la testa del moribondo. La fantasia si aggirava in quell'aria verdognola con l'instabilità di un pipistrello che vola, impaurita dai fantasmi, che si appiattano sotto al letto di chi muore; negli spigoli e dietro i mobili si rannicchiavano ombre angolose popolate di spaventi, e lo scricchiolio di un mobile, che urtava quel silenzio notturno, largo, diffuso fino agli estremi limiti dell'orizzonte, pareva che mi sospingesse a rovescio il corso del sangue. Quella fu la gran notte di Marcello. Alla vista d'un povero figliuolo, che moriva davvero, col nome di una donna sulle labbra, tutte quelle vecchie idee, che da molti anni mi corazzano a guisa di squame contro gli eccessi del bene e del male, si levavano ad una ad una, lasciando a nudo la natura. Nasceva perciò nel mio capo una babele, una sordia, come se una mano vigorosa agitasse un branco di sassolini in una zucca; e nel cuore, in questo cuore alla buona, entravano per la prima volta sentimenti straordinari. Nel genere umano, tanto citato sui libri e sul pulpito e che solevo considerare all'ingrosso, non più che un formicolaio di vivi, esisteva adunque anche la donna? La donna! - ne aveva vedute moltissime in campagna, ravvolte nei loro fazzoletti neri, in ginocchio presso il confessionale, o all'altare della madonna, biascicanti una corona: la signora Brigida e la Gioconda mie vicine, per paura, non osavano accostarsi al letto del morente, ma pregavano certamente per lui. Ecco là mia madre, una donnetta del Signore, un vero tesoro per la famiglia, che non perdeva mai di vista le vigilie d'olio, le mie calze nere, la libbra di cioccolatte pel suo prete, i quarti di luna e le loro influenze sulle uova e sulle galline. La Mariona serviva da trent'anni in casa mia, e non v'era certamente al mondo una persona più sincera; non diceva mai una cosa per un'altra, neppure a' suoi padroni, e così perdute nei tempi e nello spazio ricordavo tante altre buone zie e sorelle, per le quali Marcello chiudeva in petto affezione, riverenza, stima; ma poesia, buon Dio! poesia, no. Perché dunque il nome di Marina quella notte chiamò le lagrime su' miei occhi? donde sbucavano queste imagini color d'aria, che attraversavano le meditazioni di Marcello, nell'atteggiamento di sante e di angeli scappati giù dai loro quadri? Povero Lucini! non aveva conosciuto nessuno dei suoi parenti e a sette anni (così mi raccontava spesso) s'era smarrito girondolone per le vie di Parigi, con un violino e quattro canzonette napoletane, finché raccolto da una brava persona in un conservatorio, e fatto [91] educare, solamente da tre anni aveva finito di pagare le spese del suo benefattore. Viveva del suo lavoro, accettando ogni occasione, risparmiando fin l'aria; ma non aveva altro nome, che gli fosse caro il ricordare, nemmeno quello del suo benefattore, che a conti giusti, aveva guadagnato il trenta o il quaranta per cento sulle spese. Quando, interrompendo una cavatina, si fermava a discorrere del suo passato, un malinconico sorriso gli scorreva a fior di labbro, i suoi occhi illanguidivano, si faceva pochino nelle spalle, pauroso di trovarsi tanto solo nel mondo; allora era necessario che si abbracciasse al suo violino, che ritornasse al lento e al concitato dei tempi, perché la pover'anima riconosceva quella voce e le rispondeva. Si lasciava cadere dietro le note morenti, si rizzava al tornare della voce e gli occhi scintillavano all'incontro d'un accordo prediletto e venivano a illuminare i tuoi, a dirti il segreto di tante belle cose, che esistono nell'universo; tornava il sangue alle sue gote, socchiudeva gli occhi, respirava colle labbra schiuse quell'aria tutta sua, scuoteva i capelli come un re sdegnato, urtava la testa contro gli aggrovigliamenti delle crome, e snodava colla mano sinistra, magra, nervosa, elettrica e se nell'ardore della musica una corda per caso scattava, Lucini impallidiva dello spavento. Questa era l'anima; egli stesso però confessava di sentirsi molto pigro nelle mani, che odiava, specialmente la sinistra. Quando si metteva a leggere una pagina difficile, la rimproverava, la stuzzicava colla voce, la copriva di vituperi, di lodi, di bestemmie napoletane graziosissime. Quelle mani ora sono troppo pigre. Di Marina non aggiunse altro, se non che l'aveva conosciuta a Venezia; ma se le sue carte non cantavano più chiaro, come uscirne? - Eccomi qui! - dissi a voce alta per svegliarmi da quella sonnolenza pensierosa, in cui ricascavo volentieri; ma il capo, volere o no, seguitava a inciampare nei ragnateli. - Cos'è la vita? meno sicura e solida di quelle due scarpe, che aspettano inutilmente. Egli dormì tre giorni fa in quel letto... Voltandomi un po', vidi che il letto era ancora sfatto, colle coltri cascanti, il piumino rivoltato, i guanciali in croce e nel mezzo di quel poltriccio un solco, che pareva lo stampo d'una statua di gesso. Non avrei dormito là sotto, certo certo, e poiché la mia poltroncina mi offriva un buon capezzale, mi pareva migliore starmene quatto, finché il sonno venisse a portarmi via. Ma come dormire? Man mano che il tempo passava - e passava adagio - la camera diventava più tenebrosa e i mobili scricchiolavano di più. A volte vedeva una mano bianca posarsi sulla spalla sinistra e Marcello avrebbe dato la testa, piuttosto che piegarsi a guardare; tal altra un uomo intabarrato [92] mi aspettava in un angolo, con un sacchetto sotto al braccio; ora seguitavo una ruota, che andava da sé per vicoli e straducole e calli e chiassuoli, e vedeva l'ombra saltellante del signor Gaspare, e la Gioconda co' suoi capelli rossi come le barboline del formentone, e il signor Placido, che spennava un pappagallo inglese e Marcello nello zimarrone tané, che, venendomi incontro, mi raccontava una lunga e ingarbugliata storia di Gioconda e di letto elastico. Erano sonnellini brevi, che a dispetto di ogni sentimento succedevano alle fatiche del giorno; ritornava in me con una scossa, ricadeva, e così per un pezzo, finché tra un tintinnamento di campanelli sentii chiaramente: - Signor Lucini! - e un picchio allo stomaco. Giuro che non sognavo in quel momento, sebbene avessi gli occhi tra i peli e come affumicati. [93] V UN LUME ALLA FINESTRA ERA UNA voce carezzevole e flessuosa, che accompagnata dallo squillo del campanello, ripeteva: - Signor Lucini. - Chi è? - domandai, balzando come si fa nel bello della notte, quando si sente scarpicciare per la camera. - Sono la Martina. - Chi? - esclamai a quella desinenza confusa, divenendo pallido strabuffato, e lo specchio ve lo potrebbe dire. - Sono Martina, la donna di servizio. Domani, prima di uscire, lasci la chiave alla portinaia, se vuole che gli rifaccia la camera, se non da cinque o sei giorni - e tilip e telep non intesi altro che il pettegolezzo delle sue pianelle. Addio sonno. Era proprio necessario che io mi occupassi in qualche faccenda, per non morire attrappito dal freddo e dalla paura, onde, accesa anche la seconda candela e collocatele entrambe più presso allo specchio, al lume delle quattro fiamme, cominciai a ricoprire il letto col suo piumino e col tappeto, poi accostai la greppina di due passi verso il camino, e cacciai sotto al letto quelle scarpe, che borbottarono alla loro maniera. "Se costei domattina non mi riconosce più e mette in sospetto i vicini, ecco un bell'imbroglio" andava ripetendo fra me stesso, mentre toglieva dalla cappelliera un bel cappello a cilindro, nuovo di trinca, e un paio di guanti color burro fresco; trovai anche un ombrello di seta, che deposi, una cosa presso l'altra, sopra una sedia, come se il Lucini dovesse ripassare con comodo a prenderle. Ma il guaio era la cassa, alla quale non osava tampoco avvicinarmi per quella, non saprei come chiamarla, riverenza o preoccupazione e che in fondo in fondo deve essere semplice paura e null'altro; ma finalmente, fattomi coraggio, provai a sollevarla da un lato. Era tanto lunga e distesa, che colle due braccia aperte non arrivava a stringerla, e poiché voleva esser tirata per un'orecchia, presa la maniglia, bel bello, per non svegliare quei di sotto, la strascicai sul pavimento fin sotto il camino. Quando fui per aprirla, il diavolo, che entra un po' sempre nei nostri pensieri, mi richiamò certi casi, letti sui giornali, di gente imballata morta nella crusca; ma fu la storia di un momento, e di un segno di croce. Sollevato il coperchio, in modo che poggiasse sulla greppina, cominciai a cavarne la roba, capo per capo e a disporla come per una fiera un po' sul [94] divano, un po' sulla poltrona, sul letto, per terra, sotto ascella, palpando ogni tasca, agitando ogni manica e ogni gamba, quasi volessi ritrovarvi dentro il padrone. Tre belle camicie di lino, colla petturina ripicchiata a pieghe, molt'altra biancheria, molti solini e polsini e calzerotti e calzette di filo color carnicino, una gabbanella comune di fatica, una giubba lunga di panno fino con falde, un paio di borzacchini di panno bigio con bottoni d'osso bianco, e poi spazzole, saponette, astucci di farine odorose, fiale d'essenza, uno specchietto, un cannocchiale da teatro, uno stereoscopio per fotografie, tutto ben ripiegato o collocato con diligenza quasi femminile, e avvolto in un profumo di mandorlo. Sotto sotto una cartella di cuoio, serrata a chiavetta, che io, indovinando il morto, deposi pel momento sulla scrivania. Anche il violino uscì dal suo astuccio e raggirandolo per le mani, pensai che avrei fatto bene a comperarmelo in memoria del maestro, riservando di pagarlo a tempo opportuno alla mia ignota creditrice, quando avessi il piacere di fare la sua conoscenza. Però volli che l'istrumento imparasse subito a conoscermi e sedutomi sopra la coda d'un delfino, che fa sponda al divano, tentai, pensando all'antico Arione, qualche corda qua e là; ma lo strumento guaiva, temendo che lo scorticassi e solamente dopo molte prove, trovato il verso, riprodussi abbastanza bene tutta una scala. Conosceva quella voce. Egli soleva farlo piangere così, quando se lo teneva tra le braccia o caldo sul petto, ninnandolo cogli occhi socchiusi, come se addormentasse un suo fantolino. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Doo, mii, sool, sol, fa, mi, re, doo... Queste note lunghe tutto l'arco, si querelavano sotto la volta della camera, chiamavano qualcuno, scuotevano le fiamme delle candele, facevano rotolare nella cenere scheggie e scattare scintille, scorrevano come spiriti dentro e sotto a quel mucchio di pieghe e di roba con tanta evidenza, ch'io guardai nella pancia dell'istrumento, se mai vi fosse rannicchiata un'anima. Sentiva crescermi le lagrime agli occhi, come la notte stessa che l'amico moriva col nome di una donna sulla bocca. Nello stereoscopio v'era appunto una veduta di Venezia, credo di una parte del Canal Grande; a destra e a sinistra sorgevano molte case e molti palazzi, ornati, bizzarri, con gradinate, che riuscivano a fior d'acqua, senza dubbio una parte di Venezia molto cara al defunto. Che Marina abitasse uno di quei palazzi? una, due, quattro, [95] cinque case a destra, sette a sinistra, degne tutte di una contessa, un bel ponte sullo sfondo, sotto molte gondole, più in là un campanile e una cupola fra due comignoli, poi il canale svoltava. Le finestre sono forse più di sessanta, ma fra tutte una sola farebbe al mio caso, una che si schiuse certamente molte volte al suono del mio violino, quando, nel pieno della notte, una gondola nera rasentava i palazzi, e si spandevano sommessamente le note di una barcarola. Marina riconoscerebbe quella voce anche nel mezzo del deserto, e se io avessi una gondola... Abbassai il riverbero dello stereoscopio e sulle case scese la notte; ma il sole spunta di nuovo a poco a poco sui palazzi, sui balconi, sulle tende, sui fiori, sui davanzali, sul ponte, sulla laguna; poi di nuovo ricade la sera. È l'ora dei dolci susurri, delle care penombre, e Marcello vagola con piacere in quell'aria molle, giuocherella colle dita, crea, distrugge. Ma a un tratto mi parve di vedere un lume brillare in una di quelle finestre; è notte fatta, e un lume rompe davvero quella tenebra, nera come l'inchiostro; è un lume piccino, ma che passa per una punta di spillo ed entra e si diffonde teneramente dintorno. La terza finestra d'un secondo piano (quella che il Lucini amava di più) è, come dico, punzecchiata da uno spillo, e Marcello, che ha sempre camminato in scarpe grosse, prova un turbamento inesplicabile. Per accertarmi esamino la cartina al rovescio, tocco col dito l'increspamento dello spiraglio, poi la tolgo via, ripulisco le lenti col fazzoletto, spolvero il cosmorama, porto le due candele sulla scrivania più bassa e più comoda e sto per tornare sulla laguna a godermi la festa di quell'illuminazione. Ma chi ha la testa in certi momenti? la veduta l'ho deposta sconsideratamente qui, là, non so più; fra lo scompiglio di quel ghetto sparirebbe un bastimento e palpo, e frugo, e guardo, mi stizzisco, mi darei alle streghe, finché mi vien tra le mani la gabbanella, e vedo da una tasca spuntare il lembo della cartina. Come ve l'abbia messa non mi ricordo, però senza guardarla oltre, la ripongo al suo posto, abbasso il riverbero, e appoggio i gomiti al balaustro della scrivania. Buio a destra, buio a sinistra, ma il lume, dov'è il lume? nel rovescio tutto è liscio e solido come il marmo, e Marcello, che rivede sulla sponda del camino il Canal Grande e i suoi palazzi, sente ora d'aver tra le mani qualche cosa di nuovo e sotto le carezze di quella magia il cuore trabalza ancor più forte. Vediamo. A poco a poco la luce si diffonde; tutto è silenzio intorno a me, come il giorno che il buon Dio traeva la costola ad Adamo e che il mondo, curioso, stava aspettando la donna. Marcello, [96] che confusamente se la sente dintorno, dimentica quasi di vivere, e voi gli potreste levare le calze, senza ch'egli se ne dia. Marcello ride, soltanto per sé, d'un'ilarità che vien dal cuore alla gola e va dalla gola al cuore. Eccola. Una donna quasi viva, distaccata com'è, in forza delle lenti del suo sfondo ed isolata fra tanta luce in un'atmosfera bianca. È ritta con la mezza persona, e il resto svanisce in una sfumatura. Le spalle sottili molto, il braccio destro riposa sul grembo e ha fra le dita un ventaglio. L'abito quasi nero, con increspature davanti e due file di bottoni; la vita sottilissima, chiusa stretta nell'abito, che la segue morbidamente dappertutto, fino all'orlo del collo, donde si rovescia una grandiglia di pizzo bianco, che ribatte il suo candore sul volto. Mi guarda e si muove sotto la luce tremolante delle candele; mi ricorda un non so che d'alabastrino da me veduto non saprei né il dove, né il quando; è modesta, ma guarda in faccia con franchezza; i capelli, più disfatti che fatti, stretti a mezzo da un nastro invisibile, scappano di qua e di là in molti ghirigori e scendono in due treccie sulle spalle. Il nome di Marina, scritto in un carattere sottile e quasi vergognoso, appariva ai piedi di un ritratto, dal quale pareva preso più tardi il secondo, che nei stereoscopi fa di riscontro. Forse ve n'erano sparsi molti altri, se il Lucini trovava bello il popolare di quelle imagini l'aria dintorno, e a quella vista io sentii ritornare una curiosità quasi nervosa di conoscere del tutto una storia, che mi oscillava nebbiosamente davanti. Calcolato a quattrocento lire circa l'ammontare di quella roba e fattane una nota, rinserrai tutto quanto nella cassa, non più con paura, ma con una vivacità di spirito, che non aveva mai provato, neppure nei giorni di baldoria. Che so io? sentiva un bisogno strano di allargare le braccia, di stringere l'aria, di cambiar posto alle sedie, di far delle domande al conte Ugolino, che, poveretto, aveva ben altro per la testa. Quando riapersi gli occhi da una specie di sonno, che verso la mattina mi aveva rinfrescata l'anima e il corpo, entrava già un filo di luce nella stanza. Non volendo essere sorpreso da Martina, uscii col proposito di andare in cerca d'una camera, più segreta, ove potessi alla libera eseguire la volontà del povero morto; ai signori Tanelli dunque un bell'addio. Che gente questa qui! che mondo in quella corte livida e sgocciolante! Lasciai la chiave alla signora Paola, che si agitava già nella sua gabbia di vetro, e uscii a respirare un po' d'aria gelata. La giornata s'era messa un cappuccione di nuvole grigie, che parevano imbottite di neve e cominciò difatti a cadere in righe traverse e taglienti. [97] VI DA UN MONDO ALL'ALTRO MI PAREVA di giungere allora allora a Milano da un lontano paese dell'oriente e che la città, divenuta a un tratto squallida e deserta, mi stringesse come in una prigione. Tuttavia dentro di me mi sentivo bene, e, senza una chiara ragione, molto allegro, e andava dicendo che una mano ignota aveva versato dell'olio nella lampada della mia vita. Provavo insomma, se è lecito indovinare, quel piacere proprio delle biscie, quando lasciano la pelle vecchia e raggrinzata sulla strada, e belle nuove si scaldano al sole. Entrai, per far tardi, nel caffè Madera e sorbillando qualche cosa di caldo col rhum, che ce n'era bisogno, scrissi intanto la lettera al signor cavaliere impresario, nella quale dichiarava più che oneste le sue ragioni e gli annunciava la mia partenza improvvisa per la morte di mio padre. Salutai il signor Lucini nello specchio di contro e uscii sotto il suo ombrello, mentre fioccava alla più bella. La mia porta al numero ventitré mi parve invecchiata anch'essa, non meno che se io la rivedessi dopo trenta anni, e il cortile una catacomba. Tornandovi sentivo quel tedio che si prova, supponiamo, svegliandosi colla cena fredda sullo stomaco nel mezzo d'un sogno grandioso, quando si è lì lì per diventare re di Spagna o arcivescovo. Il signor Placido, con un moccolo acceso in mano, si moveva dietro i vetri affumicati, chinandosi spesso, sparendo dalla faccia della terra, per ricomparire poi con la sua grinta più rannuvolata. Era sabato, giorno di baccano all'osteria, dove convenivano una volta la settimana certi mediatori di grano e di bestiame cogli affittaiuoli a strillare, a strapparsi i bottoni per un quattrino, con papaline di maglia fin sopra le orecchie, tabarroni legati con catene di ferro, e bastoni bernoccoluti. Quando entrai nel cortile, già coperto da una lanuggine bianca, e più vivamente illuminato dall'andare e venire di quel moccolo dietro i vetri, una voce stridula strepitava a proposito di una vitella, candida come un giglio, - ve ne sono ancora dei poeti - mentre invece una voce burbera e cavernosa, che faceva pensare a un uomo materiale e grasso, seguitava a dire che la bestia era tutta pelle. Doro che attraversava il cortile con un cesto di carbone sulle spalle, zufolando, mi guardò tra il chiaro e il fosco,e, riconosciutomi, mi lasciò scantonare nella scaletta per gridare a una finestra bassa [98] della cantina: - Ernesto, il padre Lumaca è tornato e ha la piuma nel cappello. Non si accorgeva il balordo che gli teneva gli occhi addosso da una specie di feritoia del primo piano; intesi anche il rimbombo d'una voce che, uscendo dalle viscere della terra, diceva: - Chiama la gattina rossa! - Questo, lo sapeva da un pezzo, era il soprannome che le birbe davano alla Gioconda. Dunque avevo avuto bisogno di morire un po' per conoscere quel che di me pensasse la gente, e vi assicuro che sulle prime quel trovarmi cambiato in padre Lumaca mi fé balzare la senape al naso; ma pazienza se tutto finiva qui. Forse i parenti di Gioconda avevano spampanato un po' per ambizione, un po' per malizia, quell'amore, che la figliola chiudeva in cuore pel padre Lumaca, e già sentiva nell'aria una pettegolata sul mio zimarrone; la signora Medaglia, la quale dorme sotto la camera di Gioconda, scommetto che l'aveva già veduto in uno specchio, perché l'amore, si sa, è come la tosse e non lo si può nascondere nemmeno quando si dorme. Eh! eh! la Gioconda tramestava tutta la notte - scommetto che diceva così. Potrei dirvi a caso parola per parola anche le opinioni della Rosa stiratrice, una magruzza, che si consumava sui fatti altrui, come la cera sul ferro caldo, e se Doro e il signor Manganelli, poco occupato d'inverno, per riscaldarsi soffiavano sotto la pentola, Marcello stavolta era in croce. Risoluto d'andarmene ad ogni costo, suonai il campanello, tenendo l'occhio sul cartellino, che diceva: Gaspare Tanelli, sarto da uomo, e sogguardando con pena l'uscio del signor ragioniere, a destra. Le mie padrone lavoravano in rammendare e arricciare camici e cotte da sagristia e ogni mattina per tempo solevano visitare le loro chiese, prima per divozione e anche per essere, come si dice, alla giornata dell'articolo; perciò speravo di trovare soltanto il sarto da uomo col quale mi sarei sbrigato, senza tante querimonie. Ma fu la signora Brigida che mi aprì, tenendo in mano un cucchiaio orlato di polvere di caffè; mi accolse con gioia schietta e mi fece passare in un salotto grande, che serviva per le visite, per bottega e per camera nuziale, un bel stanzone con due finestre, una tavola di noce nel mezzo, con cinque o sei sedie intorno, cariche di ceste e di arredi incartocciati nell'amido; molti figurini di Parigi impastati sul muro e punzecchiati dalle mosche e in giro sulle quattro pareti l'intera storia di Guglielmo Tell, a colori rossi, verdi, e azzurri, e colla relativa spiegazione in francese e in spagnuolo. Il signor Gaspare a chi gli pagava il conto senza tirare regalava la spiegazione dei fatti del grand'eroe, specialmente quando con una [99] freccia trafigge il pomo sulla testa del son enfant. La parolina francese era scritta sul quadro, ed egli col dito teso segnava senza sbagliare e il pomo e il balivo sul suo trono all'ombra d'un fico e l'enfant cogli occhi bendati; ma se lo pagavano male rispondeva secco secco ch'era una leggenda favolosa e senza saperlo si trovava d'accordo cogli eruditi. Il sarto da uomo stava piluccando una marsina sotto la finestra, e aspettava che si scaldasse un ferro per darvi l'ultima mano; la Gioconda comparve sull'uscio d'una cameretta vicina, vestita di un abito di cotone, flaccido e sbrendolato, tirato su in due goffi nella guaina del grembiale, scapigliata come un'ossessa, o per dirla un po' come va, in un seducente disordine. Arrossì e si confuse al primo vedermi, ma seguendo forse le istruzioni materne, si avanzò baldanzosa, stendendo le palme e inchinandosi con galanteria: - Che ne dice, signor Marcello, del mio disabiglié? - Che devo dire? - rispose Marcello, che in fatto di galanteria arrivava sempre con le gruccie. - Sono venuto per avvertirli che la mia camera d'oggi in avanti è in libertà, perché mio padre m'ha scritto che ha trovato per me una buona fattoria in campagna e vuol che ritorni subito. In fatto di bugie non aveva studiato per nulla il latino e la signora Brigida e il suo sarto, che mi avevano prudentemente voltate le spalle, a quelle mie parole si voltarono insieme. - Che, che? Gaspare, hai sentito? - disse la madre, lasciando di curare un pentolino di latte sul fornello, e il signor Gaspare, che aveva capito l'antifona, tornò alla sua marsina, brontolando: - Hai sentito? - Ma perché ci vuol lasciare, caro signor Marcello? - disse la madre con voce affettuosa per insegnare alla figliuola come si deve fare. - Papà ha scritto al signor Leonardo, ed è necessario.... Uno scoppio di pianto interruppe queste parole. Era la figlia che piangeva e che, nascondendo il viso nel grembiale, camminava verso la sua camera. - Ecco! - dissero i due vecchi e mi voltarono di nuovo le spalle, lasciandomi solo nel mezzo del salotto. Se le lagrime di Gioconda erano sincere, quantunque non a mio favore, pure non poteva negare a me stesso che il momento era pericoloso, e che potevano nascere molte complicazioni fatali per tutti. Colto all'improvviso, sotto il flusso di quelle lagrime, superbo da un lato di essere un "caro oggetto", e d'altra parte indifferente e materiale come il mediatore dell'osteria, Marcello comprese che una parola in fallo poteva [100] comprometterlo per tutta la vita. Preferii mostrarmi uno scorzone, un pollo freddo, incapace assolutamente d'una vera affezione di cuore, un vero padre Lumaca. - Mi rincresce che io, senza volerlo, sia la causa di un dolore, che, diciamolo pure, mi lusinga, ma che per circostanze eterogenee io sento di non meritarne. Mio padre vuole la mia felicità, e se loro si mettono nei miei panni... Questa frase, tanto vecchia, mi ricordò che io non era ne' miei panni e non mai come in quel momento io perdetti la coscienza di me stesso. Mi balenava ancora negli occhi l'immagine di Marina, e quei singhiozzi, sebbene mi istizzissero, pareva che mi accusassero di crudeltà e di ipocrisia. Ero confuso, umiliato, incerto fra questi due personaggi che si trovavano ne' miei panni; ma fu il tempo d'un Jesus, perché le trappolerie dei signori Tanelli, e la commedia rappresentata testé dalla gattina rossa, e le chiacchiere dei vicini e più che tutto l'imminenza del pericolo, mi consigliarono a star sulle generali e a fare lo stordito. - Gaspare, cosa ti diceva ieri sera? - E io cosa ti diceva? - replicava quel maligno. - Tutti eguali, santi e non santi. Ma senta, signor Marcello, ella ha tempo di mangiare il pane restituito. - Va' a fidarti dei preti - brontolò il vecchio. - Quando ella aveva di queste intenzioni - disse la signora Brigida, alzando la voce e camminandomi quasi sui piedi - quando voleva tradire una povera ragazza... - Io? - dissi, segnandomi colle due mani aperte. - Lei, lei, o che mi fa il sordo? - Ma le giuro. - Non giuri niente, non strazi il cuore d'una povera madre. - Anche la signora Brigida cominciava a piangere, quando s'intese nella stanza vicina: - No, mamma: ahimè! o madonna! io muoio. La frinfrina era caduta in deliquio: la mamma corse, frugò nell'armadio, sparì, lanciandomi un'occhiata; il latte strillava intanto sulla cenere, e il sarto da uomo mi girava intorno, ninnandosi, come chi sta per mettersi in ispalla un sacco e non sa da che parte pigliarlo. [101] VII LA VOCE DI UNA DONNA IL SIGNOR Leonardo droghiere, venuto a Milano nel '54, aveva la sua bottega nelle vicinanze di porta Vigentina, quartiere un po' solitario, che conserva ancora un'idea di borgo, e posto quasi sulla strada delle più grosse possessioni dei nostri affittaiuoli. Sei dì la settimana il commercio del signor Leonardo era scarso, sebbene perenne come l'acqua d'un buon fontanino; ma al sabato, quando passano le carrozze dei ricchi campagnuoli, col loro villano a cassetta, in cravatta bianca, col cappello a nappa e le mani sporche, al sabato nessuno può fare i conti di quel che il signor Leonardo guadagni sullo zuccaro, caffè e altri generi. La bottega ha una meschina apparenza, un po' all'antica, ma non importa: dalla inferriata del voltino pendono le candele di legno, che hanno fatto lume a una dozzina di padroni, e la mostra sembra un confessionale messo là sul passaggio. In questa vetrina c'è un po' di tutto: un vaso di biscotti sempre freschi, per gli ammalati; due vasi di confetti e di caramelle per la tosse; un altro pieno di stecchi; due pacchi di candele steariche, sospese in bilico ai lati d'un pane di zuccaro; scatolette di colori ordinari per i fanciulli; candelette per altarini, liquirizia in legno e in pasta, per tirare i fanciulli che passano; lamine trasparenti di colla di pesce, attraverso le quali il signor Leonardo può vedere il mondo a scacchi rossi, verdi e gialli; fiaschi impagliati, caffè di ghiande e mosche morte. La bottega non è più grande d'una diligenza: una panchina presso l'uscio per gli amici, tre botticelli sopra un trespolo, fasci e rotoli di cordame raggruppati negli angoli, o pendenti come lasagne insieme alle torcie a vento del soffitto; sacchi di caffè, di zuccaro, e risme di carta greggia a mucchio; casse vuote, tirate in piedi, assicelle sopra mensole, ingombre di barattoli, di cartocci, di scatole, di bottacci, di imbuti; il banco, una piccola madia, un leggío sotto la finestra, un barile di turaccioli e cento altre cianfrusaglie lasciano appena un viottolo al padrone, che per passare fra il barile e il banco deve alzarsi sulla punta dei piedi e stringer il ventre. L'odore che predomina è quel misto, che risulta dallo zafferano e dall'aceto: però una volta la settimana si tosta il caffè e allora si spande per tutto il corso un soave profumo. Il signor Verga, ombrellaio, cioè quel mio vicino del secondo piano, che ha la bottega a dieci passi dalla drogheria, in quest'occasione fa una visita al caro [102] signor Leonardo, che in pantofole, e in calotta, gira solennemente il tostino. L'ombrellaio viene ad assorbire un po' di quel profumo poetico, a far quattro chiacchiere, a leggere i foglietti stampati che il signor Leonardo compera a caso dai librai per uso del lucido e dei generi comuni, o a dargli una mano, se il droghiere sia costretto a troncare a mezzo la cottura. Il caffè va abbronzato tutto eguale, perché se la grana è zoppa, prende il sapore d'acqua di mare. Qualche volta vien terzo anche il barbiere dirimpetto, che abita una stanzuccia tappezzata, nella quale filtra l'acqua della via: da due mesi il Lella dovrebbe riparare un vetro rotto, ma se può uscire dall'inverno senza metter mano alla spesa, non sarebbero tanti risparmiati? Perciò viene volentieri a scaldarsi le mani sul fornello del caffè o in bottega del droghiere, da dove con le sue mani in tasca e col naso e le labbra schiacciate sul vetro dell'uscio, può da lontano sorvegliare i propri affari. Lella è un povero diavolo, che raccomando a chi passa di là. Egli passeggia molto innanzi alla sua bottega per non rimanere esposto all'aria fissa del vetro rotto e per sentir meno il freddo, che gli gela l'acqua nei bricchi e nelle catinelle. Da due anni veste certi calzoni attaccati alla pelle, strofinati sulle ginocchia, e ripicchiati di dietro, fin dove dovrebbe, per un certo riguardo, giungere la giacchetta color mattone, anch'essa stretta sotto le ascelle, lucida, anzi brunita sul bavero e agli orli delle maniche, con certe striscie di sapone, che segnano il posto della pipa e dei bottoni e che scendono fin sopra le tasche dei calzoni e sui polpacci che egli gratta volentieri. Si parla in compagnia di varie cose: o della bracina giù in fondo, che sposa un negoziante di legnami: o della Russia che si muove, e della Russia che non si muove. I topi sono la disperazione del signor Leonardo: rosicchiano i sacchetti di carta dello zuccaro grasso e quando fa per levarli, plaf! - come quello che prese la gallina per la coda e gli restarono le penne. Il signor Verga, che qualche volta aiuta l'amico a involgere i cioccolatini nelle carte di prima, di seconda e di terza qualità, ha preso a cuore i topi del signor Leonardo e promette, parola d'onore, che in meno d'una settimana li metterà a dovere con una certa trappola a equilibrio, di sua invenzione, stata lodata anche da un ingegnere. Il droghiere per riconoscenza offre quattro cioccolatini all'ombrellaio, sapendo che sono il suo tallone d'Achille e che non vi rinuncierà neppure in paradiso. Lella fa la questione se vi saranno topi in paradiso e si ride con [103] un certo gusto di miscredenza, che fa sembrare più bello il signor Leonardo, il quale da un pezzo non crede più né ai preti, né ai frati. Un giorno, di parola in parola, si venne a parlare di me, e l'ombrellaio, che mi conosceva un poco di vista, disse che la mia era stata una brutta disgrazia e che non dovevo trovarmi troppo caldo sotto la neve del camposanto. Egli parlava naturalmente, e credendo, per dirla con lui, di portare nottole ad Atene, supponeva che il signor Leonardo sapesse della mia morte già fin "dalle calende greche". L'ombrellaio, tornando a casa soltanto a dormire e colla testa preoccupata, aveva inteso parlare di colpi assassini, di amori fra Marcello e Gioconda, di morto e funerale ed era venuto a una conclusione alquanto inesatta. Il povero droghiere, che stentava a capire, - Giusto! - esclamò - che n'è avvenuto di Marcello? - È morto. - Oh! - Il droghiere voltò le spalle e collocò al suo posto il vaso del pepe rotto. - Morto, le dico, morto e sepolto da tre giorni. - Ma che! - Il droghiere sparì dietro il banco per ripicchiare un chiodo, che gli aveva graffiato la pelle. A un tratto si ricordò che sotto la banchina vi doveva essere un fagotto in un fazzoletto turchino, portato due giorni prima da una donna come roba del signor Marcello. Il droghiere, occupato in quel giorno, non ci aveva pensato più che tanto; ma ora lo tirò di sotto, lo sgruppò e lo sciolse per terra, mentre l'ombrellaio narrava, con una mano sulla coscienza, quel che aveva udito nella corte. Marcello doveva sposare la Gioconda, ma una donna gelosa, certo una donna di perduti costumi, che credeva prendere il merlotto alla rete, aveva pagato perché mi picchiassero tra il chiaro e il fosco in via delle Tanaglie. Forse picchiarono troppo, perché Marcello ne morì: la Gioconda era in agonia, malata di crepacuore; i Tanelli disperati, e il fatto grave, ma grave assai. Lella non pareva disposto a credere, per la ragione che mi aveva tagliati i capelli la settimana prima; ma il signor Leonardo, vedendo e palpando il mio zimarrone tané, le mie calze lunghe e nere, i miei libri latini e il resto della biancheria, che la signora Brigida, per dispetto, gli aveva mandato alla rinfusa, guardò stupefatto a vicenda il Lella e il Verga. Ma l'ombrellaio che, giovandosi della comodità, aveva preso e masticava due cioccolatini per volta, tacque e si rannicchiò nel bavero come dicesse: Quel che Dio vuole. Quella sera il droghiere fu dai Tanelli, trovò infatti la Gioconda [104] malata, ma quando udì le parole amare della signora Brigida, cominciò a cascare dalle nuvole. Raccolse la sua barba nera nella destra e parve riflettere. Il caso era diverso, ma più grave. Le lagrime di una madre, il pallore di Gioconda, i sospiri del sarto da uomo mi accusavano troppo apertamente. Dov'era Marcello? mistero: travestito e fuggito. Chi era questo morto, questo suonatore di violino? a che punto erano arrivate le mie indiscrezioni colla Gioconda? Comunque fosse la cosa, egli avrebbe scritto una lettera di fuoco a mio padre, perché m'insegnasse la legge. La signora Brigida pare che cercasse versare dell'acqua su quel fuoco e pregasse di mettere ogni cosa sotto un piede; ma il signor droghiere, che si sentiva una certa responsabilità, fu inesorabile e scrisse e mandò una lettera di fuoco profumata di zafferano d'Aquila. Marcello fra tanti raggiri, fatto giuramento di non tornare più vivo, si chiuse nella camera del povero Lucini, non uscendo che la sera tardi per un po' di desinare e la mattina di buon'ora per non incontrarsi colla Martina. Ma presto parve tolto anche il pericolo d'essere preso in mala parte da questa buona donna, la quale, incontratomi una sera sulle scale, tutto imbacuccato in una sciarpa di lana, mi compassionò sapendo che a Napoli il clima è un altro paio di maniche. Fatto sicuro in quella casa tornai al pensiero di Marina. Il nome di questa donna pareva divenuto già abituale alla mia mente, perché anche quando, distratto da altre noie, non vi pensava direttamente, io lo sentiva in modo confuso presente a me, come quel rosicchio dei denti, che non vi lascia mai anche nel sonno, e che si soffre, dirò, quasi di seconda mano. La storia di Marina mi era nota, avendo frugato nelle carte del defunto: aveva letto molti scritti, e comprendeva la pena, onde era stato sorpreso il moribondo al pensiero di lei. Tornando quella mattina indietro dai Tanelli, con una voglia rabbiosa di strozzare serpenti, trovai confitta in un traversino della portineria una lettera, di carta sottile, scritta a caratteri minuti e col bollo postale di Venezia. Era diretta a me, cioè al Lucini, che fa lo stesso. La presi con mano tremante e salii pian piano i gradini della scala, soffermandomi a prendere il fiato: un'ambascia, un contento misterioso, una specie di paura, una curiosità immensa, un desiderio d'amore, una pietà profonda confluivano rapidamente e si raggruppavano intorno al cuore. Mi lasciai cadere sul letto stanco e sfiaccolato, colla lettera fra le dita, gli occhi fissi al nome di Giorgio Lucini, e non sapeva distinguere chi veramente soffrisse in me, se io o lui. [105] VIII UNA DONNA FRA LE CARTE OLTRE ad alcune memorie aveva trovato dieci o dodici lettere di Marina, scritte da Venezia, per le quali mi fu possibile, aiutandomi con la filosofia studiata in seminario, di radunare i frammenti di quella storia, che conoscevo soltanto a spizzico. Giorgio Linucci, che per prudenza aveva finto a Milano il nome di Lucini, da Napoli era giunto a Venezia sul principio dell'estate, per prender parte a una rappresentazione straordinaria, durante la stagione dei bagni. Aveva tolta a pigione una camera in casa d'un vecchio solitario, il quale viveva, a quel che pare, di una scarsa pensione, che il marito di sua figlia gli pagava di volta in volta. Costui era un ricco banchiere o industriale, e non risulta troppo chiaro dalle lettere, ma è certo che per età e per indole non rispondeva né alla giovinezza, né alla bellezza, né all'educazione fina della fanciulla. Si parla infatti qua e là e in modo assai confuso d'una gran colpa, commessa dal vecchio solitario, per la quale Marina scontava una pena inesorabile senza troppo maledire e senza rassegnazione. Ella scrive in un punto d'una lettera: "Appena mio padre mi confessò l'abisso in cui era caduto per la sua sregolatezza, io mi vidi perduta: si trattava non solo della sua vita, ma dell'onor mio e di quello di tutta la nostra famiglia. Un uomo solo, costui, poteva salvarlo tacendo e io lo pregai, come potete pensare, con tutto quel fervore, che si prega Dio nei momenti supremi. Ebbe pietà di me: gli parvi buona, gentile, forse bella. Disse che egli era disposto a tacere, a distruggere le prove della colpa, non solo, ma voleva farmi regina di quel suo palazzo, già abitato da una famiglia di dogi. Così divenni sua moglie". Questo gran segreto raggirato, rasentato da molte parole si supponeva però noto abbastanza a chi legge e il Lucini poteva averlo udito da Marina. Era un delitto che ella, innocente, espiava? era un raggiro di cui il lugubre personaggio, che si rannicchia in un palazzo di dogi, raccoglieva il premio? Il campo delle supposizioni è tanto fertile che ogni erba vi mette radice, talché riunendo questi [106] antecedenti al modo della morte del povero Lucini, non oso dire così subito quel che ne pensassi. Marina, visitando suo padre in quella povera casa, dove la grettezza di suo marito l'aveva ridotto, vi conobbe il Linucci, arrivato di fresco e che dopo due o tre giorni godeva già la simpatia del vecchio solitario. Nessuno più di lui conosceva l'arte di piacere alla prima e quando ripenso alla facilità colla quale anch'io, per natura difficile e sospettoso, fui preso alle sue maniere, non mi meraviglio che la donna cominciasse subito e per la prima a temerlo. Parlando col Lucini (seguito a chiamarlo così) ognuno s'accorgeva d'essere da meno, non per dottrina, ma per una certa sapienza e misura della vita, per una conoscenza speciale degli uomini e delle cose, ingentilita dall'arte, che anche i più dotti devono, se vogliono, impararla coi libri chiusi. Può darsi che le note del suo violino, giungendo dalla camera vicina, mentre la figliuola sedeva presso suo padre, scendessero, come per incanto, a carezzarle il cuore, che già da due anni lusingavasi d'essere morto. "In casa di mio padre io potevo piangere senza che le mie lagrime fossero contate. Abbandonai tutte le amiche, perché non conveniva ch'io mi esponessi al pericolo d'invidiarle. Dicevano che delusa in una grande speranza, aveva accettata la prima occasione; altre si ricordavano non so quali inclinazioni ambiziose, non so quale mia tendenza al fasto e alla ricchezza fin dalla infanzia, e tutte mi giudicavano un po' severamente. Poiché la vera cagione del mio sacrificio, che voi sapete, doveva restare nascosta per sempre, favorivo con gaia spensieratezza questi giudizi, che mi facevano torto". Qui si comprende meglio il cuore del Lucini e lo scopo, cui era destinato quel poco della sua eredità. "Voi siete buono, Giorgio, e volete venire in soccorso di mio padre con que' risparmi, che bastano a stento per voi. Mi parlate di rendergli la sua indipendenza, perché dalla sua sorte dipende in gran parte la mia; ma l'abisso che intendete ricolmare non ha fondo. Una maggiore agiatezza gli sarebbe oggidì più funesta, perché, dopo tanti dolori, egli è divenuto intemperante nell'uso del denaro". Verso la fine di novembre scriveva: [107] "Volete ch'io vi narri come a un fratello quanto soffro giorno per giorno, perché dite che per guarire i propri dolori, bisogna parlarne. È vero, quando si discorre molto di sé, sembra che i nostri mali appartengano ad altri. Io non posso dir male di mio marito. È gentile, attento, ossequioso verso di me, e vuole ch'io sia padrona della sua volontà. Di nascosto mi sorveglia, ma vivo tanto sola che la sua sorveglianza è alla fine contemplazione di me. Mio marito ha momenti di estasi, nei quali gli sembro troppo austera ed avara. Ieri mi ha regalato un altro braccialetto d'oro, ed è peccato che sia simbolo di schiavitù, perché è di lavoro finissimo. Sebbene per vecchia abitudine egli fumi tabacco turco ed abbia lo studio tappezzato di pipe, innanzi a me è rispettoso fino allo scrupolo. Ama i costumi inglesi, e quel fazzoletto giallo che si cinge al collo, voi lo sapete, l'ha preso di là. Mi chiede il permesso di starsene vestito da camera, in babbuccie, specialmente nei giorni piovosi. È innamorato di me e nel presente amore rinascono nel suo cuore i rimorsi, d'una vita sciupata in altri tempi e pensa riparare molte offese e molti debiti verso il prossimo. Se questo bene gli viene da me, perché non ne ringrazio Dio? "Giorgio, lasciatemi sempre un angolo asciutto ove io possa ritirare i piedi, mentre la marea delle passioni, che voi chiamate azzurre, cresce e infuria intorno a me". Quali fossero i veri rapporti fra Marina e il Lucini vediamolo dai seguenti periodi, dai quali ognuno, secondo la sua naturale inclinazione, potrà dedurre un giudizio, se pur è necessario che tutti gli atti umani siano giudicati. Per me è già troppa l'indiscrezione di mettere mano a queste carte. "Egli non si è accorto di voi. Anche adesso rendo visita a mio padre due volte la settimana, e quando è malato, di più, Anzela, che ha della compassione, mi dà le vostre lettere, di nascosto anche di mio padre, che non saprebbe giudicare giustamente di noi. Le leggo segretamente e le rinchiudo nel vecchio scrigno massiccio presso la finestra, "Il babbo non può rinunciare al rhum, sebbene io lo sgridi e lo derubi, ma egli cerca alla bottiglia un calore fatuo di vita, o una pietosa smemorataggine. Senza di lui che valore avrebbe il mio sacrificio? se domani, lui morto, io non rispettassi la legge? "Ieri quel che voi chiamate il Sultano mi domandò qualche [108] notizia sul vostro conto; era una curiosità su ciò che avete pagato a mio padre per la pigione dei sei mesi passati. Mio marito è scrupoloso nei suoi conti e sta forse pensando di risparmiare qualche cosa sulla pensione. Ma il vostro nome in bocca del Sultano, aveva un suono sì fastidioso, che finsi raccomodare il fuoco sul camino, per nascondere un certo brivido. "È vero. Ciascuno considera sé stesso più con gli occhi altrui che coi propri. Io vado chiedendo a me quel che direbbero gli altri, se fossero a parte di quel che sto scrivendo. Eppure il vostro amore, Giorgio, non offende. Dopo i vostri consigli e i vostri rimproveri io mi sento più generosa, o almeno non tanto superba. Non è vero che senza la vostra pietà io sarei più perversa? Non trovate anche voi nel fondo della ragione, laddove essa è più semplice e pura, una giustificazione per me? Non dico per voi, filosofo placido e chiaro, che contemplate la vita da lontano, ove gli uomini si vedono piccini. Ma io sento tutto ciò che voi vedete soltanto. "Se il mio sacrificio restasse a mezzo, nessuno me ne sarebbe grato, n'è vero? Nulla sarebbe quel che ho sofferto fin qui. Pensate dunque all'avvenire e non fate progetti; quel che ho sofferto vale qualche cosa, e sento che voi non potreste pagarmi del tutto. "Qui regna il giallo, ma il vostro azzurro ha delle brutte tempeste. "Perchè mi avete chiamata odalisca? Ho pianto tutta una notte. "Intendetela. È soltanto in virtù di questa vostra amorosa compassione ch'io potrò soffrire fino alla morte. "Ho studiate le romanze che mi avete lasciate e vado ripetendole tutti i giorni, quando sono sola. Una specialmente, intitolata Il flutto, ha la virtù di farmi pensare per ore ed ore, come se quell'onda sonora venisse veramente da lontano. Perché non vi avete stampato il vostro nome? Perché siete modesto, fino ad essere nulla? [109] "Egli ha fatte grosse perdite, non so in quale speculazione e pare che per riparare in parte questi danni voglia partire per Napoli. Io non mi spavento delle sue sfortune, perché sarei contenta che vendesse qualcuno de' miei braccialetti. Mi sorprende ch'egli parta solo e che si mostri oltremodo preoccupato, come non fece mai per danni peggiori. "Ha voluto fare una visita a mio padre, caso insolito. S'interessò d'ogni cosa e specialmente dello scrigno antico, che gli parve una cosa preziosa. Lo chiese a mio padre, che n'è il padrone. Ho paura di dovervi abbruciare, Giorgio. "Ha dimenticato per fortuna anche lo scrigno, ma è risoluto di partire per dieci o dodici giorni. Che vuol dir ciò? Sono agitata e paurosa, senza capirne il perché. La fiducia che d'improvviso mi professa è umiliante, lo confesso, per una donna che non la merita. Dico troppo? Via, quand'è che riconosco il beneficio ricevuto? S'egli non vivesse di me, io sarei obbligata a benedire il suo nome. "No. La vostra venuta è un pericolo e potrebbe essere un delitto. "Anzela è malata da sei giorni e ha lasciato mio padre. Fermate per ora le vostre lettere alla posta, col solito indirizzo di Anzela. Egli è partito. Posso condurre più liberamente mio padre a palazzo e il pover'uomo trova tutto bello, tutto fantastico; non vi può essere altra felicità per lui, oltre le cornici dorate di questi specchi; è il sogno e il peccato di sua vita. Per lui l'agiatezza fu sempre più cara della vita stessa, e ora che la fortuna l'ha castigato, si compiace di crearsi un mondo coi fumi dell'ebbrezza. I nostri pensieri non s'incontrano più, povero padre!". Nell'ultima lettera che aveva la data di gennaio, Marina si lamentava che il Lucini fosse divenuto troppo pigro a scrivere e accennava a consigli dati poco prima nell'altra lettera, che forse era sparita col portafogli. [110] IX AMORE IN GENERALE Marina nelle sue lettere divaga in confessioni intime, che toccano il mistico, sulla vita delle creature umane, sull'avvicendarsi delle speranze e degli sconforti, sulla mutua intelligenza degli spiriti. Per ora le tengo in serbo, finché mi sia dato di farne un piccolo epistolario ad uso delle anime silenziose intanto non rifinivo di guardarle parola per parola, ingegnandomi di intendere anche quelle cose che di solito vanno perdute nell'inchiostro. Ognuno sa che nelle lettere amorose il bello e il buono è quello che si tace, perché il pensiero infervorato sfugge alle leggi sistematiche della logica, e parla meglio con uno sguardo e con un tremito delle labbra. Passavo alcune ore, muto, a contemplare lo spazio bianco fra le righe, dove erano passati senza posarsi i desideri di Marina, e frattanto davo ascolto a una voce non mia, che mi parlava dal fondo del cuore. Che uno spirito fosse disceso in me, quasi non era da dubitarne. Anche la Sacra Scrittura parla di spiriti erranti, per non dire dei casi confermati da certe scienze magnetiche e cabalistiche. Se l'anima dopo la morte è libera di sé e può intercedere grazie all'Eterno, quella del Lucini, scendendo nel mio corpo, era meno lontana da Marina e poteva seguitare l'illusione della vita. Che fosse propriamente così chi oserebbe giurarlo? Dico solamente che Marcello sentiva in modo assai diverso e stravagante, che rabbrividiva al minimo soffio d'aria, che vedeva più netto e sentiva quasi l'armonia degli atomi intorno a lui. Non solo, ma in me avveniva anche un conflitto fra due anime, che cercavano farsi posto, e alle quali la respirazione comune quasi non bastava più; le cose mi apparivano doppie, come se per ciascuno degli occhi guardasse un'anima diversa. Divenni più agile e più delicato nei movimenti, più gentile nel tratto, più concitato nelle parole, e perfino nell'accento io contraffaceva sì bene il Lucini, che qualche volta io rideva di lui od egli di me, o si rideva insieme. Il meraviglioso poi (e qui penso al miracolo) si è che nei brevi giorni da me vissuti in quella cameretta, esercitandomi sul violino, sentivo la mano destra più scorrevole e la sinistra più nervosa ed entrambe agire sulle corde con bell'arte e trarne suoni non mai uditi. Non posso costringere altri a credermi, sebbene la fede sia fatta per le cose incredibili; ma questa duplice esistenza, che dico, mi appariva specialmente quando io tornava per caso alla mia prima [111] abitazione del numero ventitré. Allora le anime si staccavano come certe fiamme, che si raddoppiano nello specchio; fra quelle pareti umide e allumacate la vecchia anima di Marcello si faceva più avanti, mentre l'altra si ritraeva in disparte. Allora rivedevo il mondo circostante del solito colore sbiadito, mi sentivo contento di poco, tornavo imbarazzato, sospettoso, timido, strascicavo le scarpe. Invece riposando l'occhio sul ritratto di Marina, le pareti della stanza, i mobili, i quadri, il calamaio e i libri pigliavano riflessi di madreperla e di lapislazzuli. La mia era stata una giovinezza pigra fra gente buona e semplice, che si rallegravano soltanto della mia bella ciera e, ripensando a quel tempo, non vedo che nasi lunghi, ribaditi, ricascanti, nasi a rostro, a bomba, a spugna; nicchi o berretti pesti e bertucciati, zimarroni e soprane tané, color pulce, nerigne, cangianti, verdastre, verde pisello. Il nome di Marina all'incontro aveva in sé stesso e nelle sue vocali non so quale melodia, e a ripeterlo arrossiva fino allo scarlatto, e dormendo non vedevo che lei tra pelo e pelo, fissa innanzi nelle tenebre, come un fiocco di bambagia, e tutti i miei nervi soffrivano una contrazione penosa forse per la dilatazione dello spirito. Ne veniva un'irrequietezza febbrile, un desiderio vago di compiere qualche grande impresa, una strana compiacenza del mio pallore, una specie di concupiscenza del dolore. Questa era la mia vita artificiale da due o tre giorni, quando mi giunse la lettera di Marina. Dovevo aprirla? Marcello non era indiscreto e sleale contro l'amico? Quel turbamento da cui era preso nel salire le scale e quel tremito delle mani, non indicavano la cattiva azione? Riflettendo meglio ai casi, vidi che ad ogni modo quella lettera m'avrebbe indicato una via da tenersi per l'avvenire. Non dubitavo più che il Lucini fosse stato ucciso dal marito geloso, e dal modo della lettera avrei scoperto se anche Marina presentisse già prima la sventura. Tremavo nell'aprire il foglio, perché sentivo d'essere innanzi a un delitto, di cui io solo aveva la chiave e anche per la memoria del poverino, cui quelle parole eran dirette e che mi gridava dal fondo del cuore: - Perché mi tradisci? Ecco intanto la lettera: "Amico, cosa significa questo vostro silenzio? Forse vi spiacquero le mie proibizioni e i miei rimproveri. Se è così, voi vi date [112] questa volta per poco filosofo, anzi per poco generoso. Sono sola, lo sapete: nella solitudine io mi vedo meglio e soffro di più. Perché non scrivete una parola a chi ve la chiede in nome di Dio? Mi sono avvezzata a vivere nel vostro pensiero e non mi pare possibile uscire da quest'atmosfera senza morirne. Egli mi ha scritto due volte, e una da Milano: vi è dunque passato vicino e non ve ne siete accorto? Ora è a Napoli e fra sei giorni scrive che tornerà a Venezia. Mi troverà molto invecchiata: mentre vi scrivo vo considerandomi nello specchio e scopro una ruga attraverso la fronte, segno di immatura decrepitezza. Chi direbbe che il mio cuore è giovine? A ventitré anni, mi fermo a meditare sulla morte, come una donnicciuola cadente. Mi pare di essere abbandonata da Dio e dagli uomini e che la città sia un'immensa necropoli; e il mare una tomba senza fondo. "Mio padre è triste più del solito: mi raccontò una lunga istoria, che non seppi intendere bene, perché il filo del suo discorso spesse volte si spezza. Pare che il marito di Anzela, un ubriacone di cattiva fama, abbia voluto sapere il segreto delle molte lettere, che Anzela prendeva alla posta. Perciò, seguitando a scrivere ad Anzela Marzani, mandate la lettera in via del Cavalletto, n. 28; o avete giurato di non scrivere più? Voi siete saggio e forse vi sembra conveniente per mio e per vostro bene troncare una commedia che fa piangere? Nella serenità del vostro giudizio questa donna che vi scrive è cieca a ogni legge morale? è degna più di compassione che di rispetto? È così o è peggio ancora? Scrivetemi almeno addio e lasciate che l'azzurro sfumi in quella tinta bigia che piace al vostro tempo. Chi pensa alle stelle cadenti, se l'ordine delle sfere non è turbato? Ma io non potrò dimenticare e questo sarà il mio castigo. Addio. Vostra Marina". Da questa lettera, degna d'un carattere bizzarro e che spirava una disperata malinconia, risultavano troppo chiaramente due circostanze, voglio dire che il marito di Anzela aveva scoperto il segreto delle lettere, e che il Sultano era passato da Milano verso il tempo appunto che il Lucini fu morto. Una poteva essere conseguenza dell'altra, e il filo invisibile che le collegava diventa ora abbastanza manifesto, mi pare. L'avidità di un brutto guadagno (e i fatti mi diedero ragione) aveva spinto quel malvivente a consegnare qualche lettera a un uomo, che per sua sventura non era cieco. Da quanto tempo durasse il tradimento è incerto ancora; ma io ricordo certe notizie date ingenuamente da Marina, quando parla della visita [113] fatta dal marito a suo padre e dello scrigno sotto la finestra e sento di mettere la mano sulla verità. È impossibile che Marina quel giorno con un battere di palpebra non rivelasse il nascondiglio delle altre lettere e che il geloso, minacciando Anzela, non piombasse su quel tesoro nascosto. Anzela infatti lasciò la casa del vecchio solitario e si faceva credere malata. Marina si lamentava già nelle altre lettere che Giorgio fosse diventato pigro a scrivere, e forse le lettere erano fermate a mezza via: la preoccupazione finta dal ricco speculatore per una perdita di poco momento, era artificio crudele per ritardare e assaporare la vendetta: la sua improvvisa fiducia, la sua partenza e la sua comparsa a Milano, dicevano il resto. Marcello non si era trovato mai in più brutto imbarazzo, perché tanto il tacere come il parlare potevano riuscire a funeste conseguenze. L'eroe, che tratto tratto si dibatteva ne' miei panni, avrebbe voluto, senza mettere tempo in mezzo, accusare il reo, farlo arrestare prima ch'egli tornasse a Venezia, liberare la schiava, vendicare il Lucini; ma la mia accusa ne avrebbe tirata con sé un'altra, contro un vecchio solitario, pel quale Marina aveva fatto sacrificio di tutta sé stessa. Ella che aveva pagato colla sua giovinezza un silenzio, ancora per noi inesplicabile, non mi avrebbe ringraziato del servigio; quando anche sì, bisognava dirle, che il Lucini era morto. D'altro lato la coscienza dignitosa non sapeva rassegnarsi a questi consigli della prudenza, molto più che questa vendetta subdola, meditata in un palazzo della Serenissima ed eseguita da mani volgari in un viottolo di Milano, non era finita. Al Sultano che ritornava, puro da ogni sospetto e coll'orgoglio della propria potenza, restava Marina. Chi può immaginare il raccapriccio della donna al suono conosciuto di quel passo? chi può dare una piccola idea del suo spavento alle prime parole dell'assassino? Gli uomini, che compiono ogni sorta di delitti, non hanno inventate tutte le parole per nominarli. Anche il morire non valeva a sottrarre Marina da ogni pena, perché dopo di lei restava suo padre in balia del geloso. Marcello vedeva innanzi a sé questi fatti, che sarebbero accaduti, se Dio non vi poneva un dito. Stretto fra il sì e il no, presi il partito di mezzo di scrivere alla signora, prima che il marito tornasse. Chi sa? nella disperazione ella avrebbe potuto trovare un rimedio, mentre era libera di sé. Chi le avrebbe impedito di fuggire con suo padre? Cominciai: "Marina, fuggite con vostro padre: egli sa tutto, vi aspetto...". Mi fermai di botto e deposi la penna che pareva arroventata. Il mio modo di scrivere per verità era goffo e selvatico, e anche le [114] parole nere sul bianco avevano un non so che d'angoloso, che faceva orrore. Con quale autorità mi presentava a lei? Marcello in questo istante mi parve l'uomo più abbietto del mondo; egli si era intromesso fra due anime innamorate, e raccolte le loro timide confessioni balzava oltre con un grido di morte. I polsi del capo martellavano: un sudore freddo mi bagnava la fronte e le mani, e stringendomi la testa fra i pugni, pregava Dio che mi spirasse un buon pensiero. Marina aspettava una risposta, almeno un addio. Se io pronunciassi in nome del Lucini questo addio? il nuovo disegno mi parve migliore. Avrei scritto in nome del Lucini dicendo che, troncando una relazione pericolosa, io partiva per l'America, sperando in un avvenire più giusto; per costringere il geloso a tacere, avrei pensato un mezzo di fargli un po' di paura. La mia risoluzione forse non avrebbe persuaso del tutto il cuore di Marina, già inclinata alla diffidenza e al sospetto; ma io, traendo pretesto della venuta del Sultano a Milano, avrei potuto vagamente accennare a un gran pericolo e alla necessità di nascondersi per qualche tempo. Caldo di quest'invenzione pensai il modo di far credere anche alla mia scritturaccia da canonico, ed ecco come: "Carissima Marina, "Da tre giorni sono malato di febbre e vi rispondo dal letto; perciò scusate la mia scrittura un po' tremolante. Qualche mia lettera forse si è smarrita per via, e i vostri rimproveri, grazie al cielo, non li merito. Ho incontrato il Sultano, e non so perché sentii rimescolarmi il sangue: quel che voi mi dite aumenta i miei sospetti, e per la prima volta io mi accorgo a qual pericolo, o amica, io vi lascio. Sì, io sono prudente, a mio malcosto; questo è l'ultimo addio... La mia penna trema a scrivere questa parola, e il pianto mi confonde la vista. Vi amo, Marina". Marcello si arrestò innanzi a questa frase e si accorse veramente di due anime, che si accapigliavano dentro di lui. "Vi amo, Marina, come avrei amata mia madre, come amo la luce e l'arte, perché sento che l'anima vostra corrisponde alla mia. Piangiamo insieme e inventiamo soltanto per noi la voluttà delle lagrime. "Se io potessi in questo istante essere ai vostri piedi prendervi ambo le mani per farvi sentire quanto batte il mio cuore al vostro nome, voi non sareste tanto crudele con me". [115] Il cuore di Marcello batteva davvero, come alla vigilia d'una battaglia, e io non sapeva più distinguere in nome di chi tenesse la penna. Sentivo un impulso ignoto, che mi spingeva innanzi, la mente scopriva con sua meraviglia parole nuove, e concetti fantastici, che avevano del diabolico; i nervi fremevano per un piacere muto e indecifrabile, e superbo della mia missione, gustando quasi l'acre sapore della violenza e della gelosia, scrissi senza levare gli occhi dalla carta: "La mia è una schiavitù più dolorosa della vostra, perché la riverenza, l'obbedienza e l'onore mi tengono avvinto senza togliermi le lusinghe: essere schiavo di sé stesso è un patimento senza conforto e senza ira. Mi parlate della vostra decrepitezza; o Marina, è impossibile che le anime nostre non siano eterne? non ci siamo noi conosciuti in quell'atmosfera luminosa, fra i raggi puri del sole, e l'infinita estensione del cielo? Anch'io piango...". Ed era vero. Una lagrima cadde sul foglio e Marcello se ne spaventò, come se altri piangesse in lui. A mente fredda non so ricordare tutto quanto la mano scrisse senza posa in tre pagine fitte; dovevo essere trasfigurato e ancora porto nell'anima i segni di quell'ora. Mi pare che non scrivessi addio per sempre, perché per un desiderio alcun poco maligno, sperai che gli avvenimenti mi avrebbero avvicinato un giorno a questa donna, né fu una vana speranza, purtroppo! Lasciai cadere quella lettera in una buca della posta, e fuggendo via, come un ladroncello, girandolai qualche ora attraverso la città, con passo lesto, distratto in mezzo alla gente, che brulicava intorno a me, finché mi trovai nel viale solitario dei bastioni di porta Venezia. Era sul mezzodì d'una bella giornata, e nell'aria si sentiva una timida fragranza di primavera, o così pareva a me. Il viale era asciutto, ma nei declivi molli e nell'aiuole del giardino pubblico, biancheggiavano ancora alcune striscie di neve: il raggio del sole sopra i rami stecchiti dei castagni si scaldava in una tinta rosea, il colore de' miei pensieri. Incontratomi in qualche frotta di persone, mi accorsi al loro vestire che era giorno di festa, e precisamente la Santa Purificazione. Per la prima volta Marcello mancava a' suoi doveri religiosi e ne chiesi perdono a Dio con una rapida aspirazione verso il cielo [116] limpido e benevolo: mi fermava tratto tratto innanzi un tronco, ne carezzava i muscoli, e alzando gli occhi all'intrecciamento dei rami, e giù abbasso ai nudi boschetti o alla fontana, o alla serra dei fiori, sentiva la vita delle cose e l'armonia dei rumori. Una bambina povera e scalza mi chiese l'elemosina. Que' piedini lividi, la gonnella corta e i capelli irti e rovesciati sugli occhi mi fecero tanta pietà, che, radunati tre o quattro soldi, li nascosi nel palmo della sua piccola mano gelata. Si chiamava Annetta e questo nome l'ho scritto in una pagina bianca della mia memoria. Ritornai fra le case, e allo svoltare d'una cantonata, diedi in tre brave persone, che al rivedermi, ruppero in un'esclamazione. Erano il signor Pietro Manganelli, imbiancatore, che mette in opera campanelli, il signor Verga e il Lella; l'ombrellaio si appoggiò al muro e il barbiere restò conficcato sopra una lampada, mentre il più grasso, presomi secondo il solito per un bottone del vestito, mi disse: - Sono contento d'incontrarla, signor Marcello, perché da molto tempo, sa bene, volevo parlarle. Io sono un uomo che, grazie al cielo, vivo del mio, n'è vero? - e qui guardava i due amici, che non cessavano di contemplarmi. Lella, che mi aveva tagliato i capelli due settimane prima, pareva più contento che stupefatto, ma il Verga pensava forse alla metempsicosi. - So che ella aveva delle intenzioni sopra la Gioconda - disse il signor Pietro. - Cioè; domando scusa - cominciai - lo dicono, ma non è vero. - Ecco quel che ho pensato anch'io. Deve sapere che da un anno io tengo gli occhi sopra questa figliuola; sono vecchio... cioè vecchio... non sono più un giovinotto, e la Gioconda sarebbe il deus fecit. Il signor Manganelli andava intanto raggirando come una vite il bottone del mio vestito; ma era un modo per insinuarsi. - Che cosa posso fare per lei? - Lei ha già fatto abbastanza al momento che non pensa alla giovine... cioè giovine... la Gioconda avrà i suoi ventisette anni, n'è vero? Il signor Pietro rivolse di nuovo uno sguardo a' suoi amici, che sussurravano in disparte. - Anzi dirò, in confidenza, che è contenta. - Chi? la Gioconda? - esclamai. - Qualche volta ci siamo trovati sulla scala, e, sa bene, una sera tardi ho lanciata una parolina, cioè le ho chiesto se voleva essere mia moglie. Ella aveva in mano un cesto di biancheria e mi rispose: "Parli alla mamma e al papà". [117] - Parli ed ella è sicuro. I parenti di Gioconda farebbero un sacrilegio per maritarla. Quando il signor Manganelli lasciò il mio bottone, me ne andai ben volentieri, perché il Verga apriva già l'astuccio degli occhiali. Innanzi all'uscio della mia camera aspettava un signore, colla mano sul cordone del campanello. Vedendomi fermo innanzi, mi ficcò gli occhi in viso e mi chiese: - È lei il signor Lucini? - Sissignore - risposi abbassando la voce con un po' di imbarazzo. Egli mi si accostò di qualche passo, e curvatosi quasi fino al mio orecchio, susurrò con voce tremante: - Vostro padre desidera parlarvi. - Lucini non conobbe mai suo padre - risposi, afferrandomi alla maniglia dell'uscio per sorreggermi. - Mi cacciate forse? - L'accento melanconico di queste parole mi toccò: noi ci guardammo fissi. [118] X I MIEI DUE PADRI - ARRESTO IMPORTANTE LA SUA pupilla languida mi ricordò la tenerezza dello sguardo del Lucini, il quale, parlandomi di suo padre, non aveva mai detto ch'egli fosse morto. Apersi l'uscio con un po' d'imbarazzo, procurando nel medesimo tempo di preparare una risposta, che andasse bene per entrambi. Entrati, lo feci sedere nella poltroncina e anch'io presi una sedia innanzi a lui, ma cogli occhi bassi. Passò un buon quarto di minuto prima che l'uno o l'altro aprisse bocca, il padre, s'intende, preso da un'improvvisa tenerezza e io sotto il governo d'un imbarazzo non mai provato. - Lucini - cominciò quel bravo signore, che pretendeva essere mio padre - mi avvedo che la mia visita vi dispiace; infatti non ho alcun merito in faccia a voi. Io credo che, precipitando nell'aria dentro un pallone che sfiata, non si provino più strani capogiri de' miei in quel momento. Vedevo la necessità di togliere quel povero signore dal brutto inganno, in cui era caduto, ma sentivo la difficoltà di trovare una frase, che andasse. - Sì, vostro padre desidera esser perdonato, Giorgio. Finora ha fatto a fidanza colla sua coscienza, ma il giungere dei sessant'anni, il corpo infiacchito non regge ai pugni della coscienza, che non invecchia mai. Io vi chiamo Lucini, perché così vi piace, ma voi non avete la curiosità di sapere il vostro vero nome? non osate nemmeno osservare come è fatto quell'uomo, che fu causa dei vostri mali? Levai allora gli occhi colla pietà d'un moribondo, che cerca la luce. Il mio signore - se volete conoscerlo del tutto - era un omiciattolo tondo, ravvolto in un soprabito largo e lungo fino alla noce dei piedi, con maniche alla cappuccina foderate in flanella, e con due tasche, dall'una delle quali spuntava la cocca d'un fazzoletto di seta gialla. Aveva la fronte lustra, il cocuzzolo mondo e liscio come una palla d'avorio usato, meno due liste di capelli impastati, che venendo dalla nuca, si arroncigliavano alle orecchie. I baffi tinti e incerati finivano in punta di spillo, e giravano come due sfere d'orologio dietro le contrazioni delle labbra. Sedendo, riempiva tutta la poltroncina e toccava a stento il suolo colla punta di due scarpette di pelle inverniciata. Mi guardava fisso, [119] come un incantatore, in modo che le pupille, ingrossandosi, prendevano la bianchezza della porcellana. - Signore - dissi finalmente, quando a Dio piacque - ella s'inganna sul mio conto. Io non sono Giorgio Lucini. - Voi? ho capito: vi conviene questo contegno dal momento che non volete riconoscermi. Però sappiate che, prima di venire fino a voi, ho fatte le mie ricerche, ho chiesto di voi alla portinaia, che mi diede ragguagli precisi e che convengono a' miei: vi ho atteso un'ora innanzi all'uscio, e anche voi poco fa, colto all'improvviso, non confessaste?... - Ma... - interruppi. - Parlo io. Desiderate delle prove ancora più stringenti? - Creda... - Volete che vi racconti tutta la vostra vita? - seguitava spinto da buon vento quel signore. - Ebbene, vi dirò che vengo or ora da Napoli e che ho parlato con la Giuditta pescivendola. - Ah! Giorgio! - esclamò, abbandonandosi sullo schienale e incrociando le braccia sul petto - potete dire di non conoscere la Giuditta pescivendola? Marcello cominciava a diventare stupido e avrebbe volentieri cambiato il posto colla sua sedia. - La Giuditta pescivendola era amica di vostra madre e voi lo sapete meglio di me, perché le mandaste or non è molto alcune lire per comperare una corona di fiori. Io ho veduto quella corona, sopra una povera croce di legno, piegata dal vento e sepolta fra le ortiche. Là sotterra giace una donna, che mi ha amato e che anch'io forse amai in un istante di leggerezza, ma che poi ho vilmente abbandonata... Oh sì! maleditemi, ma intendete questi dolori... - Il bravo signore si asciugò un occhio per volta col suo fazzoletto giallo. - Giuditta mi raccontò gli ultimi istanti di vostra madre. Mi disse come rimasta sola, con voi piccino, reietta e maledetta da tutti i suoi parenti, morisse in breve di stento e di corruccio. E così? sono prove parlanti? I parenti per liberarsi di voi vi abbandonarono a gente prezzolata, che fanno la tratta dei fanciulli, ed eccovi a Parigi, vagabondo, con uno strumento fra le mani, il canto e il sorriso sul labbro, la fame nello stomaco e la disperazione nel cuore. Giorgio, voi non avete pietà a farmi raccontare questi dolori. - Basta! - dissi, alzandomi rapidamente. - Ancora una parola. Una persona di cuore vi raccolse e vi prestò il suo nome; infatti nel conservatorio di Napoli foste iscritto col nome Linucci: è vero? è vero? Per ragioni, che non so vedere, qui vi fate chiamare Lucini, e questo nome, col vostro indirizzo preciso, [120] il numero della porta, il piano stesso, voi lo avete scritto a Giuditta in questa lettera, che vi presento. Eccola! negate voi stesso. Riconobbi i caratteri del Lucini, ma tante parole, tante prove, che venivano ad assaltarmi da ogni parte, finirono per stordirmi. Invidiai ad occhi chiusi la sorte di quel qualunque antipodo, che passeggiasse sotto di me nell'altro emisfero. - Non vi chiedo un perdono, che non volete dare, mio Giorgio; ma fate un segno colle palpebre che quel ch'io dico è vero, e lasciate che vi contempli in silenzio. Poi, se vi pare, cacciatemi all'uscio. Man mano che egli parlava, la sua voce diveniva più tremante e mista di pianto. Era un gran colpevole, ma il pentimento, ispirato da un impulso naturale d'affetto, mi pareva sincero. Come dirgli ad un tratto che quel suo figlio era morto? Tirai un lungo respiro e socchiudendo gli occhi risposi: - Quanto ella mi disse, signore, è vero; ma vi è di mezzo una circostanza fatale, dolorosa. Insomma le dirò che io mi chiamo bensì Lucini, ma che questo nome io l'aveva prestato al mio povero amico Giorgio, che abitava con me in questa camera. Gli era piaciuto questo nome, aveva per me dell'amicizia. Più volte mi raccontò la sua storia, mi parlò di suo padre, della Giuditta pescivendola, ma come diceva, oggi non è a Milano, è andato lontano, molto lontano... in America. Un pappagallo avrebbe forse parlato peggio, ma con più coscienza: le parole, venendo di per sé alle labbra, spiccavano ad una ad una seguendo un tenuissimo filo di ragione. - Ammetto quel che ella mi dice - aggiunse dopo un lungo silenzio il mio interlocutore - ma dal suo turbamento, o signore, dubito che ella obbedisca di mala voglia a ordini ricevuti. In questa lettera, Giorgio assicura che per tutto carnevale sarebbe rimasto a Milano. Ero sconfitto. Caddi come morto sulla sedia, e nascosi il volto tra le mani sospirando. Quanto volentieri sarei ritornato il Marcello di prima, nel mio zimarrone tané! quanto mi pentii d'aver voluto per un po' di tempo essere un altro! Qualunque sia la nostra via, noi abbiamo in noi stessi rimedi, che meglio convengono ai nostri mali, come ogni cane guarisce le sue piaghe colla propria lingua. - Mi dica dunque la verità - esclamò, spingendosi con un po' di violenza verso di me. - Giorgio... è morto? - Sì - risposi con voce, che veniva dai piedi. - Morto! - ripeté a fior di labbro e non parlò più. Mi pareva che il mio corpo pesasse il doppio sulla sedia, e, sollevato lo sguardo, vidi che il volto già ulivigno del mio compagno, fatto più tetro dal [121] pallore, aveva qua e là delle chiazze cadaveriche. Però si sarebbe detto che quella notizia non gli giungesse tutt'affatto nuova. Io sentii la necessità di spiegarmi di più, e distesamente e con la maggior calma possibile raccontai il fatto, come era accaduto, e i sospetti che m'erano nati, e le prove scritte, che aveva in mano. Non tacqui del vecchio marito geloso, né di Marina, né del rapporto medico e delle note prese dalla polizia. Mi dichiarai pronto, quando egli volesse, a sciogliere questa matassa per vendicare l'amico. L'accento delle mie parole e una lagrimetta, che mi spuntò sul ciglio, dovevano persuaderlo della mia sincerità: infatti egli non domandò altro. Stette sopra di sé, raccogliendo nella increspatura della fronte i più dolorosi pensieri, e agitando i pollici dei piedi sotto la pelle sottile delle scarpe. Finalmente domandò: - Potrei vedere il ritratto di questa donna? Mentre io stavo per cercarlo fra le altre carte, udii di fuori una voce ben nota, la quale diceva a qualcuno: - Dove s'è cacciato questo can da pagliaio? Era la voce più sincera che obbligante di mio padre, il quale, avvertito per lettera dal signor Leonardo, droghiere, veniva a insegnarmi la legge. Egli spalancò francamente l'uscio e lo tenne aperto col bastone, stando fermo sulla soglia. - Venite avanti, padre mio, - dissi, avvicinandomi all'uscio, dopo aver consegnato il ritratto al poveretto, che sospirava. - È Marcello costui? - domandò il babbo al droghiere che gli stava alle spalle. - Venite innanzi - ripetei. - Questi Marcello? ma io sono in un labirinto. - Signore - disse lo sconosciuto, alzandosi e stendendomi la mano - perdoni il disturbo: potrebbe venire da me all'albergo Milano qualche sera di questa settimana? - Sissignore. - Ma sopra tutto silenzio. Il babbo, che teneva il bastone disteso, fece due passi avanti per lasciarlo passare, lo squadrò dalla testa alle calcagna, poi squadrò me dalle calcagna alla testa e voltossi di nuovo al droghiere, domandando: - Siete sicuro di non aver sbagliato? - Sono io, sono Marcello - dissi accostandomi. - È questo mantello che vi dà le traveggole? Eccomi quel di prima. Il babbo sollevò col bastone il lembo del mantello, che io aveva sospeso al portapanni, toccò le gambe delle sedie e dello scrittoio per assicurarsi di non essere in un labirinto incantato e mi disse: - Ho piacere di far la sua conoscenza. [122] - Come avete scoperto il mio nascondiglio? - Diteglielo voi, Leonardo. - Dal registro della questura. - Come? - esclamai con un piccolo spavento - la questura si occupa dei fatti miei? - Ditegli, Leonardo, perché sono venuto a Milano. - Questo lo indovino. Vi avranno scritto delle infamie sul mio conto e voi le avete credute. Vi avranno detto che io ho tradito una barbolina, una frinfrina schifiltosa, una madonnina infilzata, della quale non mi sogno nemmeno, e voi avete creduto. Ma è giunto il tempo ormai che anch'io levi la maschera a questi codardi, che si prendono beffe dell'ingenuità di un povero diavolo piovuto dalla montagna. Non è permesso, per Dio, seminare la discordia nelle famiglie, accusare altri prima di conoscere i fatti, vilipendere, lacerare l'onestà d'un galantuomo per servire a bassi istinti d'interesse. Finora ho tergiversato, ma giuraddio... - Andiamo, Leonardo; questi non è mio figlio - si diede a gridare il povero babbo, turandosi le orecchie. Io passeggiava concitato per la camera, stringendo i pugni, acceso in volto, collo sguardo fiammeggiante, mentre il signor droghiere cercava trattenere il babbo, che voleva ad ogni costo andarsene. - Mio figlio è un matto, un bestemmiatore?... Di', can da pagliaio, ti avrebbero veramente stregato? non sai tu che tua madre fu in fin di vita per le tue immodestie? non sai che si consultò perfino la santa di Pusiano per avere un buon consiglio? E il buon consiglio te lo dò io e subito. Vieni con me. - Dove? - A casa. - Non posso. - Perché? - Perché un'altra missione, e una sacra promessa fatta ad un moribondo me lo proibiscono. - Ebbene, io mi siedo qui, e non me ne andrò senza di te, dovessi rimanere cinquant'anni. Il babbo sedette nella poltrona e si collocò in una posizione comoda anche per un secolo e mezzo. La santa di Pusiano, per chi non lo sa, è una donna che ha tutte le confidenze del Signore, e che vive in una certa stanzuccia a pian terreno, dove rovescia continuamente secchi d'acqua di pozzo per indicare che per quanto l'anima umana si lavi, non è mai degna di Dio. In quel molliccio crescono funghi e licheni e le gambe della santa ingrossano come due fusti di quercia. Nei tempi che vestivo [123] ancora la soprana, ella aveva profetizzato che io diverrei il martello degli eretici, ed ora, avendo udito il racconto delle mie scappate: - È niente, buona donna, - rispose a mia madre - uno spirito è disceso in lui, ma vi starà per poco; procurate di condurlo innanzi a un cimitero e sarà come strappare un dente. Vi darò intanto un moccoletto della candela, che rischiarò l'agonia di suor Clementina, una santa, morta nel convento di Monza. Mio padre, sebbene non credesse a tutte queste profezie, aveva perciò in tasca il moccolo sacrosanto, e cominciò a considerarmi con occhio di falchetto e a sogguatare il droghiere, che si mostrava offeso delle mie parole. - Scusi, signor Marcello, - disse costui - può ella negare d'aver lusingato con vane promesse la Gioconda, di averla fermata sulle scale sul far della sera, e d'averle parlato di matrimonio? Era la storia del signor Manganelli e cominciai a dubitare che i Tanelli fossero in buona fede. - Hai capito, Marcello? io non ti lascio più - ripeté mio padre, fisso in quest'idea. - Io non posso disobbedirvi: vi darò prove della mia onestà e andremo insieme a consolare la povera mamma. Allora mi feci a spiegargli come io mi trovassi in quella casa e nei panni d'altri; parlai di fatti tenebrosi e ad ogni parola il babbo si rizzava sulla vita, come preso da paura, e apriva di più le occhiaie. Io, che volevo intenerirlo, gli presi ambo le mani nelle mie, gli giurai sul capo de' miei poveri morti d'essere innocente, piansi tocco da una invincibile compassione, piansi come un fanciullo. Il babbo andava osservandomi parte a parte e specialmente i capelli irti del capo. Credetti fargli piacere toccando il violino, ma alle prime note gridò: - Basta! Basta! - E cadde in profonde riflessioni. - Che la santa avesse detto il vero? - Difatti io dovevo sembrargli troppo irascibile, troppo ciarliero e il violino... quand'è che Marcello aveva imparato il violino? Mio padre e il signor Leonardo mi stettero alle costole tutto il giorno, come due gendarmi, e mi avvidi che con le belle e con le buone volevano condurmi via; perciò provai il più gran dispetto del mondo. Vedendo che tutti i miei grandi progetti, le mie promesse e i miei sogni d'amore erano per svanire e che Marcello ritornava Marcello, fui preso da un coraggio che aveva un po' del cattivo. Raccolsi il ritratto di Marina, i pochi denari del Lucini, le lettere, e bel bello uscii di casa co' miei due angioli custodi, mostrandomi buono e pronto all'obbedienza, ma covando nell'anima un tradimento. Si pranzò assieme al solito albergo del Biscione, e [124] sull'imbrunire, colto il momento che mio padre esaminava il conterello dell'oste, scrissi sopra un foglietto due parole di addio e di perdono, uscii dall'osteria, balzai in una vettura che aveva già prima adocchiata e dissi: - Alla stazione. Mi parve così di ritrovare il filo, che doveva condurmi da Marina, e non provai nemmeno quel rimorso, che risento ora a scrivere: una furia s'era cacciata nel mio corpo, e l'orgoglio di credermi più d'un fanciullo aveva la sua parte in quel coraggio straordinario. Lungo la strada, passando al numero ventitré mi fermai, salii a precipizio le scalette dei Tanelli, mentre era già abbastanza buio, entrai senza dir altro e passai nel salotto. Erano tutti radunati intorno al signor Manganelli, che pareva in atto di spiegare la dottrina e al vedermi trasalirono, specialmente la Gioconda. Io dissi loro: - Forse verrà mio padre a cercare di me: dicano che io ho dovuto partire da Milano e che fra quattro o cinque giorni sarò di ritorno. Quindi uscii senza dare il tempo di rispondere, e discesi a precipizio, ripresi la vettura, e mentre si accendevano le lampade per le vie, e la gente si affollava di qua e di là, - era giorno di festa - col cervello in fiamme, colla ribellione e col rimorso nel cuore, fra il sì e il no, fra l'amore e il dovere, fra il dispetto e la compassione, Marcello giunse alla stazione. Il momento non era stato scelto a capriccio, perché da più giorni studiavo a memoria l'orario delle partenze per Venezia. Buttandomi in un vagone, dopo un sonno di una notte, io avrei aperto gli occhi a Venezia. Oh il bel sogno! Sotto l'immensa cupola di vetro della stazione era un via vai, un formicolio di persone affaccendate, che mi davano la sordia. Le poche lampade accese lanciavano grandi striscie luminose nel seno di ombre profonde, cupe come caverne. Io tremavo un pochino, com'è naturale, e mi lasciai sospingere fra gli staggi di legno, che menano allo sportellino dei biglietti. Un grassotto accanto a me, colla divisa di sorvegliante, gridò trenta o quaranta stazioni, senza perderne una, finché tuonò il nome di Venezia. Questo nome mi dava un fremito. Venezia per me voleva dire Marina. Dietro le grandi vetriate passavano e ripassavano fischiando le macchine, e ne nasceva un rombo infernale, uno scatenamento di spiriti, che finiva per togliermi ogni sentimento. Io mi guardava intorno con sospetto e il mio mantelletto e il mio andare incerto e pauroso fermarono l'attenzione d'un signore, che nell'angolo più buio faceva la sentinella alla sua valigia. Io voltai [125] lo sguardo, affrettai il passo, entrai nella sala d'aspetto, cercando col pensiero dove e quando avessi veduto quella ciera. Ma il mio pensiero da mezz'ora pareva una macchina guasta, e mentre stringeva un filo, ne filava un altro. Però quella faccia io l'aveva veduta, sono pronto a giurarlo. Frugando nelle tasche del mantelletto, mi venne tra le dita un rotoletto, come sarebbe a dire, giudicando al tatto, zuccaro o cioccolatte incartato. La sala era affollata e tutti cicalavano, ritti innanzi alla porta con le valigie e i sacchi in mano e sulle spalle. Stretto tra un prete e una vecchia, Marcello si sentiva strappare da tutte le parti il lembo del tabarro e ogni voce gli pareva quella del babbo, e mi veniva in mente anche la mamma, e intanto andava svestendo quel non so che di rotondo e di molle, che al riverbero d'una lampada conobbi per un moccoletto di cera. Allora io non sapeva ancor nulla delle profezie della santa, e si può immaginare il garbuglio dei pensieri stravaganti, delle paure, delle meraviglie! Marcello però indovinava la mamma, la sentiva in quel piccolo segno di pietà e di fede, e sarebbe tornato indietro, se la folla all'aprirsi delle porte, sbucando come un torrente, non avesse trascinato anche lui nel precipizio. Era l'inferno! mi pareva di scendere gradinate di carbone, di scavalcare montagne di ferro, di arrampicarmi sopra una gabbia. Una mano mi impedì il passo d'uno scompartimento. Era ancora quel signore di poco fa, che io aveva conosciuto nel mondo e che ora non sapeva collocare a suo posto. Passai oltre, balzai in uno scompartimento e mi sedetti, allorché un signore, gentilissimo, saltando come un passero sul primo gradino e levandosi il cappello, mi disse: - È lei il signor Marcello Marcelli? - Sissignore. - Ella fu l'amico di quel Giorgio Lucini... - Sissignore. - E abita ora sul corso, nella camera stessa del Lucini... - Sissign... - e qui mancò la voce. - Mi rincresce darle un piccolo disturbo, ma ella deve seguirmi. Noi ci conosciamo, n'è vero? - Noi?... - Era il gentilissimo delegato di polizia, che aveva promesso tante belle cose al povero Lucini. - Ma, scusi, perché... Che c'entro io? - È una semplice formalità. Il gentiluomo signore mi offrì la mano per aiutarmi a [126] discendere, io spiccai un salto a terra e vidi a tre passi di distanza due gigantesche persone, che si accarezzavano i baffi. Il conduttore serrava ad uno ad uno gli sportelli gridando: - Partenza, partenza, Venezia, Venezia. - Addio, povera Marina! Si può dire quel che io provassi in quel momento? Qualche lampionaio si soffermava a guardarmi, e quando il convoglio si mosse tutti dalle finestrelle non guardavano che me. Che ne sapevano essi più di Marcello? Da un posto di prima classe rividi per la terza volta la ciera di quel signore, che io aveva conosciuto forse prima di nascere... I suoi occhi erano fissi ne' miei, e ingrossandosi divennero bianchi come la porcellana. - Dobbiamo andare, signori? - disse il gentilissimo signor delegato. I signori, pur troppo, eravamo noi quattro. [127] XI MARCELLO IN PRIGIONE SULLE PRIME pensai che mio padre, fiutato il tradimento, mi avesse in tal modo tagliata la strada, ma non potevo togliermi dal cuore anche un brutto sospetto. Infatti quando mi trovai alla presenza di molte brave persone, in un salotto nudo nudo, illuminato da due fiamme di gas, io cercai inutilmente il sorriso furbesco del buon babbo. Tutti quei bravi signori scrivevano, col naso fra montagne di carte, e non pareva che si accorgessero di me: mi avevano fin lì condotto in vettura, e il signor delegato si era sempre mostrato con me gentile per tutto il lungo della strada. Ma una volta giunti in quel salotto, anch'egli divenne asciutto, ruvidetto, e il povero Marcello aveva un bel girare gli occhi in cerca d'una faccia pietosa. Risposi a molte domande generali, che ora non so ripetere, e un bravo signore, forse il più bravo di tutti, perché scriveva con la penna d'oca, stringendosi il naso con le dita per assaporare una presa, mi disse: - Stasera può bastare - e seguitò a lavarsi la faccia con tutte due le mani. Io presi il mio cappello, e seguii un buon uomo, che mi fece un segno coll'indice destro: mi inchinai a tutti quei bravi signori, ma poveretti! erano tanto occupati, che non mi risposero, e seguitai bel bello il mio uomo. Entrammo in un corridoio, e poi in un altro, poi in un terzo più basso, illuminati da lampade sospese agli svolti, cinte d'un'aureola nerognola di fumo. Finalmente il mio buon uomo (io pensava che un ventino poteva bastare per il suo disturbo) si fermò e mi disse: - Questa è una delle camere migliori: del resto non ha che a comandare. Vedo bene che la sua non è faccia da prigione. - Ma... - Tornerò fra un quarto d'ora. Non era una prigione, ma una cameretta modesta, con un letto, un canterano e due sedie; uno studente avrebbe potuto dormirvi comodamente i suoi sonni d'università, ma la finestra era alta fino al soffitto, e la luce non entrava che da una grata di ferro attraverso l'uscio. Marcello non era in prigione; l'aveva detto anche quel buon uomo, che si allontanava tintinnando le chiavi. La coscienza era tranquilla, il trattamento cortese, una formalità insomma, ma sedutomi su quel letto, colle mani sulle ginocchia e gli occhi sopra gli scacchi [128] d'ombra proiettati dalla grata di ferro, sentivo due forze opposte, che, venendo dal cuore e dal cervello, s'incontravano nel canale stretto della gola. La luce pareva una pennellata bianca in uno sfondo nero fumo; i mobili stessi erano come meravigliati di vedermi lì. Ricordo che le due sedie erano d'una magrezza spaventosa e non so per quale ordine di pensieri dubitai che si mangiasse poco in quella... camera chiusa. La febbre, che forse s'era già messa in istrada due o tre ore prima, venne di buon trotto e cominciò a galoppare nel sangue. Mi distesi sul letto, presi la testa fra le due mani, con molta tenerezza, come se accarezzassi qualcuno fuori di me, rannicchiai le gambe addolorate, mi aggrappai insomma, come un gatto che voglia dormire, e piansi di rabbia, di paura e di compassione. A poco a poco perdetti la conoscenza del luogo e del tempo, ed entrai in una lanterna magica di spaventi, di sogni, agitandomi tutta la santa notte fra le visioni più matte. Certamente il mio arresto doveva aver relazione col fatto del Lucini, e addormentatomi a cavallo di questa idea, seguitai a correre di qua e di là, da Venezia a Milano, dal Corso al numero ventitré, su per le scale, giù pel corridoi; vidi e parlai a lungo con Marina, le baciai la punta delle sue cinque dita bianche e sottili e partii portandomi in saccoccia la sua bella mano, come si porterebbe un guanto. Vidi anche il Sultano, sopra il pianerottolo d'uno scalone: era fermo, ritto al muro, alto, tanto che pareva la cassa d'un orologio; infatti di lì a poco si cambiò in orologio, ma le sfere erano due mustacchi appuntati, ed ecco due occhi di porcellana... Oh mio Dio! che ansia, che sete, che rombo, che campanelli! Mi picchiano sullo stomaco con sacchetti di sabbia, mi calano in una fossa adagio, adagio, adagio, adagio; qualcuno vuole ad ogni costo conficcarmi nella cassa d'un violino. Per fortuna Gioconda saliva la scala con un secchiolino d'acqua fresca, e io potei beverne un bel fiato. Il signor Leonardo incartava moccoletti di cera in carte di prima, seconda e terza qualità. Un'afa d'agosto, una secchezza, uno strozzamento... Mi svegliai verso la mattina e balzai sul letto per veder Venezia: una striscia di luce bianca entrava dalla finestra in alto e intesi suonare sette ore a un campanile non troppo lontano: dal suono smorzato conobbi che nevicava. [129] XII IL PROCESSO ALLE DUE ANIME PER QUANTO riguarda il mio processo, trascrivo alcuni brani di giornali cittadini che l'hanno riportato, sopprimendo tutte quelle spiegazioni che per noi sarebbero di troppo. I lettori guadagneranno senza dubbio nella semplicità dello stile e della grammatica. Udienza del giorno 7 (L'accusato è un giovane di ventitré anni, non pregiudicato: il suo aspetto è un po' grossolano, ma veste abbastanza civilmente: è pallido, e guarda qua e là come smarrito. Il pubblico è scarso. Alla difesa siede l'avv. G. Del Fosco). PRESIDENTE. Il vostro nome? ACCUSATO. Io sono un'anima doppia. (L'accusato sorride stupidamente). PRESIDENTE. Come vi chiamate? ACCUSATO. Non lo so, Cogito ergo sum. PRESIDENTE. Se questo ritenete un buon mezzo per la vostra difesa, vi avviso, Marcello Marcelli, che v'ingannate. Il nome di vostro padre? ACCUSATO. L'uno Graziano Marcelli, e l'altro non lo conosco che di vista, perché in me sono due anime, due principii equipollenti. AVVOCATO DELLA DIFESA. L'accusato è febbricitante e non sa quel che si dice: domando che il processo sia rimandato. (La Corte concede e la seduta è prorogata). Udienza del giorno 9 PRESIDENTE. (dopo le solite formalità alle quali l'accusato risponde regolarmente). Sapete perché foste arrestato? ACCUSATO. Credo dietro sospetto. PRESIDENTE. E dietro una lettera che vi accusa. Si dia lettura della lettera pervenutaci. SEGRETARIO. (cerca la lettera e legge): "Avverto questa onorevole Pretura che l'autore dell'assassinio contro Giorgio Lucini è il sedicente Lucini, che abita presentemente sul corso Vittorio Emanuele, [130] al terzo piano della casa N. 35: egli è in possesso non solo della biancheria, ma di alcune migliaia di lire lasciate dal defunto. Pare che lo stimolo al delitto sia stata la gelosia per una donna, di cui si troverà il ritratto in sua casa. Sarà facile scoprirvi anche le traccie di un vecchio delitto di falsificazione di biglietti di lire cinquecento della Banca Nazionale, con indicazioni utilissime a scoprirne i complici. Firmato: Il Sultano". ACCUSATO. Chi? (Si alza rabbiosamente). PRESIDENTE. Il Sultano. ACCUSATO. (cade sulla panca come colpito da un fulmine: mormorio nel pubblico). PRESIDENTE. Cos'avete a rispondere a codesta lettera? ACCUSATO. È un tradimento, una menzogna. PRESIDENTE. Conoscete la persona che vi accusa? ACCUSATO. No. PRESIDENTE. Cioè... badate a non imbrogliare i fili della vostra rete. ACCUSATO. Posso supporlo, ma non lo conosco. Del resto è una accusa anonima, che non può aver nessun valore. PRESIDENTE. Ma le prove che la lettera ci addita sarebbero contro di voi. Punto primo, come spiegate il fatto che il giorno stesso che noi riceviamo la lettera voi cercate fuggire da Milano? ACCUSATO. Un semplice caso. Io non fuggivo. PRESIDENTE. Dov'eravate diretto? ACCUSATO. A Venezia. PRESIDENTE. (fa verificare il biglietto della ferrovia trovato indosso all'accusato. È un biglietto di seconda classe per Venezia). PRESIDENTE. Perché andavate a Venezia? ACCUSATO. (esita a rispondere). PRESIDENTE. Avete voi ricevuto in quel medesimo giorno una visita? ACCUSATO. Mio padre e il padre del defunto Lucini. PRESIDENTE. Si domandino questi testimoni. Come conoscete il padre del defunto Lucini? ACCUSATO. Venne per trovar suo figlio, ignorando ch'egli fosse morto. PRESIDENTE. Vi ha lasciato il suo indirizzo? ACCUSATO. Sì, albergo Milano. PRESIDENTE. E anche il nome? ACCUSATO. Il nome no. [131] PRESIDENTE. Come? un indirizzo senza nome? ACCUSATO. (si accorge della sua contraddizione e la corregge così): Avrei cercato del signor Lucini, sebbene questo forse non sia il suo nome. PRESIDENTE. Che ne pensate voi della morte di Giorgio Lucini? ACCUSATO. Che fu ucciso per gelosia. PRESIDENTE. Come lo supponete? ACCUSATO. Da alcune lettere che io trovai nel baule del defunto. PRESIDENTE. Queste, che vi trovammo indosso? (Presenta alcune lettere che l'accusato riconosce). Questa dunque sarebbe la donna per cui... (Presenta un ritratto di donna: l'accusato si turba visibilmente), PRESIDENTE. Da codeste lettere risulterebbe che questa signora abita a Venezia, e che è maritata. Voi dunque eravate diretto verso Venezia per trovarla? ACCUSATO. (con un fil di voce). Si. (Sensazione). PRESIDENTE. Amate voi questa donna? ACCUSATO. (si asciuga la fronte). PRESIDENTE. Rispondete. ACCUSATO. Non rispondo. PRESIDENTE. Va bene. Voi pure scriveste qualche volta da Milano a questa... signora. (Il pubblico ride della reticenza). ACCUSATO. Una volta. PRESIDENTE. L'indirizzo era ad Anzela Marzani, via Cavalletto, n'è vero? ACCUSATO. Sì PRESIDENTE. Benissimo. Noi abbiamo avuto il piacere di leggere questa vostra lettera: è scritta in nome del Lucini, cinque o sei giorni dopo la sua morte. Caso nuovo per i morti! (Ilarità). La calligrafia è evidentemente alterata... Eccola. La riconoscete? ACCUSATO. Sì. (Sensazione). PRESIDENTE. Se ne dia lettura. (Si legge la lettera del falso Lucini: è piena di espressioni tenere e annuncia una necessaria separazione). PRESIDENTE. Qual era la vostra intenzione scrivendo questa lettera? ACCUSATO. Di evitare a Marina l'annuncio della morte del Lucini. PRESIDENTE. Potrebbe essere se in voi non fossero tutte le tendenze al falso. Vestiste abiti altrui, v'insinuaste in una casa non vostra, ingannaste la portinaia, fingeste un altro nome, alteraste scritture, e tradiste perfino vostro padre. Noi saressimo più proclivi a credervi, se non esistessero tutte queste menzogne. [132] ACCUSATO. (è in preda alla più viva emozione). PRESIDENTE. Vorreste indicare quali rapporti esistono fra voi e questa donna? ACCUSATO. Non esistono rapporti. PRESIDENTE. Almeno la conoscerete. ACCUSATO. (risoluto). Non la conosco. PRESIDENTE. Il defunto Lucini l'amava? ACCUSATO. Le lettere lo dimostrano. PRESIDENTE. E voi in che rapporto eravate col Lucini? ACCUSATO. Di semplice amicizia. PRESIDENTE. E di rivalità, n'è vero? Dite un po' perché subito dopo la morte del Lucini prendeste il suo luogo? ACCUSATO. Per eseguire la volontà del defunto. PRESIDENTE. Voi eravate disoccupato in questo tempo. ACCUSATO. Aspettavo un impiego. PRESIDENTE. Ma indosso vi furono sequestrati libretto di risparmio, molte chiavi e un moccoletto di cera. A che scopo? ACCUSATO. (fa un atto di dispetto). PRESIDENTE. Pazienza. AVVOCATO DELLA DIFESA. S'interroghi questa signora Marina. PRESIDENTE. Le nostre ricerche andarono infruttuose: è un nome falso anch'esso, come quel di Lucini, come quel di Sultano; siamo in una congrega di falsari. All'indirizzo di via Cavalletto nessuno sa che esista una sign... una donna di questo nome. AVVOCATO DELLA DIFESA. S'interroghi l'Anzela Marzani. PRESIDENTE. Questa era conosciuta, ma è morta. (Sensazione), AVVOCATO DELLA DIFESA. Nelle lettere si parla del marito di Anzela... PRESIDENTE. È latitante. (Mormorio nel pubblico). PRESIDENTE. Questa dama, che non si trova, ma che tiene a bada due amanti, avrà avuto la cura di distruggere delle prove. ACCUSATO. (sottovoce). È orribile. PRESIDENTE. E v'è di peggio, ma ormai travedo il filo del garbuglio. Nella lettera anonima vi è un altro capo di accusa, cioè di falsificazione di biglietti da lire cinquecento. Questo signor Sultano, che scrive un po' alla turca, penso che non sia un santo, ma è però un furbo. Noi trovammo nella camera abitata dal sedicente Lucini, e precisamente in uno stereoscopio posto sulla specchiera, una veduta di Canal Grande di Venezia, tre vecchie lettere, ripiegate, diverse prove di biglietti falsi da lire cinquecento, in cui è mal riuscita la firma del cassiere. Anzitutto domando all'accusato se questa veduta di Canal Grande ha qualche relazione col processo. [133] ACCUSATO. (risoluto). No, del resto io sono matto. PRESIDENTE. Ora si dia lettura delle tre lettere suaccennate. CANCELLIERE. (legge la prima lettera, che è un biglietto molto sucido; essa dice): "Non fidatevi di L... È troppo positivo per imbarcarsi in questa faccenda. La firma, come vedrete, non è riuscita. Deludete [sic per: Deludente?]. Il miglior sistema è di nascondere l'apparecchio in una finta stufa. Distruggete questa lettera. G. P.". PRESIDENTE. Che sapete dire intorno a questa lettera? ACCUSATO. (non risponde, sembra allibito), CANCELLIERE. Seconda lettera: "Mia figlia non sa nulla ancora... (Mormorio nel pubblico che crede d'aver capito). PRESIDENTE. Raccomando il silenzio alla sala. CANCELLIERE. (legge): "Ella potrebbe aiutarci, perché scrive bene, ma non ho il coraggio di esporla a questo pericolo. So che avevate parlato in via generale a L... di questo progetto. Fate in modo che non sospetti. G. P.". Lettera terza: "Le firme sono riuscite perfette. Voglio che metà siano almeno di buon valore, altrimenti sarebbe troppo il pericolo a confronto del vantaggio. Avete parlato con L...? Dal giorno che me lo avete nominato non dormo più quieto. G. P.". PRESIDENTE. A chi son dirette queste lettere? non si sa: si sono distrutti avvertitamente gli indirizzi. L'accusato forse potrebbe dirlo. Abbiamo sottocchio due prove mal riuscite di biglietto falso... Accusato, (mostrandogli il biglietto) che ne sapete voi in proposito? ACCUSATO. (alzandosi). Signor Presidente, io sono matto. (Ilarità). (Il seguito a domani). Uscendo dalla sala si commentava in cento modi questo strano processo, e il solito vecchietto del gilet verde che spiega il verbum ai frequentatori del parterre, diceva: - È chiaro: quel G. P. è il padre della famosa Marina: quell'L... è il Lucini; avendo costui subodorato l'intrigo dei biglietti falsi e facendo forse troppa paura al G. P., cadde in una rete. La figliuola finse innamorarsi di lui e quando fu sicura del fatto suo, trac... L'accusato è un complice, meno furbo di tutti e che paga la pena per tutti. - Non giuriamo che il vecchietto del gilet verde abbia ragione, ma certamente è il caso di dire: "Cherchez la femme". [134] XIII INTERMEZZO QUELLA confusione di spiriti di cui parlai quasi per burla, divenne vera e patente al tornare da questo strano processo nella mia prigione: tanto fa che la chiami così. Io non distinguevo più me stesso dagli altri e dalle cose intorno: io non sapeva se fossi un morto risuscitato o un poveretto sotterrato vivo. Marcello era accusato solamente di assassinio e di falsificazione, e bisognava proprio essere in due per scontare tutta quella pena, che sta scritta sulla legge. Se in me si faceva un po' di silenzio, sedendo sul mio letticciuolo a guardare in quei gorghi, vedevo come due personaggi, posti nel medesimo atteggiamento del mio, che si movevano l'uno a fianco dell'altro a somiglianza di certi fenomeni viventi, esposti nei baracconi. Alcune volte al contrario la coscienza ch'io fossi il Lucini tornava così schietta e sicura, che io pensavo a Marcello, come a un buon giovinetto conosciuto da me alla trattoria e che abitava una casipola laggiù. Ma questo fu il tormento di poche ore. A poco a poco tornarono le cose ai colori di prima e coll'aiuto del mio avvocato cominciai a mettere un po' d'ordine in quello scompiglio di fatti e di speranze. Confesso che un po' di colpa era mia, perché non aveva saputo ribattere i capi d'accusa come dovevo, ma io vorrei mettervi fra tanta gente vestita di nero, in un salone tetro, col carabiniere alle spalle, gli uscieri che scrivono scrivono, e innanzi un indiscreto che entra nel vostro cuore, vi fruga tutti gli angoli più riposti, e racconta al rispettabile pubblico quel che non avete coraggio di confessare a voi stesso... Il nome di Marina, che io tenevo gelosamente riguardato nel mio pensiero, e che mi aveva insegnato un po' di poesia, era scritto e trascritto da quelle penne, veniva cantato in musica, commentato e ricamato da susurri e da sorrisi indecenti. Marcello ebbe lampi di sdegno sì feroce, che fu un pelo per romperla in uno scandalo o diventar matto. Bastava ch'io indicassi alla Corte com'era venuto a scoprire, presso a poco, l'indirizzo di Marina: le indagini della giustizia si erano fermate ad Anzela Marzani, la quale aveva scavato fra i gendarmi e il colpevole la sua fossa. Non dico che col tempo l'astuzia dei segugi non sarebbe arrivata a sciogliere il nodo, ma intanto si [135] perdeva tempo, e il Sultano guadagnava dello spazio. Ma come parlare, senza ricadere nel pericolo già previsto, di trascinare al processo il padre di Marina, e forse lei stessa? Non sentendomi questo barbaro coraggio preferii aspettare un'occasione più favorevole, se Dio volesse. Io era nel caso di un navigante che a due passi dalla riva per l'urto dell'onda non può mettere piede a secco: non c'è un vero pericolo, e lo si potrebbe chiamare una lotta scherzosa col flutto, ma guai se dura a lungo! Un colpo di vento potrebbe slanciare il guscio a capofitto. Ragionando con pace sugli avvenimenti, un punto oscuro mi restavano le tre lettere dell'incognito G. P., che io non aveva mai trovate fra le carte del Lucini. Come si erano nascoste nello stereoscopio? Chi mi giuocava questo brutto scherzo? Non v'era più dubbio. Il Sultano, quello stesso che mi accusava, aveva creduto coll'accumulare sul mio capo una duplice accusa, appoggiata da tante prove vicine e parlanti, di complicare il processo e di guadagnar tempo, non solo, ma di rendersi sottomessa fino all'estremo la sua diletta Marina, colla paura che quelle lettere presentate al tribunale dovevano fare a lei e a suo padre. Il segreto di questo vecchio, ospite del Lucini, e che dalle lettere appariva appena in isfumatura, diventa manifesto. G. P. aveva scritto, per avidità di ricchezza o di sfarzo, alcune firme di biglietti falsi, e questo grande delitto, scoperto da L... divenne il punto di leva per ottenere dal colpevole qualunque concessione. L... non era che il Sultano, il marito di Marina. I fatti spiccavano di qua e di là come le reti al calare della marea. Le tre lettere, che il ricco e vecchio amante teneva in serbo, erano il pegno d'una devozione coniugale, costante fino alla morte. Io lo vedevo quest'uomo, sebbene non avessi di lui che un contorno grossolano. Ma in questo contorno ora si presentava, son per dire, un'ombra chinese, che aveva lineamenti più recisi; quasi contro mia voglia, scaturiva un'immagine tozza, rotonda, sormontata da una palla d'avorio usato, o per dir meglio da una testa monda, solcata da due strisce di capelli arroncigliati alle orecchie, e punzecchiata da due pupille biancastre come la porcellana. Quest'uomo era venuto in casa mia, mi aveva raccontato una pietosa storia, non aveva creduto ai pietosi inganni d'un amico. Quest'uomo, che preso da un amore selvatico per la bellezza e la giovinezza di Marina, non lesinava sui mezzi di conservarla, aveva finto delle lagrime per commuovermi, per cavarmi di bocca tutto quel che io sapessi sulla morte di Giorgio Lucini. Visto che io, [136] spettro inesorabile, era venuto a conclusioni troppo precise, e che il sottrarmi le lettere di Marina ormai era inutile, nel breve spazio concessogli per salvarsi, mentre io ero occupato e preoccupato nel ricevere mio padre, nascose quelle tre lettere e uscì a scrivere l'accusa. Nella mia ingenuità io aveva parlato troppo ed egli feriva colle mie stesse armi. Quest'uomo io l'aveva incontrato due volte alla stazione - ora me ne sovvengo - ma trasformato, senza mustacchi, e con una bella parrucca rossigna; erano suoi però quegli occhi di porcellana che all'allontanarsi del convoglio si fissarono in me. Marcello non seppe tener conto del tempo, ma senza dubbio erano passati giorni parecchi, perché il reo avesse potuto guadagnare i confini e trascinarsi in qualche lontano paese la sua bella schiava. Il mio amore per Marina, incominciato come tanti altri amori, da una fantasticheria, passando attraverso a queste dure prove, a poco a poco andava temprandosi: pareva assiderato, ma innanzi all'immenso pericolo mio e suo, tornò a pulseggiare di una nuova vita. Marcello e Marina finalmente avevano una causa in comune, e se il mio martirio avesse potuto salvar lei e renderle tutta quella felicità che forse aveva desiderato a sedici anni, io, povero Marcello, avrei allungate le braccia alle catene. Ma la sua schiavitù era più triste della mia. Il marito, tornando, le avrebbe raccontato lentamente i casi della sua vendetta, stringendo per acre voluttà d'amore la vittima tra le braccia; quel che Marina doveva soffrire, se io potessi immaginarlo, non lo direi. [137] XIV IL PROCESSO ALLE DUE ANIME Udienza del giorno 10(1) Deposizione del dottor Chiodo PRESIDENTE (dopo le solite formalità). Mi racconti quello che sa della morte di Giorgio Lucini. TESTE. Ho fatto la mia relazione in iscritto. (Se ne dà lettura). PRESIDENTE. Crede che il Lucini sia morto per colpi al petto? TESTE. Egli ha voluto morire, e non si può pretendere che la medicina possa rifare la vita d'un uomo. Quel Lucini doveva avere un polmone di carta, un polmone impossibile. Cominciò il singhiozzo e non ci fu modo di farglielo smettere; colpa nostra se... PRESIDENTE. Venga al fatto. TESTE. Questo è il fatto. Per me non sono obbligato al signor Lucini di avermi posto in questo imbarazzo. PRESIDENTE. Conosce l'accusato? TESTE. Sì, egli avrebbe dovuto pagarmi le visite. (Depone altre cose di poca importanza}. Udienza del teste cav. Emanuele Gangamela. (È un signore elegantemente vestito, con due favoriti alla milord, e i capelli aperti come un ventaglio dietro la nuca}. PRESIDENTE. Conosce l'accusato? TESTE. (guardandolo con l'occhialino). Non mi rizulta. PRESIDENTE. Conobbe il Lucini? TESTE. L'ho conosciuto, illustrizzimo zignor Prezidente, questo estate a Venezia, dove assunzi l'impreza del teatro La Fenice. Mi era raccomandato dal mio amico Linucci di Napoli e pozzo dire, illustrizzimo zignor Prezidente, pozzo giurare zul mio onore, zulla mia lealtà, e... zulla mia lealtà che pochi uomini hanno goduta, la mia dirò, ze mi zi permette la fraze, la mia zimpatia, come il poveretto di cui zi discorre. PRESIDENTE. Udì raccontare della sua morte violenta? [138] TESTE. Certamente l'udii. Io aveva ricevuto già due lettere dal Lucini, in una delle quali mi annunciava la malattia di zuo padre e nell'altra la morte... di zuo padre. PRESIDENTE. Ella rispose. Riconosce la sua lettera? (Mostra una lettera). TESTE. Per l'appunto. (Si dà lettura della lettera del signor cavaliere, che non paga esattamente i quartali, come ogni semplice impresario). PRESIDENTE. Non ha pensato che queste lettere fossero false? TESTE. Io non mi zono mai apposto, non penzando a una mistificazione. PRESIDENTE. Accusato, riconoscete queste lettere scritte in nome del Lucini, per scritte da voi? ACCUSATO. Sono mie. Una la scrissi sotto la dettatura del moribondo, l'altra per conto mio. PRESIDENTE. A che scopo? ACCUSATO. Per non propagare la morte del Lucini. PRESIDENTE. Avevate interesse a celarla? ACCUSATO. Sì, ma non... PRESIDENTE. Basta. Udienza del teste Graziano Marcelli (È il padre dell'accusato ed ha l'aria di un buon campagnuolo, è più stupefatto che commosso). PRESIDENTE. Conosce l'accusato, n'è vero? TESTE. Un poco. È mio figlio soltanto, e mi meraviglio come loro signori perdano la testa al punto... (Ilarità). PRESIDENTE. Rispondete a me. Come visse finora vostro figlio? TESTE. Ha studiato il latino in seminario. PRESIDENTE. Ah! in seminario... È una circostanza nuova! e da quando uscì? TESTE. Da due mesi, o tre... Non so bene, perché io ho tutt'altro per la testa in questo momento. PRESIDENTE. Perché uscì? TESTE. Lo sa lei? Lo so anch'io. PRESIDENTE. Accusato, perché lasciaste il seminario? ACCUSATO. Per poca disposizione allo stato ecclesiastico. TESTE. È stato un capriccio e l'ha pagato il mio povero Marcello. Era nostro desiderio che seguitasse, perché un prete è l'appoggio dei vecchi, e poi non è ancora una vita disperata; non ha voluto [139] ascoltarci, ed eccolo in un labirinto. Ma io (commosso) posso giurare per Marcello, posso giurare nel nome di tutti i miei poveri morti che il mio figliuolo è incapace di ammazzare una mosca, e che fin da bambino non resisteva alla vista del sangue dei polli... (L'accusato si asciuga una lagrima furtiva: il pubblico è commosso). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Udienza del signor Verga (È un ometto vestito di nero che si avanza sorridendo e inchinandosi a destra e a sinistra). PRESIDENTE. Ella abitava vicino all'accusato. TESTE. Signor sì, al numero ventitré. PRESIDENTE. Quale opinione ha ella del carattere dell'accusato? TESTE. Ecco, io dirò quel che ho sentito dire, perché, siccome ho la bottega d'ombrelle un po' lontano, non tornava a casa se non tardi o come si direbbe post prandium. Però ho sentito parlare del fatto. Prima, per un piccolo sbaglio, aveva creduto che il signor Marcello fosse morto, ma oggi, meglio informato, dirò quel che mi consta per relata refero. Il signor Marcello doveva sposare la signora Gioconda, figlia d'un altro vicino del terzo piano: il Lucini, cioè il morto, veniva a dare lezioni di violino al signor Marcello, e siccome era un bel giovine, s'innamorò della ragazza. PRESIDENTE. Della signora Gioconda? TESTE. Questo è quanto ho sentito dire. Ma, venendo a noi, pare che questo signor Marcello per gelosia, non per altro, abbia fatto picchiare un po' bruscamente il rivale e che, senza intenzione di fargli del male... (ilarità) cioè, di fargli l'estremo oltraggio, di ucciderlo insomma, sia stato la causa della sua morte. I Tanelli l'hanno cacciato di casa, Gioconda non ne volle sapere e ora sposa il signor Manganelli imbiancatore, che sta nella medesima casa, ma in quell'altro cortile. PRESIDENTE. Non ne sa di più? TESTE. Questo è quanto. Del resto ogni uomo è suscettibile d'errore. (Il teste parte salutando a destra e a sinistra). PRESIDENTE. Vediamo un po' meglio questo episodio di Gioconda. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . (È chiamato il signor Gaspare Tanelli, sarto da uomo, che entra senza levare il cappello, più scompigliato delle sue idee: il povero uomo non si è mai trovato, pare, in più brutto impiccio). [140] PRESIDENTE. Mi dica perché l'accusato lasciò la sua casa. TESTE. Perché lasciò la mia casa? Dopo la morte di quell'altro non volle più restare. PRESIDENTE. Conosceva il Lucini? TESTE. Se io conoscevo il Lucini? di vista. PRESIDENTE. È vero che l'accusato fosse fidanzato o amasse Gioconda? TESTE. Credo di no ed io lo diceva sempre a mia moglie Brigida: "T'inganni, t'inganni". PRESIDENTE. Come mai la signora Brigida era indotta a credere che il vicino amasse la figliuola? TESTE. Come mai? la Gioconda aveva raccontato che il signor Marcello le aveva susurrato qualche parolina. ACCUSATO. È falso: io non ho mai parlato alla Gioconda. PRESIDENTE. Ebbene, si chiami la signora Gioconda. (Movimento di curiosità nel pubblico). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . (La signorina veste modestamente, e prende posto in una sedia in faccia al Presidente, senza alzare gli occhi). PRESIDENTE. La sua età. TESTE. Ventisette. PRESIDENTE. Scusi. Presti prima il giuramento di dire la verità e non altro che la verità. TESTE (presta il giuramento). PRESIDENTE. La sua età? TESTE. Trentadue anni. (Ilarità). PRESIDENTE. Conosce l'accusato? TESTE (con voce bassa). Sissignore. PRESIDENTE. È vero che egli fosse il suo fidanzato? TESTE. Nossignore. PRESIDENTE. O almeno il suo amante? TESTE (arrossendo). Nossignore. PRESIDENTE. Eppure si diceva che egli avesse promesso di sposarla. (Il teste Leonardo Lasca, droghiere, conferma la voce di intime relazioni fra l'accusato e la Gioconda. Così varii vicini della casa). IL TESTE TANELLI. Forse mia figlia si era ingannata... PRESIDENTE. In che modo? Signora, ella è nel dovere di dare delle spiegazioni. [141] TESTE. Alcune sere io incontrai una persona innanzi all'uscio del signor Marcello; stava aspettando ch'io tornassi col cesto della biancheria. La scala non era troppo illuminata e ho sempre creduto che fosse il signor Marcello. Qualche avvocato vorrebbe che il processo continuasse a porte chiuse, ma il signor Manganelli, imbiancatore, spiega come egli stesse tutte le sere aspettando la Gioconda innanzi all'uscio del signor Marcello, mentre questo era a pranzo all'osteria. Il signor Manganelli, uomo maturo, è innamorato della bella Gioconda, e le susurrava paroline graziose. PRESIDENTE. Ma come mai fu possibile l'equivoco? TESTE MANGANELLI. Non erano che brevi parole: ella aveva sulle braccia un cesto di biancheria. PRESIDENTE. Era di sera? TESTE MANGANELLI. Cioè di sera, non già la mezzanotte, ma un po' sul tardi. PRESIDENTE. Ed ella, signorina, credette in buona fede che fosse il signor Marcello? GIOCONDA (con un fil di voce). Si... PRESIDENTE. Ma come non si accorse dell'inganno? GIOCONDA. Avevo le mani impedite. (Ilarità)(2) PRESIDENTE. Il signor Leonardo Lasca insiste ancora ad ammettere questi intimi rapporti?... TESTE LASCA. Io ho veduto le lagrime d'una povera madre. PRESIDENTE. Che risponde il teste Manganelli? MANGANELLI. Che la signora Brigida fu persuasa delle mie dichiarazioni, e mi ha concessa la mano di Gioconda. PRESIDENTE. E il signor Tanelli? TANELLI. Cosa dico? nulla. Quel che fa mia moglie è sempre ben fatto. (Ilarità). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La tragedia per poco non si muta in commedia. Sono successivamente sentiti altri testi, come il cuoco dell'osteria vicina, che si lamenta soltanto del violino dell'accusato, il rettore del seminario, il quale non fa che elogiare il prevenuto. [142] PRESIDENTE. Ebbe, reverendo, qualche volta a lagnarsi della sua condotta in seminario? TESTE. Qualche volta e più volte, ma erano questioni d'ordine interno. PRESIDENTE. Vorrebbe accennarle? TESTE. Portava la berretta un po' alla soldata, leggeva qualche libro profano... inezie!... PRESIDENTE. Qualche romanzo francese, di quei che esaltano la fantasia? TESTE. Eh no! oh no! librettucciacci... che so io? PRESIDENTE. Accenni questi difetti. TESTE. Mettere una gamba sull'altra, dormire col ventre in giù... Piccolezze, puerilità, buon Dio! ma nel resto bono, bono, bono. Altre relazioni tratte dai giornali: "Sappiamo, a proposito del processo Marcelli, che tutti i testimoni si sono trovati d'accordo nell'ammettere nell'imputato l'incapacità a delinquere e fin qui una condotta irreprensibile. Altre prove circostanziate verrebbero a provare che l'imputato non ebbe alcuna mano nel brutto affare del povero Lucini, stanteché egli abbia potuto provare l'alibi, e nessun movente al delinquere. Il Marcelli fu vittima del suo buon cuore e di una trama ben più estesa, di cui l'Autorità tiene in mano già i fili. Esiste un colpevole d'assassinio, e un colpevole di falsificazione, ma non sono a ricercarsi davvicino. L'Autorità procede". Un giornale più popolare aggiungeva: "Sappiamo da fonte certa che l'assassino del povero Lucini fu il vecchio marito di Marina, contro il quale fu spiccato mandato di cattura. "In questo processo, che il signor Presidente in principio aveva preso con troppo calore, vedemmo come il magistrato non debba mai perdere il suo occhio sereno. "Non possiamo lasciare nell'oblìo la splendida e brillante difesa che le fece il nostro egregio amico avvocato Del Fosco, con quella sua vis oratoria che tanto lo distingue. Egli disse come sul [143] prevenuto erano venute a piombare, come tre fulmini, tre accuse: assassinio, falso, e offesa alla morale; come non una risultasse vera, sebbene per i difetti enormi del nostro codice si sia nel pericolo di pesare la mano sull'innocente. Egli prese di qui l'aire per una frase felicissima contro la pena di morte che definì "la grande insidia degli uomini che non hanno una testa da perdere"; biasimò la rigidezza di certe feudalità che vorrebbero inalberare il sistema della mannaia (nessuno di questi milita per fortuna nel nostro partito), e concluse: - Tempo s'innova, dice il poeta, e io spero non lontano il giorno che il popolo fatto giudice di se stesso non avrà né colpe da punire, né rimorsi d'aver troppo punito. "Il valente oratore fu applaudito e noi crediamo che l'avvocato Del Fosco riempirà un bel vuoto nel Foro". [144 bianca] [145] PARTE SECONDA Per quanto riguarda la storia del Sultano e di Marina, Marcello ebbe occasione di parlarne a lungo con uno dei più gagliardi ingegni, il quale aveva conosciuto molti dei nostri personaggi; onde lo pregò di scriverne una relazione, che potesse collocarsi in queste pagine. Ma l'amico è un poeta irrompente e una volta presa la penna in mano, si trovò come a cavallo; perciò credo meglio fatto mettere qui per disteso il suo racconto, ringraziandolo pubblicamente del sollievo che mi presta in questa fatica. I nomi, per quei riguardi che si devono a tutte le persone e specialmente a coloro che li meritano meno, saranno ancora quelli supposti da Marcello e usati fin qui. I IL SULTANO E L'ODALISCA IL CUORE ha i suoi abissi come il ghiaccio, e chi li esplora è più temerario che forte. Devo narrare una storia di colore oscuro, attraversare una regione di tenebre, dove ciò che appare non è luce, ma pallore. Il Sultano dopo una vita non vissuta, dopo aver tradito e abbandonato una donna e un bambino, senza rimorsi, aveva lasciato Napoli. Qualcuno lo incontrò al Cairo, ricchissimo: negoziava pel Viceré non in tabacco o in statue, ma in un altro genere più prezioso di consumazione. Due sentimenti gli erano rimasti, il gusto della bellezza e dell'oro: tutti gli altri erano stati sfrondati e potati, come fa l'ortolano che vuole pochi frutti grossi e meravigliosi. Conosco degli uomini che semplificano la loro vita a un gusto solo: alcuni sono ventre, altri scrigno, altri tutta lingua. Il nostro Sultano vedeva almeno con due occhi, uno azzurro e l'altro d'oro. Tornò in Italia dopo dieci anni, ricchissimo, calvo, tondo, senza più un briciolo di cuore, e girandolando di città in città per [146] scappare di bocca allo sbadiglio venne finalmente a Venezia e vi si stabilì. La sua conversazione era piacevole, specialmente se fatta a voce bassa in un angolo d'un caffè. Chi ha viaggiato ha questo vantaggio, che può dilatare la fantasia sopra lo spazio, invece di accartocciarla come una pillola in un vaso: perciò sebbene la voce del Sultano fosse rauca e come impastata all'ugola, il gesto corto e la parola comune, pure la nativa eloquenza e la buona fede degli ascoltatori lo rendevano il pernio del caffè, dove convenivano, come i raggi d'una ruota, negozianti, agenti di cambio, studenti al verde, gente zoppa negli affari, cantanti e fioraie. Il Sultano aveva una parola per tutti, ma sempre nel proprio interesse. Fumava in una pipa di porcellana e i baffi di fumo, uscendo a globuli densi, davano l'imagine di pensieri convolti, che evaporassero da un cervello malsano. A volte sulla fronte grossa e nuda precipitava un vero nembo di rughe, come onde che si susseguono. Il labbro anch'esso cessava dal succiare la pipa, e la bocca grande, sgangherandosi un poco per la distrazione della mente, mostrava pochi denti gialli che nuotavano in un mare di saliva e di fumo. Visto sotto questo punto era brutto, ma a un tratto poteva darsi che egli rompesse in una risata grassa, per non so quale accidente, e allora le rughe scappavano, salendo la loro scala fin dietro la nuca, ove addensavasi un po' di ciccia, gli venivano gli occhi del rospo, e l'ilarità saltellava visibilmente nel suo ventre. In uno di questi istanti allegri, Marina passò sotto i portici del caffè, a braccio di suo padre; questi salutò il Sultano, che conosceva alquanto. Andarono oltre, ma li seguiva uno sguardo fra colonna e colonna; la testa del Sultano, colla pelle tesa e colle orecchie aperte pareva che s'ingrossasse. Egli veniva dal Cairo e aveva vedute molte bellezze circasse e greche; di molte avrebbe potuto dare la misura in centimetri, ma nessuna gli era sembrata così bella, come la figliuola del ragioniere G. P. Fosse l'aria del suo paese, la buona compagnia, o la sicurezza della vita, gli parve che il cuore ritornasse a pulseggiare, e il sangue rifluisse in su e in giù con un movimento più rapido, e si guardò l'unghie, che avevano un riflesso d'aurora. Il vecchio credette di amare quella fanciulla, e misurò l'amore immenso dall'immenso turbamento del suo corpo grosso: il vecchio Sultano era incapace di amore, spesso delirava. Marina era una fanciulla onesta. Ma il ragioniere da molti anni insanguinavasi la vita per comparire più che non fosse. Oriundo da una nobile e antica famiglia veneziana decaduta, avrebbe voluto volare con ali di stecco. Il Sultano sapeva leggere per lunga esperienza i geroglifici dei [147] caratteri umani e in quello sguardo, col quale seguì i due passeggeri, si sarebbe potuto scrivere, come nelle fascie dei quadri antichi: Io prenderò il pesce con un amo d'oro. Trovò molte difficoltà, perché si accorse ben presto che Marina era al di sopra d'ogni seduzione; ma l'ostacolo affila il desiderio, e più sommergi il sughero nell'acqua e con più forza rimbalza. Chiedere apertamente la mano della fanciulla, sperando di abbagliarla coi diamanti del Viceré d'Egitto, non gli parve sicuro: e qualche parola fatta arrivare di qua e di là all'orecchio di Marina, aveva ridestata la sua più schietta festività, dico propriamente quella scherzosa allegria, che versa un secchio d'acqua sui carboni. Il Sultano invece sentì più che mai il bisogno di spuntarla; aveva sete e non gli importava bere aceto. Fra i suoi amici che venivano di passaggio a trovarlo v'era un tunisino, d'origine francese, uomo d'ogni mestiere, che parlava ogni lingua e ogni dialetto e che sapeva facilmente essere l'amico di tutti. Costui ebbe occasione di trovarsi col padre di Marina, vecchio fanciullo, a cui l'età aveva imbiancato il pelo, non disseccata l'immaginazione. A sessant'anni o quasi, G. P. sognava le reggie vedute da fanciullo al teatrino: sua figlia vestita di raso con una corona di brillanti era immobile fantasma, che sedeva con lui a tavola, e fermavasi la notte a' piedi del suo letto. Il tunisino narrò i casi autentici di molte bellezze fortunate: qualcuna (e l'aveva conosciuta a Parigi o a Vienna o in California), si era addormentata sulla paglia, e svegliandosi si era trovata in un letto di penne di struzzo. La moglie del segretario del primo ministro olandese portava i guanti per nascondere le rughe del suo mestiere: prima faceva la zoccolaia. Il vecchio, udendo queste istorie, amava a poco a poco monsieur Talbot, e gli confidava i progetti, le speranze, le probabilità, che Talbot sapeva collocare secondo un mosaico già delineato. Quando fu sicuro delle disposizioni e della vanità senile di G. P., espose un progetto ardito. Egli aveva già in pronto molte centinaia di biglietti falsi, a cui non mancava che una firma: bisognava una mano sicura, valente, ignota. Era il fastidio di due giorni e un guadagno non limitato. Egli avrebbe saputo spenderli all'estero e sperperare tutte le traccie: in una notte G. P. poteva essere uomo ricco, dare una corona di diamanti a sua figlia, cercarle un principe russo, edificare una reggia. Aveva sessant'anni, e viveva ancora meschinamente: il panettiere minacciava tratto tratto di togliere il boccone a que' due labbri di corallo, che con un bacio avrebbero comperato un trono. Il padre fu assorbito dalla tentazione e Marina poteva avere una dote di centomila lire in carta. Un giorno il Sultano presentavasi [148] alla porta di G. P. e ritiratosi con lui in uno studio segreto, gli disse: - Monsieur Talbot mi ha pagato un vecchio debito in biglietti da cinquecento lire: tre erano falsi, eccoli qui. Il vecchio trasalì. In quel mentre Marina, vestita d'un abito bianco, entrava a portargli il caffè e fece all'illustre visitatore un sorriso abbastanza gentile. Erano tre persone convenute in un solo destino; stava per incominciare una vita a tre, numero fatale. Il Sultano sorbillò quell'istante, come si succia la midolla saporita d'un osso, e quando espose i pericoli e le minaccie, vide la fronte del vecchio padre chinarsi e sparire sotto un ciuffo di capelli incanutiti. Ciascuno di questi tre viventi era necessario all'altro come i tre piedi d'uno sgabello, e il matrimonio sollecitato da Marina con una vivacità inattesa, la devozione onde fu accolta in un palazzo dogale, le gemme, il fasto, il chiasso delle feste per un poco incipriarono il sacrificio. Nel primo sbalordimento sorse in ciascuna di queste tre persone un'esistenza provvisoria, durante la quale il vecchio si illuse di non aver fatto il più gran male e Marina credette adagiarsi in una beata accidia e il Sultano sentì tornare quel senso caldo di vita, perduto a sedici anni. Non era più capriccio in lui, ma quasi amore. Lo scheletro trovava la carne e nell'amore rinacquero i rimorsi d'una vita vagabonda e dei peccati sepolti. L'amore dà la gelosia come il buon vino l'aceto forte: il giorno che il nome di Linucci suonò disarmonico al suo orecchio, e che scoprì una segreta corrispondenza fra sua moglie e il giovane pallido, pensò se non era bene ucciderlo. Il Sultano nell'ira e nell'odio non si scapigliava: l'offesa gli entrava tra pelle e pelle, gli scorreva nel sangue, lo avvelenava a poco a poco, finché anche la vista ottenebravasi, le cose si annerivano, e un acre sapore amareggiava il suo palato. Dentro a questo buio la pupilla bieca vedeva però quel che era a farsi e così decretò di uccidere il Linucci. Aspettò ch'egli lasciasse Venezia, per allontanare l'orme del delitto, e seguito dal Marzani e da un altro farabutto, venne a Milano, fiutando la vittima. Questi tre uomini che portavano la morte avrebbero saputo dire che cosa ella sia? Il Marzani, prima di lasciare la buona moglie, l'aveva picchiata sì forte, col pretesto di amarla troppo, che la mandò per quasi morta all'ospedale; ella morì di spavento e la terra coprì la sua ciarla. Giunsero a Milano sul far della sera e il Sultano, che aveva chiaro il suo progetto in mente, segnò il colpevole ai bricconi, una notte che questi usciva dal teatro. Per una volta non se ne fece nulla, ma il giorno appresso, essendo riposo a teatro, i segugi seguirono la preda [149] e la strinsero in mezzo. Il Marzani prese una grossa somma e il treno per Genova, l'altro dileguò come una rana che salti nel fango. Il Sultano restò solo col suo delitto sulla coscienza: non avrebbe mai creduto che pesasse tanto un uomo morto, e che fosse più irto di spigoli il non essere che l'essere. Per fortuna egli aveva avviato anche un po' di bene, e cercò di nascondere la macchia di sangue con un ricamo d'oro. Dissi che coll'amore erano tornati i rimorsi dei peccati sepolti. Infatti nella breve illusione d'una vita buona, domestica, il vecchio si accorse che in lui v'era anche il padre, e per ringraziare la fortuna, aveva pensato di cercare di suo figlio a Napoli. Non vi aveva lasciata una donna e un bambino? Scrisse a un amico perché se ne occupasse, ma la risposta tardò a tempo. In apparenza tranquillo, una sera il Sultano leggeva un ampio foglio francese nel gabinetto dell'Hôtel de la Ville. Gli erano vicini due inglesi, uno mezzo principe, una baronessa, e un cameriere che a volte prendeva i lineamenti del Linucci, anche lui giovane e scarno, con un bel bosco di capelli. Fu una lettura difficile: la Camera francese era in disaccordo, ma non si grida tanto nell'assemblea di Versailles come nella coscienza d'un omicida. Egli fissava le parole, le quali prendevano il capriccio di ballare, di sgangherarsi, di allargarsi, di gonfiarsi fino alle proporzioni di mostri umani. In quel mentre il cameriere gli portò una lettera sopra un bacile d'argento, - Che devo farne? - domandò, vedendo sul bacile un fazzoletto macchiato di sangue, ma sorrise, ravvedendosi, e aprì quella lettera che portava molti sigilli di ceralacca. Gliela mandava Marina, che l'aveva alla sua volta ricevuta da Napoli. Sentì allargarsi il cuore riconoscendo la firma dell'amico, e leggendo le prime parole: "Sei fortunato, tuo figlio vive". Nessuno saprebbe descrivere il gaudio che scintillò nell'anima tenebrosa del Sultano, il quale sentiva il bisogno di riempire una lacuna. Da ventiquattro ore - tante erano decorse dal colpo - gli sembrava che il mondo avesse perduto l'equilibrio e il sentimento di paternità si trasformava quasi in un desiderio di peso. Vive! chi ha creato un uomo - pensava - ha meno colpa se ne distrugge un altro, perché l'ordine non si turba. Non gli dispiacque nemmeno che questa gioia gli venisse in certo qual modo da Marina; ma chi regge i fili dei nostri destini doveva sogghignare di lui dall'alto della sua specola. [150] "Tuo figlio vive. Dopo una vita errabonda, condotto a Parigi da certi bricconi di qui, venne per fortuna a cadere nelle mani di un tal Linucci, maestro di musica, che lo fece studiare sotto il suo nome e a sue spese nel conservatorio di Napoli. Ora viaggia, e vive onestamente de' suoi guadagni. Ma non saprei indicarti ove al presente egli si trovi". Così la lettera. Sotto il pavimento a mosaico di quella sala rullava qualche cosa che incuteva spavento: il Sultano guardò a destra e a sinistra e vide quattro faccie che gli ridevano scioccamente sul muso, e la vista gli faceva sangue. "Non saprei indicarti ove al presente si trovi". - Se fosse sotterra? - disse la coscienza. Trasudava, ma sempre cogli occhi fissi a quella lettera: cercò una migliore soluzione sul giornale francese, ma il signor Gambetta non restava dal gridargli: Oui, oui, toi, toi, e lo indicava con un dito acuto e tagliente come un fioretto. Provò a muovere i piedi, ma nelle scarpe erano colate dieci libbre di piombo, che si congelava. Il Sultano sapeva formarsi l'idea d'ogni più orribile delitto; ma smarriva i colori del suo delitto. Sarebbe stata una pena atroce, indegna dell'umanità, il costringerlo a darsi un nome in quel momento. Fra le parole del vocabolario - e intanto adocchiava un grosso vocabolario posto in uno stipo - in tutte le migliaia di parole di quei vocabolari stranieri (ve n'erano schierati parecchi) non una bastava per lui. Dio stesso non l'avrebbe chiamato: egli era un uomo senza nome. Orrore! I pochi capelli del capo sentivano il raccapriccio dell'anima, e si agitavano come serpi assiderate che si svegliano: egli aveva forse ucciso suo figlio. Restava un forse e vi si attaccò: poteva esservi uno scambio di nomi, e il parricida forse non era che un assassino. Vedete com'è larga la scala del bene e del male! Io non posso innanzi a quest'uomo far a meno di pensare ai rimorsi della monacella, quando si adira un poco col suo stornello. Vi penso e meraviglio come innanzi al sistema degli astri. Mi pare che il mio pensiero, poggiando a questi estremi e coprendo tutto lo spazio di sotto, acquisti la curva e l'immensità del cielo. Il Sultano si aggrappò a quel forse e poté levarsi dalla poltrona. Si chiuse nella sua camera, quella particella dubitativa fu un palmo [151] di terra nell'oceano; egli vi si piantò con un piede. Senza velare palpebra stette immoto nella contemplazione di quel forse tutta la notte, sperando che il sole non spuntasse più sulla terra. È probabile, grazie a Dio! questa condizione della probabilità è il compenso della vita: un fatto certo è una durezza che ci arresta, il dubbio è il flutto che ci spinge innanzi. Molta gente vive rosicchiando un forse, molta gente muore per troppa certezza. Il punto d'interrogazione è la molla della vita: il punto fermo il chiodo. Il giorno appresso il Sultano partiva per Napoli, non osando cominciare le sue ricerche da vicino, per non venire troppo presto al risultato. Lo scopo del suo viaggio era di scoprire se il vivo coincideva col morto. Trovò la Giuditta pescivendola, amica della donna tradita, e seppe che Linucci viveva, anzi le aveva scritto mandandole denari per una corona di fiori da mettere sopra la croce di sua madre. Egli abitava a Milano sotto il nome di Lucini, in una casa sul Corso, benissimo indicata nella lettera. Il Sultano non trasalì; l'irritazione dei nervi era caduta: era inzuppato e floscio. Tornò a Milano spinto da un barlume di volontà, ma pesante come una mole. Non era più speranza che lo tirasse, ma curiosità. - Abitava qui Giorgio Lucini? -- domandò alla portinaia dalla casa sul Corso. - Sissignore, è uscito un'ora fa, e non può tardare. - Dico Giorgio Lucini - ripeté il Sultano, il quale non voleva che i morti tornassero. - Appunto, il professore di violino... - È uscito? - Sì, conosco il suo cappelletto verde. Anche il Sultano conosceva questo cappelletto e sorrise. - E tornerà? - Diavolo... - Allora lo aspetto sulla scala. Montò alcuni gradini tirandosi su con le braccia. Poteva essere vero che suo figlio vivesse? non gli aveva il Marzani rubato un portafoglio col ritratto di Marina? non aveva egli stesso, nascosto sotto una porta, udito i colpi maledetti? non aveva traveduto nell'ombra un corpo disteso ginocchioni a brancicare, a boccheggiare contro il muro? Come mai la portinaia l'aveva veduto sano e fresco uscire quella stessa mattina? Che Linucci avesse uno stomaco di bronzo? perché no? Dio è grande e misericordioso. Se egli poteva rivedere suo figlio, era uomo da rinunciare a Marina, da ritirarsi in una solitudine, da spendere tutto il suo denaro in opere buone. Se c'è [152] Dio - borbottò - avrà provveduto perché il mio delitto non sia possibile sulla terra. Aspettò un'ora. Forse molta gente gli passò innanzi, ma egli non vide nessuno: non avrebbe sentito i carboni accesi sotto le piante, e tutta la vita radunavasi nel cranio: il resto non era che involucro. Finalmente un passo suona per la scala e il Sultano che vegliava sul pianerottolo in alto guarda giù e vede... potenza divina! un mantello col bavero di pelo, e un cappelletto verde che monta, monta verso di lui. Il sangue, che s'era raggrumato in alto, precipita caldo per tutte le vene, gli pare d'essere raggiante, sta per gettare un grido, per precipitarsi incontro. Corre innanzi all'uscio per tardare mezzo minuto ancora la estrema certezza: mancano tre gradini; egli canterella... svolta. Non è lui! non è il suo volto pallido, non sono i suoi capelli abbondanti, non il suo sguardo. Ebbe paura di essere scoperto e richiamò sul volto la maschera del cinismo. Aveva già troppo sofferto per suo figlio e bisognava pensare al modo di salvare la pelle. Udito da Marcello il racconto esatto della morte di Giorgio, gli lasciò una matassa aggrovigliata fra le mani e tornò rapidamente a Venezia per non perdere Marina. Bisognava fuggire senza por tempo in mezzo, e trascinarsela dietro. Finita la strage incominciava il bottino. Nessun uomo - se lo sentiva - era più abbietto di lui: forse era invecchiato di dieci anni, e fra le rughe e le allumacature delle pomate doveva scaturire un ceffo da gorilla: che importa! Marina era sua, e l'avrebbe seguito, perché colpevole più di suo padre. Giunse a Venezia a mezzanotte in punto. Scese in una gondola tutto solo e disse al gondoliero di condurlo a casa: il nome del palazzo fece inchinare quel dabben uomo, che silenzioso, ritto in piedi sulla prora della gondola nera come una bara, entrò negli stretti canali, sepolti fra due muraglie di case, che si facevano sempre più vicine, più cupe, più fantastiche. Non splendevano stelle, né lumi alle finestre; il fiotto dell'acqua morta e livida schiamazzava contro la base delle muraglie screpolate, e spiravano buffi di tanfo e di nidore dai vicini nascondigli. Approdò a una scalea: suonò un campanello e al servo che aprì un finestrino rispose: - Son io! - Quella voce nel mezzo della notte e in tanto deserto aveva un non so che di meraviglioso. Anche il Sultano in quel minuto d'aspettazione, girando lo sguardo intorno, provò come un sentimento di potenza, che gli veniva forse dai maligni spiriti. - La signora... - disse al servo. [153] - Dorme: non l'aspettava. - Nel mio studio. - Il servo andò innanzi, salì tre o quattro scale, e alzò la portiera del ricchissimo gabinetto. Aspettava gli ordini, ma un gesto spiccio lo licenziò. Egli attese che nella casa fosse tornato il silenzio e si mosse verso una poltrona. In faccia all'uscio per cui era entrato, si andava per un altro in un salottino, e di là nella camera nuziale. Il Sultano fissò gli occhi da quella parte. Si avvicinò alla porta, la tentò, ma lo scricchiolìo che diede gli fece battere violentemente i polsi: pure aprì, e passò nel salottino buio e deserto. Ma le tenebre erano dense, e ricacciò la testa nel suo salotto per bevere la luce. La frangia della tenda gli rasentò l'orecchio ed egli vi portò le mani come si fa contro un ragno. Tornò di qua:, prese il lume e stette immobile, a guisa di sostegno, nel mezzo della stanza; si vide nello specchio e soffiò sulla candela. Credette di aver sulle spalle un teschio da morto. La solitudine lo affogava: cercò, tastando, l'uscio del salottino, e poi quell'altro della camera da letto, con la pressa di chi è inseguito, e s'arrestò innanzi a un bagliore improvviso. Marina vegliava al lume d'una grande lucerna a globo, e leggeva un po' sollevata sul guanciale, con un braccio al di sopra della testa. - Siete proprio voi? - disse la signora, che di solito sentiva l'avvicinarsi di suo marito come l'indiano la presenza del crotalo appiattato. - Non ero aspettato? - Egli posò le mani sulla sponda del letto e vi si tenne. - Di giorno in giorno, ma non a quest'ora. - Marina! - Cos'avete? siete livido. L'occhio cristallino del Sultano si fissò. Stette alquanto con la bocca aperta a un mezzo sorriso, inteso a trovare le parole; ma i suoi pensieri erano come i tipi di una pagina stampata, buttati e scossi in un sacco. Marina, che nei momenti di maggior dispetto usava l'artificio di ridere, diede o meglio squillò in una risata schietta. Nella sua voce v'era proprio un filo d'argento. Abbandonò del tutto la testa sui guanciali e deposto il libro fece alla testa una cornice quasi tonda con le braccia. Il Sultano la vedeva in mezzo al bianco dei pizzi e dei lini e non poté trattenersi da dire a se stesso: È mia. Questa parola lo pagava tutto. Che gli importava se il cuore della donna fosse ancora altrove, purché non cessasse di battere? Non era uomo troppo vigoroso, ma pigliava le cose a fascio, schiumava la vita. Marina pareva proprio immersa nella spuma, come la bella dea [154] del mare; che non vi si potesse affogare qualche rimorso? - Cos'avete dunque? - ripeté Marina. - V'è un gran pericolo per vostro padre - prese a dire il traditore - ed è necessario che domani mattina si parta da Venezia. - Per mio padre? Spiegatevi. - A Genova è stato arrestato monsieur Talbot. - Talbot, il tunisino? - Sì, per nuove falsificazioni. - Mio Dio! - E l'autorità avrebbe la volontà di scendere più a fondo. - Mio Dio! - ripeté la bella donna, mettendosi alquanto a sedere, retta da un gomito e con una mano intrecciata alcun poco nei capelli. Il Sultano vide disegnarsi sulla parete un'ombra colossale, che poteva essere un sogno di Michelangelo. La notizia data così nuda e cruda parve possibile, ed egli poteva fregarsi le mani dentro di sé. - Mio padre per fortuna è qui: da due giorni si sente tanto indisposto che l'ho trattenuto in palazzo. - Tanto meglio. - Che possiamo fare per lui? - Due cose: o farlo fuggire solo, e voi, imagino, non lo permetterete; o partire insieme. - Partire? dove... - Certamente molto lontano e subito. Non bisogna aspettare il grosso della procella. - Partire? forse per sempre... Nel modo che Marina pronunciò queste parole il Sultano, avendo la chiave del segreto, capì ove ella mirasse. Era lasciar per sempre il Lucini, e sulle prime il buon marito ebbe un impeto di rabbia. Ma poi pensò meglio a questo Lucini, si ricordò chi fosse, dove fosse, e la voce lamentevole di Marina fu un picchio al cuore. - Partire! mio Dio, com'è possibile? - e si coprì la faccia colle mani: poi, sentendo di non poter ricacciar le lagrime, scosse la testa come per rifiutarle e singhiozzando cadde col volto nascosto fra le coltri e le braccia. Il rimorso diede ancora un rantolo nel cuore del Sultano: ogni singhiozzo, che usciva a intervalli, forte, straziante, gli ricordò i colpi assassini contati nell'ombra d'una viuzza storta. Anche il vecchio sentì montare come un'ondata amara; Marina aveva ben ragione di piangere: quanto amore, quanta maledizione in quelle lagrime. Fu preso da un capogiro: vide la stanza inginocchiarsi, e le pareti piegarsi a zeta. Il filo della prudenza che l'aveva tirato fin lì si ruppe e anch'egli cadde indegnamente ai piedi di quel letto esclamando: [155] - Ah! io l'ho ucciso; salvami, Marina; nascondimi. Marina alzò la testa e se lo vide d'accosto. Rifuggì inorridita. - L'ho ucciso. - Chi? - Ma il cuore le rispose subito da sé. - Ho ucciso mio figlio. - Tuo figlio? chi è tuo figlio? ne avesti mai? - e lo guardava in modo spiritato per tenerlo ginocchioni e saper tutto. Il Sultano capì d'essere uscito dalla buona strada, e si sforzò di rompere in una bella risata, per buttare tutto allo scherzo. Ma le labbra e le mandibole irrigidite e dure non volevano rispondere alle crudeli contraddizioni del padrone; pure gli riuscì di sorridere, e si alzò con umore gentile e carezzevole. - Marina, ho voluto provarti: qualcuno mi disse stasera che da un pezzo tu mi tradisci. La donna non si scosse, non fiatò. - Ecco perché son tornato a quest'ora: ecco perché ti parlo in tono di vendetta. Marina non osava credere che egli s'ingannasse davvero. - Io sono sicuro che se anche frugassi qui intorno, non avrei nessuno da uccidere, n'è vero? Marina rispondeva con piccoli movimenti del capo: la vita era negli occhi. - Non se ne parli più, mia cara: ti lascio colla buona notte... Ella cercò trattenerlo, ma non potè chiamarlo. Lo vide uscire passo passo, colle spalle curve, barcollante, preso da vertigini, e seguì per un pezzo il trambusto sordo ch'egli faceva di là, nel buio. Che le restava a credere? che le diceva il cuore? cose orribili senza nome. Suo marito era ubriaco, pazzo o feroce? Perché si era inginocchiato? perché aveva nominato suo figlio? Il Sultano si compiaceva delle tenebre. Si agitò a lungo nel salotto vicino, sia che i piedi fossero ritrosi, sia che la bussola del pensiero si sbilanciasse, sia che gli piacesse avvoltolarsi nell'ombra. Felice se avesse potuto uscirne nero e trasfigurato! Ma fra tanta vergogna non gli sortì mai l'idea di uccidersi: tra i morti aveva dei nemici conosciuti, e di qui sperava nel caso. Quella notte bevette molto rhum, per rischiarare di molti fuochi fatui il cupo sotterraneo dell'anima; gozzovigliò da solo, folleggiò con se stesso, finché non sentì le gambe piegarsi di sotto e la testa ingombrarsi di sonno. Era necessario che dormisse, e strettosi in un tappeto si sprofondò nella poltrona innanzi al camino. Ardeva un po' di fuoco; la bottiglia gli giaceva fra i piedi; il soprabito di viaggio col molto pelo pareva una belva accovacciata sopra una sedia: la [156] candela smoriva intorno al fungo del lucignolo. Qualcuno cominciò a schiacciarlo, senza però che egli soffrisse tortura: i fumi di due o tre liquori, cozzando fra loro, riuscivano a trasfigurarlo in esseri e cosi grotteschi: a poco a poco scomparì a se stesso, né gli rimase che un ruvido sentimento, come se fosse un vivo mucchio di cenci. Dopo una mezz'ora russava. Marina invece si dibatteva fra le più orribili paure: sentiva il pericolo, ma non sapeva dove fosse. La notte era muta, e tendendo l'orecchio la poverina sentiva solamente il picchiare violento dei suoi polsi. Pensò di venire in traccia di suo marito e di strappargli con qualunque arte la verità. Vestì un'ampia sottana di flanella bianca, si imbacuccò la testa d'uno scialle morbido di marcellina color fumo, e venne a spingere l'uscio dello studio. Sentì ch'egli russava, e si avanzò senza strepiti, posò il suo lume sulla tavola di mezzo, osservò il disordine della stanza, e la testa dell'ubriaco che ricascava sul petto, le sopracciglia piatte, le labbra contratte a un'espressione di ribrezzo, e i pochi capelli tirati a prolungare le orecchie. Marina avrebbe voluto leggere il gran segreto sulle rughe e sulle pieghe del volto; avrebbe voluto sentirlo nei rantoli brevi che ingombravano il mantice d'una respirazione grossa ed eguale. Frugò nelle tasche del soprabito, trovò un portafogli, molte carte, un giornale: sfogliò, rovesciò ogni cosa sulla tavola: percorse con un rapido sguardo la cronaca cittadina di quella gazzetta milanese; aprì qualche noterella, la buttò la riprese, l'animo stretto, quasi sospesa nell'aria, le dita agili e metalliche, finché trovò una lettera colla data di Napoli, e un nome ignoto. Lesse in fretta quelle righe, ma non capì: si appoggiò coll'anca alla sponda della tavola, si fece più sotto al lume, e vide che si parlava del figlio di suo marito. Dunque viveva un figlio del Sultano, stato da lui abbandonato: il nome di questo figlio... Poteva essere? ella non sognava? non v'era modo di svegliarsi da quel pauroso letargo? Molti altri spaventi erano scomparsi col dar volta nel letto, col non dormir più sul cuore, col tornare del giorno. Il sangue cominciava a intirizzire. Ma pur troppo non era sogno, appunto perché avrebbe voluto sognare: la carta di quella lettera crepitava davvero fra le dita, e le ore d'un orologio vicino suonarono, una, due, tre, con tocchi lenti, solenni, lasciando dietro di loro un'onda maestosa. Provò a leggere ancora: il Sultano aveva un figlio che si chiamava Linucci, il quale era vissuto esule e vagabondo a Parigi... Era [157] una storia assai nota a Marina, che l'aveva udita più volte dalla bocca stessa di Giorgio: questo sogno passava i limiti della probabilità, era troppo stravagante per sogno. Forse era una storia vera! Che aveva detto poco prima quel miserabile? non aveva nominato suo figlio? l'aveva ucciso? perché?... Ah! la punta al cuore! Frugò ancora fra quelle carte: ecco un ritratto con una scritta che dice: "Mi terrai sempre sul cuore". È lei stessa. Sentì la terra tremare, e fu per gettare un grido: ma non gridò, non cadde perché fra lei e l'ubriaco correva un fascino: colle mani, colla volontà, con un impeto prepotente del petto trangugiò il suo dolore. Si tenne salda, si aggrappò meglio, cadde sopra una sedia, digrignando i denti e pensando se dovesse afferrare un tizzone. Anche il Sultano sentiva la nausea di un'atmosfera malsana, e aprì una volta gli occhi. Aprì una volta gli occhi, ma non si svegliò; il suo sguardo era cieco, come quello dei morti. Marina avrebbe voluto piangere, ma più del dolore spadroneggiava in lei l'ira e la follia. Uscì da quella stanza, tratta da un impetuoso pensiero e, tentoni attraverso il buio, giunse al pianerottolo dello scalone. A destra si allungava un corridoio, che finiva in un finestrone ad arco acuto, con vetri arabeschi, in cui batteva qualche cosa meno dell'ombra e che non era luce. Nel resto silenzio. I polsi del capo battevano come martelli, lanciando scintille nel buio: v'è un'angoscia in cui anche i pensieri stridono, e l'anima, come presa d'artrite, non può agitarsi senza spasimo. A tale era giunta la poveretta. Che faceva lì, sola, in cima a una scala, a quell'ora? Sapeva che in fondo a quel corridoio si apriva una terrazza a piombo sul mare, e si compiacque di fissare lo sguardo in quel barlume, che spiccava nel fondo, come se fosse l'alba d'una nuova esistenza.. A quell'ora tutti dormono a Venezia, e le nere gondole si raggruppano negli spigoli coll'aria di gente che susurra. Nessuno sarebbe accorso al tonfo. Così pensò. Ma per giungere fino alla terrazza bisognò passare innanzi ad un uscio, mezzo nascosto in un andito; ivi era la camera di suo padre. Qual pensiero? che meritava ancora quest'uomo, causa prima de' suoi mali? Strinse la tempia fra le due mani, socchiuse gli occhi e sciogliendosi con estrema violenza da quell'ultimo sentimento di pietà, che la tratteneva alla terra, si sentì come attratta dalla voce del morto [158] amico. Credeva, morendo, di cadere nelle sue braccia: certamente v'era in quel delitto qualche voluttà. Corse, ma un filo di luce, che usciva dalla camera di suo padre, fu come una sbarra di ferro. Marina esitò, e si resse in piedi, contro la parete del corridoio, gli occhi immobili. Non era mai stata tanto perversa, e la pietà non estinta de' suoi primi anni sorse a combattere l'ultima guerra. Che sarebbe di suo padre, quando ella fosse morta? Il mondo cercherebbe le ragioni della sua morte e il disonore, scontato quasi con tanta pazienza, sarebbe il suo suffragio. Il vecchio ragioniere, che per abitudine dormiva poco, stava innanzi a un tavolino, sotto una piccola lucerna, intento a calcolare in molte colonne gl'interessi scalari d'una somma di milioni fantastici. Era il suo peccato e il suo castigo: raschiava cifre d'oro, ne cercava i filoni nelle astruserie aritmetiche, egli che per poco non era annegato in una goccia d'inchiostro. Era molto invecchiato; i patimenti non tanto, ma le speranze consumavano, limando a poco a poco, la sua vita. Cercava non avvedersi dei sacrifici di Marina e abusando di liquori, godeva qualche soave visione. Marina sentì la voce rantolosa del vecchio, che calcolava: se monsieur Talbot era veramente arrestato, nessuno l'avrebbe tenuto dall'accusare il complice per dividere la pena; suo padre aveva un corpo di ferro e un'anima vile, e credeva migliore la prigione che la morte. Che sarebbe di lui già cadente, quando il Sultano non gli offrisse i mezzi di fuggire, o per vendetta lo accusasse egli stesso? Marina traguardò nella piccola apertura dell'uscio e vide i lineamenti biancastri di suo padre, e la fronte nuda e lucente sormontata da un fiocco bianco di capelli. La stravaganza che precede solitamente la pazzia, traspariva nell'aggrottare spesso delle ciglia, nel figgere ch'egli faceva lo sguardo in una pigra contemplazione del nulla, nel sorridere a conclusione di calcoli bislacchi. Se Marina mancava a suo padre, il Sultano, Talbot, i ministri della giustizia, le leggi, i carcerieri, per dispetto, per ira, per dovere, tutti gli sarebbero venuti addosso. La forza e la prepotenza, che si fa zimbello dell'imbecillità è spettacolo che fa piangere. Marina in buon punto sentì la dolce violenza della pietà, e non osò fare un altro passo verso la morte. Ma stretta anch'essa fra la vita e la morte, spinta dalle furie, trattenuta dalla compassione, costretta a pensare, a provvedere, a costruire, mentre stava per distruggere; non potè resistere agli strappi di tante contraddizioni e si sentì cadere. [159] Mandò un gemito come di supplica a Dio e batté mollemente la testa nell'uscio, che cedette. Il vecchio sollevò lo sguardo e vide sua figlia avvolta in poche vesti, pallida e come morta attraverso la soglia. Prima di sera in quel palazzo non abitava che un vecchio custode. [160] II RITORNA MARCELLO DIRÒ fra poco perché io Marcello, dopo la via crucis del mio processo, venissi nella deliberazione fissa di correre in cerca di Marina. In quei dì, come ognun vede, io conosceva di Marina molto poco, e meno di quanto avete letto fin qui. Per parte mia, confesso, mi spingeva a questo viaggio di avventura un senso di curiosità pietosa, di amore cavalleresco, di capriccio fors'anche; ma non avrei vinto le obbiezioni di mio padre, senza una ragione sufficiente e superiore. Sappiate questo solamente: che io non viaggiavo solo. Lungo la strada e mentre mi passavano via via di sotto le vaste ed uguali campagne di Treviglio, e le colline e i monti di Bergamo, e i colli Euganei, e tutta una natura brulla e intirizzita ancora dalle guazze, io riandava sotto il cappelletto verde del povero Lucini la storia di questi avvenimenti. Il mio compagno, un signore garbatissimo, cercava farmi parlare, ma a stento uscivo dalla meditazione silenziosa di tanta gente, di tanti trambusti umani, pei quali mi agitava ancora, ansioso d'uscirne. Vedi, Marcello - diceva tra me - la volontà e gli abiti d'un povero morto ti hanno condotto fuori del tuo ordine comune di vita: eccoti in casa altrui travestito, ecco tutte le paure e tutti i pensieri d'una notte funebre; frughi fra le reliquie del morto, trovi una donna: insegui questa donna: trovi un delitto. La malizia umana ti accusa di corruzione, di omicidio, di falsità, e tu stai per affogare sotto il cumulo delle prove, stai per morire di rabbia. Chi ti ha salvato? chi ti conduce ora sulle traccie del colpevole, e di quella donna o fantasma che ti ha fatto tanto piangere e soffrire? Stranezze umane! un forellino di spillo. Tutto è falso intorno a te; i nomi dei tiranni e delle vittime sono adombrati di mistero: chi potrebbe dire la verità è morto, e Marcello e la giustizia umana non sarebbero venuti a capo di nulla, senza quel filo di luce dato da una finestra. Ora andiamo in cerca di quella finestra, sapremo i nomi veri, porteremo lo spavento al malvagio, la sicurezza all'innocente: vedremo facilmente questa Marina vera e viva. La giornata non era né bella né brutta, ma il freddo vivo. Il signor delegato (era il mio compagno), sempre garbato, andava istruendomi sul modo e sulle parole, colle quali doveva affrontare questo Sultano misterioso. Si temeva d'incontrarsi in un pesce grosso, si era fra cento incertezze, nel pericolo di offendere una [161] rispettabile suscettibilità e di lasciar fuggire il colpevole: questo Sultano chi l'aveva veduto? io solo, io, povero Marcello, tratto dalla fortuna maligna a essere agente di polizia, dopo essere stato il più grande colpevole, caso non affatto nuovo, credo, nella storia umana. - Ah Lucini! Lucini! - andava pensando mentre mi serrava alla vita il suo mantello - quanto mi costa la tua eredità! quel giorno ch'io potrò spogliarmi di questo abito non mio, spero che anche la tua povera anima uscirà dal mio corpo. Voglio tornare il Marcello di prima, povero, galantuomo, senza ambizioni. Il mio modo di vestire era creduto opportuno per sorprendere il Sultano, il quale, riconoscendo senza dubbio il mio costume, non avrebbe potuto celare un senso di raccapriccio. Passarono molte e molte stazioni e man mano che riscontrava le ultime sull'orario, un piccolo stringimento di cuore mi diceva che l'anima del povero Lucini era ancora dentro di me e fremeva all'avvicinarsi di quell'incontro. Fremeva al nome cabalistico di Sultano, provando, dirò, un impeto rabbioso e un desiderio di vendetta, e così al nome di Marina per una compassione misteriosa, che pareva veramente amore. Dopo molti giorni io era ancora nella condizione di annunciarle la morte di Lucini, ma era costretto quasi da un destino, che non era il mio. - Crede ella, signor delegato, - chiesi al mio gentilissimo compagno - crede che il Sultano dopo quasi otto giorni abbia voluto aspettarci? - V'è un modo curioso di nascondersi, che è preferito dai furbi - rispose. - Quale? - Il mettersi in vista. Ogni ladruncolo volgare crede necessario, dopo il colpo, fuggire; il vero artista sa trasfigurarsi a vista del pubblico. - Sia come si vuole, salveremo una sciagurata. - E il vecchio falsario? - disse il mio carissimo amico, quasi ridendo. - Speriamo di non trovarlo. - Apparve la laguna, e da lontano il campanile di San Marco. Io aveva desiderato e sognato quel panorama con tutte le grazie d'un incantesimo; ma fosse l'animo mal disposto o un po' di nebbia, provai un'altra delle mie tante delusioni. Andate piano a desiderare: la felicità di quest'oggi veduta domani ha spesso l'imagine di certe statue decorative, greche nell'aspetto, e quattro asticciuole di dietro. Così le gondole, i canali, la piazza e i palazzi veduti con un [162] occhio di poliziotto e coll'altro d'un morto, incerto io stesso chi io fossi e perché vi fossi, mi parvero scialbi, guasti, deserti. Il più che mai garbatissimo signor commissario, il quale sapeva bene la sua strada, mi condusse per calli e viottoli e strette e labirinti (una vera ubriachezza) fino a un ufficio di sicurezza, dove fu riconosciuto, dove qualcuno mi strinse la mano, dove credo che si bevesse, e si parlasse sottovoce. Uscirono nomi e cognomi che io non starò ora a ripetere, ma che potrebbero calzare a quelli usati da noi: si presero delle note, si diedero delle informazioni, due o tre partirono, qualcuno tornò con aria di mistero e di malcontento, si sghignazzò anche, si lambiccò insomma una specie di processo verbale, sempre in quella cameraccia nera, fonda e illuminata dal gas in pieno giorno. Io intanto seduto in un angolo, malinconico fino alle lagrime, preso da quello sgomento, naturale a chi si trova per la prima volta in una dura impresa, farneticava fra me e me, studiando il pavimento. Ad ogni scricchiolio di uscio aspettavo d'essere chiamato alla presenza del Sultano; ma dovetti ben presto accorgermi dal susurro di quelle brave persone che la mia presenza era inutile, perché il Sultano aveva preso il volo. - E Marina? - pensai, ma non osai dimandarlo. Man mano che sentivo avvicinarmi a questa donna, cresceva quel tumulto del cuore e quel desiderio un po' indeterminato, ma acceso, di vederla e di parlarle: anzi dirò che corsi un po' oltre ancora, preparando le parole di consolazione, di consiglio, di tenerezza e quasi una dichiarazione della mia stima e quasi... ma non dirò mai quel che si può pensare in persona d'un poliziotto. Rinvangando le vecchie storie, e il mio amore e le avventure del mio arresto, eccetera, tornarono alla vista le parole che la santa di Pusiano aveva dette e il babbo ripetute a me: "In Marcello è disceso uno spirito, ma vi starà per poco: procurate di condurlo innanzi a un cimitero e sarà come strappare un dente". Questo spirito, questa seconda anima, che mi faceva tanto soffrire, e per la quale era caduto di rete in rete più grossa, era forse l'amore? Io accusava il Lucini, ma in verità era Marcello che per la prima volta sentiva gli acuti desideri della gioventù e la poesia della bellezza. La profezia della santa mi risonava in tono fastidioso all'orecchio. Al punto di stendere le palme e di afferrare questo fantasma, eccolo scivolare di mano, e sprofondare. - Siamo troppo in ritardo - mi disse dopo due o tre ore il signor delegato. - In ritardo per tutti? e Marina? [163] - Il palazzo è chiuso, anzi a quest'ora è venduto. - E il padre di Marina? - Sparito. - Dunque è una storia finita - dissi sospirando. Il signor delegato, prendendo quel sospiro come un ringraziamento a Dio benedetto, seguitò: - Mi rincresce, signor Marcello: ma ella deve seguirmi ancora per un viaggio, un po' incomodo. - Ancora? forse si ha speranza... - Si spera di sorprendere i nostri personaggi, tutti in un gruppo, come le biscie d'inverno. Il signor delegato era artista, ma le sue parole mi fecero un po' male, perché nel laconismo del suo mestiere egli confondeva Marina cogli altri colpevoli. - E dove si va? - È un mio segreto: ma allo spuntare del nuovo sole... - e se ne andò fregandosi le mani. Io fregai anch'io le mani: anche il mio amore per questa donna fuggitiva prendeva abitudini da poliziotto. Dal giorno che il povero Lucini mi aveva, morendo, parlato di lei, fino a quest'oggi, io l'aveva sempre avuta innanzi a me, ora visibile, ora meno, ora quasi palpabile ed era naturale che il capriccio ne fosse un poco stuzzicato. Sul far della sera salimmo in una gondola, io, il signor delegato, che mi lasciò il posto migliore, e due carabinieri in buona uniforme. Non dimenticherò mai quella traversata della laguna. L'acqua era rosea per il tramonto e qua e là spuntavano le verdi schiene dei bassi fondi man mano che si guadagnava la riva. [164] III A DUE PASSI DA MARINA A MESTRE si prese un calesse chiuso e preceduti un quarto d'ora dai due amici a cavallo, io e il gentilissimo signor delegato ci ponemmo in viaggio per una strada postale che si addentrava certamente nel Friuli, ma di cui non saprei or ora riprodurre gli indizi. Era già notte quando ci movemmo. Il signor delegato a qualche mia domanda rispondeva con parsimonia, come uomo che sa la prudenza non essere mai troppa; però venni a sapere d'una villa, dove il Sultano s'era ritirato, per aver l'Alpi fra le gambe a un minimo segno di burrasca. Come il mio compagno avesse scoperto questo nascondiglio, non resterà sempre avvolto nelle tenebre del mistero: io era dunque sicuro che al primo sole avrei veduta Marina. Eravamo, come sapete, ai primi di marzo, e non si deve far punto meraviglia se dopo mezz'ora di viaggio cominciò a nevicare. Io, Marcello, raggomitolato nel mio mantelletto, troppo poco al bisogno, nell'angolo destro del calesse, cercavo di formarmi una tana, tirando le orecchie nel bavero di pelo, il naso sotto l'ombra del cappello verde, e le mani e le ginocchia sotto un coltrone di cavallo preso a sorte nello stallazzo. Il sempre amabile signor delegato dormiva o fingeva. Non c'era modo di chiuder occhio con quel freddo acuto: ma a lungo andare fra i tentennamenti del legno e gli strapazzi della giornata e per il lungo tacere, caddi anch'io in un mezzo sonno; dormigliando via via, mi pareva di ritirarmi più ancora dentro di me, senza mai perder d'occhio la carrozza, il delegato, e Marina. Ne nasceva a tratti un bel miscuglio, perché prendendo a modo mio le cose non avvenute, le intrecciava alle già avvenute, con altre licenze da sornottone, con certe contraddizioni spaventose, che io stesso ne rimbalzavo. Allora, asciugata la bocca con una falda del mantello, mi rimetteva a piombo, fregava l'uno e l'altro polpaccio, speculando al di là del vetro la strada e il tempo. Nevicava alla bella e la strada grossa, già fracida per le vecchie nevi, andava coprendosi di lanuggine fresca. Il fanale della carrozza, passando via, gettava bagliori sfacciati sulle siepi, su muriccioli, sulle cappellette dei morti, sulle croci dei viottoli, sopra i mucchi di ghiaia, tutte cose che restavano dietro più profondamente immerse nelle tenebre, e che io perseguitavo e inseguivo ancora fra me e me col pensiero. Quel fanale mi [165] serviva di lanterna magica, e devo la cognizione di moltissime cose a un moccoletto di mezzo soldo. Il falso-bordone delle quattro ruote, uniforme per miglia e miglia, su per una strada che non finiva mai, ora più stridente al passare d'un villaggio, ora sordo nel vincere una riva, accompagnava i miei ragionamenti, e io mi accordava alle ruote; onde fra me e la carrozza era difficile scegliere chi argomentasse meglio. A volte tornavo anch'io al mondo reale, alla vista d'una ruota gigantesca e d'una lanterna a vento, che rasentava il legno: udivansi delle voci, degli uh!..., un tintinnìo, poi nulla più, se non il falso-bordone delle mie quattro ruote. Si andava sempre in un mondo per me ignoto, e lascio pensare se Marcello potesse avere una chiara coscienza di sé. Mi ero già avvezzato a considerarmi come qualche cosa di inerte, supponiamo un fagotto, che altri portasse qua e là a capriccio e deponesse ben volentieri in un angolo sicuro. Tuttavia nello smarrimento nervoso e intellettuale mi restava acceso un desiderio, che era proprio come l'ultimo lucignolo della mia vita, e che mi lusingava a resistere fino all'ultimo; intendo il desiderio di veder Marina e il sole. Che questo desiderio di Marina fosse amore io non lo so; ma senza dubbio sarei andato a piedi e in ginocchio alla fine di quella strada (doveva pur finire come tutte le cose umane), anziché tornarmene senza averla veduta. Non solamente io speravo nella sua gratitudine, ma soffrivo già del ritardo, come se al viver mio Marina fosse necessaria non meno del sole. Tant'è: avevo bisogno di assicurarmi che questa Marina fosse veramente persona viva, e non ombra o fantasma, e per me questa donna doveva essere una conclusione, il fine di una sinfonia agitata, varia, piena di tenerezza e di passione. Il troncarla a mezza battuta era dare uno strappo all'anima. Me la imaginavo vicina vicina e nei momenti d'un dormire più denso mi pareva quasi di toccare colle mie ginocchia le sue, sotto il coltrone di cavallo. Correvo a imaginare i suoi spaventi. Il Sultano le aveva forse narrata la morte dell'amante, e, succhiando il piacere della vendetta, se la trascinava dietro, come una schiava al carro del vincitore. Ah Sultano! noi ti arriveremo alle calcagna, mentre tu non l'aspetti, e io, Marcello, erede d'un morto, ti stringerò la gola colle mie unghie di spettro. Io sarò per te l'ombra del Lucini seguito dall'angelo della vendetta. L'angelo della vendetta, seduto alla mia sinistra, russava amorosamente; ma il caro signor delegato non aveva più nulla a pensare, e si teneva il colpevole già bell'in saccoccia. [166] Di cosa in cosa io giunsi fino ad imaginare una fuga insieme alla mia Marina, per esempio, in una carrozza chiusa, per una strada postale, di notte, smarriti soli nell'immenso deserto dell'oscurità, l'ira sul labbro, l'amore nel cuore... Provate a viaggiare d'inverno con un tabarrello leggiero e farete dei sogni più brutti. Mi agito un po', caccio via dalla testa le idee più fastidiose, guardo oltre il vetro... Ghiaia, siepi, muricciuoli, croci, neve, strada. Ma questa volta le due ombre a cavallo sono ai fianchi della carrozza, avvolte nei mantelli e accompagnate da un tintinnìo, che ha del diabolico. Oh se venisse un raggio di sole! - Dove siamo? - mi chiede con un grazioso grugnito il mio compagno. - Dove? nel mondo forse: non ne so altro. - Che ora è? - Questa è l'eternità. - Dormendo, m'è venuto un sospetto: che il Sultano ci abbia lasciate le indicazioni false. - E allora? - Tempo gettato. Bisognerà riassumere le idee, Picchiò nei vetri e una delle ombre venne al finestrino e si piegò sulla testa del cavallo. Il caro delegato ripeté le domande, ma le risposte non giunsero fino a me. - Fra poco ci fermeremo all'osteria d'un sindaco, che ci darà buone indicazioni. - Da quanto tempo il Sultano ha lasciato Venezia? - Da molti giorni: a quest'ora poteva essere in salvo, son per dire, a Calcutta; ma il contratto di vendita delle case e di poche sue terre è ancora in mano al notaio. Il Sultano non si allontanerà, senza aver prima regolato i suoi interessi. Un biglietto da me raccolto fra la cenere del caminetto, nel suo studio, portava scritto il nome villa Carnica, insieme all'indirizzo del notaio. - È questa, dove andiamo, la villa Carnica? - È questa. Il Sultano stava per scrivere al notaio il suo indirizzo, ma non gli parve prudente; buttò il già scritto sul fuoco, e gli fece sapere invece che a tempo opportuno sarebbe tornato egli stesso a Venezia. - Possibile? - Non tornerà, se vede il pericolo: è naturale che egli abbia seguito il vostro processo, e che stia sull'armi. La carrozza si fermò. [167] - È l'osteria del signor sindaco - disse il delegato, e abbassò il vetro della carrozza. Una delle ombre, rizzandosi sulle staffe, suonò il tamburo nei vetri del primo piano d'una casetta isolata, la prima d'un gruppetto di case, collocate sul ciglione d'una riva. Dopo un minuto di aspettazione apparve un lume: un'ombra si agitò, poi disparve insieme al lume, tambussò di dentro, finché si aperse uno spiraglio della porta. Il signor sindaco ci aveva riconosciuti, e pieno di sonno obbediva alle necessità senza contraddire. - Dateci del fuoco e del vino - disse una delle ombre, scivolando dal cavallo, che legò all'inferriata di una finestra, e così entrammo. Il signor sindaco chiuse la porta, pose il visto alla carta di via dei due soldati e scese per il vino; il vetturale, uomo muto, io credo, che lungo il viaggio non aveva dato segno di sé, accese il fuoco e tutti all'intorno a disgelare. Il sindaco, interrogato in confidenza, disse: - Villa Carnica è a tre miglia di qui, un bel palazzotto veneziano, con una loggia del cinquecento, sulla schiena d'una collina. Era dei Zeno di Venezia, ma so che l'hanno venduta e che quest'altro anno passò in mano d'un ricco straniero. Infatti mi dicono d'averne vedute le finestre aperte in questi giorni, caso strano, perché è come il palazzotto dei dormienti. Tre miglia!... Il mio cuore, man mano che il vecchietto parlava, alzava un certo schiamazzo che mi pareva non del tutto naturale. Dunque io era a tre miglia da Marina, a tre miglia dal Sultano; dunque fra un'ora... I due gendarmi e il delegato bisbigliavano intorno a un fiasco, ed io mi chinai colle palme aperte a adorare il fuoco. Certamente il Sultano dormiva i suoi sonni lontano le mille miglia d'avere i nemici alle coste. - Signor Marcello, - mi disse il caro signor delegato, sedendosi a me vicino in atto di confidenza - Signor Marcello, ora comincia la sua azione. Nessuno di noi conosce il colpevole, che mi pare un vecchio topo capace di rubare il cacio alla trappola. Al primo albeggiare noi due andremo a piedi verso villa Carnica. - Noi due? - risposi tanto per rispondere. - La mattina si dorme volentieri anche con qualche rimorso sull'anima e spero di essere il primo ad augurare il buon giorno a Sua Eccellenza. - Che mestiere! - pensai fra me, abbassando gli occhi, per paura che l'amico mi leggesse nel cuore, e voleva aggiungere: non [168] spaventiamo quella poveretta; ma la voce, che è, che non è? la voce si fa paurosa e fioca. Una buona fiammata mi scaldò il sangue, e un bicchierino di non so qual succo d'erbe, gagliardo come il basilisco, pretese darmi un coraggio che non avevo; però bastò a sconcertarmi il filo teso del raziocinio e la nettezza dell'occhio, talché le cose le vedevo e le sentivo in un modo alquanto strano. Verso le quattro - era ancora affatto buio - i due gendarmi raccomandarono i cavalli al vetturale e al signor sindaco, susurrarono gli ultimi accordi e coi fucili sotto i mantelli, uscirono. - Fra un'ora andremo anche noi. Cinque e una sei... ora discreta... sì, sì... - Il signor delegato passeggiava per la camera in preda a quella trepidazione inevitabile innanzi al pericolo. Il sindaco oste sonnecchiava nell'angolo del focolare; il vetturale era finito addormentato sul fieno insieme a' suoi cavalli. Nevicava ancora; un silenzio mortale intorno, e le ore di qualche campanile lontano giungevano a noi come imbottite di bambagia. Io pensava al povero Lucini e, poiché non è spenta in me la santa religione, mormorava qualche preghiera un po' per lui e un po' per me. Mi ricordava le ultime parole del moribondo: "Signor Marcello, amo questa donna; l'improvvisa notizia della mia morte le sarebbe troppo fatale" e riandando gli ultimi fatti, un sospetto accompagnato da spavento tentava farsi strada in mezzo ai tanti altri dubbi e pensieri, che mi riempivano la testa. Povera Marina! e come Lucini in quegli estremi, anch'io non sapevo resistere a una voglia strana di piangere. La camera era rischiarata anche qui da un povero lampadino a olio, come la notte che avevo vegliato il morto, e si facean vivi ancora certi fantasmi, si radunavano ancora certe ombre negli spigoli, e scoppiavano nell'aria dei suoni, degli scricchiolii, che si capiscono intorno ad un morto, non altrove. Anche quella notte Marcello aveva sentito un gran cozzo nel cuore e nella testa; ma non tanta paura di sé e dell'ignoto. Marcello stava per finire una vita di pochi giorni, incominciata colle care imagini color di aria e con le speranze dell'amore; sentivo in modo confuso che l'anima del povero Lucini era stanca di vivere dentro di me, o dirò meglio: sentivo che Marcello, uomo dalle scarpe grosse, cominciava a desiderare il suo zimarrone tané, e con lui i corti piaceri d'una vita casalinga, da consumarsi giorno per giorno fra la casa e l'ufficio per sessanta o settant'anni di fila. L'animo del Lucini, o meglio la passione violenta e bizzarra, che mi aveva invasato, era agli sgoccioli; il destino, l'astuzia, la legge, [169] il capriccio avevano mortificata quella povera anima, mandata forse dal Signore a patire dentro di me il suo purgatorio. Questi pensieri mi passavano senza ordine e senza ragione per la testa, mentre contemplavo gli ultimi carboni d'un gran fascio di rubinia. Per quanto io dicessi di no, una voce che veniva dal cuore andava dicendomi: - Che speri? Marina è morta. Un picchio all'uscio mi fe' trasalire. Per la neve caduta o forse per l'intensa meditazione non avevo udito una carrozza fermarsi innanzi all'osteria. La strada era molto battuta, e qualche viaggiatore assiderato al par di noi, avendo visto nell'arco della bottega un barlume, veniva a sgranchirsi le gambe. Il signor sindaco si scosse, e dié la voce. Un'altra rispose, che pareva soffocata da un cuscino; l'oste non ebbe paura ed aprì. - Portate del rhum - disse un signore alquanto dubitoso d'entrare. Io sentii un pezzo di ghiaccio sul cuore. Era lui. Era il Sultano in persona, che sfidava un viaggio a Venezia per vie insolite, in ore straordinarie, per dar pace agli ultimi suoi interessi. Egli aveva forse incontrato sulla sua via chi veniva in cerca di lui, e chiedeva al rhum un po' di calore. Se mi avessero pugnalato, sangue non mi veniva. Il Sultano era sicuro di non essere riconosciuto, e io mi rannicchiai in me stesso per paura di fargli paura, Marcello non era un eroe e, sebbene fosse nel suo diritto, sentiva che il birbone gli metteva suggezione. Io so di un tale che, avendo sorpreso un servo infedele colla mano nello scrigno fu colto da una lunga terzana; l'aspetto dell'ingiustizia è per se stesso spaventoso alla coscienza sottile. Io mi nascosi e avrei voluto sprofondarmi. Il Sultano sorbillò il suo rhum, tenendo d'occhio il cavallo, sulla soglia dell'uscio e mi parve un'eternità. I polsi sospesi, il fiato corto e per tutto il corpo un tremito convulso, facevo ogni sforzo per nascondere il mio turbamento al signor delegato, il quale non poteva levare gli occhi da quel grassotto, avvolto nel pelo. - Accendetemi un fanale, che si è spento - disse il Sultano; e ben riconobbi anche la sua voce. L'oste chiese il permesso e uscì col lume, lasciandoci al buio. Io mi scossi, balzai in piedi, feci per parlare, non potendo presi il braccio del signor delegato, e cercava di fargli capire... [170] - Che cosa? - mi chiede smarrito. - È... - e con un impeto di voce - è lui - gridai. La carrozza riprese la sua corsa. L'oste rientrò e guardando un biglietto da cinque lire: - Non ha voluto resto - disse; - di questi uomini si va perdendo la razza. Il signor delegato mi ringraziò e mi lodò perché nel momento supremo del pericolo io non aveva dato segno di sorpresa; fece - guardate mo'! - de' buoni pronostici sulla mia abilità e con una certa sollecitudine prudente ordinò al vetturale di voltare i cavalli verso Mestre. - L'uomo è mio - disse fregandosi le mani. - Io resto - esclamai, pensando a colei che il Sultano aveva abbandonata sola a villa Carnica. Credereste? il sangue mi salì a flutti e mi accese le guance. Era gioia? era amore? Era il caso o la provvidenza che mi poneva fra il Sultano e Marina? [171] IV VILLA CARNICA TORNAI a sedermi nell'angolo del fuoco per aspettare la mattina. Finalmente ero solo e fra me e lei non restava che un tratto di via e un po' di nebbia. L'oste mi disegnò sulla cenere la strada che avrei tenuta per giungere più presto alla villa Carnica e mi lasciò alla contemplazione di quei ghirigori. La strada grossa correva per un buon pezzo diritta, ma giunta a un certo ossario - aveva detto l'oste - io dovevo piegare a destra e prendere un'altra strada, che girava il lembo della collina; dopo mezz'ora o poco più io sarei giunto alla villa. Il disegno geografico era semplice, ma avviene di molte cose che a lungo guardarle si confondono, per cui, rimasto solo in quella stanza color fumo, al lume d'un dito di moccolo, e con un gran freddo nelle spalle, quel ghirigoro nella cenere prendeva un aspetto cabalistico, come se chiudesse una misteriosa minaccia. L'oste mi aveva assicurato che il signore, passato poco prima, viaggiava solo e non c'era dubbio che Marina non fosse rimasta in casa. Di tanto in tanto guardavo i vetri d'una finestra, che cominciavano a imbiancare, e quando mi parve abbastanza chiaro da non dare nelle fosse, uscii frettoloso, come se alcuno mi aspettasse veramente altrove. Sulla neve fra le molte traccie di carri e di carrozze se ne distinguevano due fresche e sottili, onde pensai: se io seguo queste righe il Sultano mi condurrà, senza volerlo, innanzi a Marina. Camminavo a testa bassa, come deve fare chi ha molti pensieri e pel tratto lungo di strada maestra, che mi restava a percorrere, non alzai che due o tre volte gli occhi a speculare il cielo, a studiare il terreno di qua e di là, oltre le siepi, rasentando un argine e sempre in mira d'una macchia biancastra, forse una borgata, che a poco a poco scaturiva dalla nebbia. Di fioccare era cessato, anzi un venticello gelato, che penetrava fino al cervello, cominciava a rompere la nuvolaglia color piombo e a mostrare qualche lembo di sereno; e la nebbia, verso oriente, dilatandosi innanzi al calore del sole, prendeva un leggiero incarnatino e si spargeva a fiocchi soffici, come la bambagia. Battei quello stradone senza limiti per mezz'ora e fra i mucchi di ghiaia, le pozze e la neve fracida non era un bell'andare. Non conoscevo la provincia, e arrivato al buio, uscivo ora al lume del giorno, [172] come una quaglia da un panierino chiuso. Il paese era deserto, non un uomo, non una voce nei campi, e più camminavo e più sentivo accendersi la voglia d'andare presto, senza voltarmi, senza aver preciso e netto innanzi a me lo scopo per cui m'ero mosso. Marina mi aveva affascinato e mi attirava con tutte quelle stregonerie, che stanno riposte nella curiosità, nell'ignoto, nella speranza. Animo dunque, Marcello, - dicevo - il Sultano ha pensato a cadere da sé nella rete e Marina ti sarà riconoscente del bene che hai voluto al povero Lucini. Non le dirai che egli è morto, no, ma accennerai il pericolo in cui si trova suo marito, il pericolo che sovrasta a suo padre, la necessità di una fuga; le offrirai la tua protezione, in nome del povero Lucini. Ella domanderà perché egli non sia venuto con te: le dirai che è morto? se poi odiasse il triste ambasciatore? Diavolo! che Marcello non sappia persuadere e consolare una donna che piange? Alla fine, fra tanta rovina, Marcello solo può darle un buon consiglio, può soccorrerla, liberarla dalla sua schiavitù e se il suo cuore non è di ghiaccio, ella dovrà dire a questo povero figliuolo: "Grazie, amico... eccovi la mia mano". La sua mano! ch'io stringa questa mano sul mio cuore, ch'io la baci, ch'io la bagni di pianto... - Dio onnipotente! - esclamai ad alta voce, alzando le mani verso l'oriente. Il sole era spuntato, e la catena delle Alpi a settentrione, coperta di ghiacci, splendeva d'oro e d'argento. A un tratto mi fermo e i polsi del capo battono due o tre martellate dure. Senza avvedermi era giunto all'ossario, una specie di tabernacolo in mattoni scalcinato e crepo, con una inferriata a scacchi, orlata di crani, e sormontato da uno scheletro di sasso, che teneva una falce. La neve gli aveva ricamato una cuffia e orlato di un candido fichu le costole e le anche. Ma non fu la morte, che mi avesse data tanta paura, bensì la vista dei due carabinieri, che tornavano dalla villa, a passo di carica e colle mani vuote. Innanzi all'ossario si distaccava la seconda strada della collina fra i rami nudi e intirizziti di due alte siepi. Io avevo potuto scoprire i miei due amici prima che essi mi ravvisassero, per cui, fermatomi, pensai essere necessario, se volevo veder Marina, ch'io sfuggissi d'incontrarli. Se no, i due amici mi avrebbero tirato alla ricerca del Sultano. Perdere Marina, quando già ne tenevo il lembo del vestito, mi pareva ed a ragione uno scherzo doloroso, onde pensai in fretta quel che mi restasse a fare e corsi ad appiattarmi dietro uno spigolo dell'ossario. Man mano che i due soldati passassero innanzi, io avrei destramente girato l'ossario, finché fossi sicuro di me. Stetti dunque un po' col cuore in subbuglio, innanzi a una delle [173] finestrette laterali, da cui un curato morto vent'anni prima mi guardava con un sorriso ironico e col berretto storto sopra l'occhio sinistro. Intanto il passo sonoro si accostava e già udivo il brontolìo malinconico de' miei amici. In quella sospensione d'animo io mi domandai con meraviglia, se avessi per avventura commesso qualche delitto, perché il Sultano al mio posto non avrebbe trepidato di più. Ma le cose di quaggiù, per l'artificio delle nostre passioni, hanno spesso un significato diverso da quello che Dio ha loro dato; anzi, noi viviamo per nostro capriccio molte vite, che non sono la nostra, per quel pazzo desiderio dello strano, che ne spinge a forare le montagne invece di sorpassarle, e a bere il caffè amaro con lo zuccaro accanto. I due carabinieri si fermarono innanzi all'ossario, e io che piatto piatto ne girava la schiena, mi arrestai, sospeso, dirò, quasi tra cielo e terra, coi capelli irritati, il fiato mozzo, e due dita alle orecchie, per credere di non far rumore. La situazione era così stravagante che s'io fossi uscito improvvisamente a spiritare, quei due soldati forse... ma non stiamo a dir male del prossimo. - Siam venuti di qui, te l'assicuro - disse uno di loro, ed entrambi riconosciuta la strada tirarono innanzi. Attinsi il respiro fin dalle scarpe e appena li vidi abbastanza lontani, saltai sulla strada della collina e la presi alla corsa. Ma col freddo e con la riva non era il miglior modo: camminai più dolce. Se l'oste aveva detto bene, villa Carnica doveva essere vicina, forse in cima alla riva, oltre lo svolto. La strada era più asciutta e più alpestre: la siepe spesso interrotta da gruppi di belle piante, di pioppi, di betulle, di olmi sfrondati, che sgocciolavano al tocco del sole. Dall'alto del ciglione l'occhio si stendeva sopra una vasta pianura ondulata, ingombra di molte nubi, fra le quali però tremulavano due o tre striscie taglienti come l'acciaio, forse il mare. Spinsi l'occhio una prima volta, sperando di scoprire la villa, o almeno un campanile, o un uomo, o un segno di vita: ma dopo il primo gomito la strada seguitava ancora più ripida, più stretta, e come incassata fra due boschi. Il coraggio cominciava a cadere. A mezzo delle imprese interviene sempre il pensiero della loro inutilità ed è questa la causa della nostra dappocaggine. Per me, dopo tanti casi e dopo uno strano viaggio notturno, la stanchezza era naturale, onde discussi un poco il partito di tornarmene e d'uscire una buona volta da quell'imbroglio. Ma le gambe, quasi obbedissero a una seconda coscienza, a me sconosciuta, continuarono la salita, finché fra due filari di pini, [174] vagamente spruzzolati di neve, apparve un palazzotto o gran casolare signorile, di bello stile, sostenuto da una gradinata e colla faccia rivolta alla pianura e al mare. Dovetti appoggiarmi a un muricciuolo per uno sgomento che non so spiegare. Era villa Carnica, e me lo disse anche una freccia e un'iscrizione dipinta sul muricciuolo. Molte finestre erano aperte e il nome di Marina pareva che risuonasse dentro e fuori di me. [175] V ARRESTO DEL SULTANO IL Sultano AVEVA lasciato villa Carnica verso le prime ore della mattina e gli era toccato anche di vedere i due carabinieri, che salivano; i quali, sicuri di sorprenderlo in letto, per una di quelle idee fisse, che hanno spesso lo splendore della certezza, non osarono chiedere notizia di questo viaggiatore notturno. Si noti però che la strada era molto battuta, e che il Sultano, fiutando, per una specie di magia, il pericolo nell'aria, procurò di passar oltre come una saetta, finché non si arrestò a mettere un po' di pace nei sensi all'osteria del signor sindaco. Non saprei dire se egli mi riconoscesse a tutta prima, ma forse sì, perché l'anima sua era già inclinata a vedere in ogni uomo un nemico, e lo sguardo del signor delegato aveva un modo fastidioso di osservare il prossimo, che te lo sentivi addosso tre miglia lontano. Il mantello col pelo, e il cappelletto verde traveduto a quell'ora nell'ombra, in una specie di deserto, dopo avvenimenti spaventosi, e col rimorso nel cuore, se anche gli sembravano giuochi di sua fantasia, non erano giuochi piacevoli e che potessero trattenerlo. Infatti si vide com'egli partisse di galoppo, e ad ogni colpo di frusta andava ripetendo una frase fra l'ironico e lo spaventato, che rispondeva a quei progetti precipitosi e arruffati che almanaccava in capo. - O io sogno, o quel cappelletto è del... - Non osava ripetere neppure a mente il nome del poveretto, ch'egli aveva fatto uccidere, perché nel garbuglio della sua coscienza non sapeva nemmeno se considerarlo come nemico o come figliuolo. Egli era giunto a villa Carnica, sperando di salvare almeno, fra tanta distruzione, la bellezza di Marina; ora tornava col capo nelle spalle, l'occhio smorto, e con un continuo rantolo nella gola, che riassumeva tutti i lamenti e le strida della coscienza. Sentiva di essere cercato e forse inseguito. Naturalmente i due gendarmi, non trovandolo a villa Carnica, sarebbero tornati sui loro passi, e all'osteria avrebbero intese altre notizie. - Era un'ombra colui? - domandava con voce sotterranea tutte le volte che l'imagine del Linucci o la mia gli passava innanzi. Sentiva d'essere inseguito e il suo sgomento si sarebbe potuto paragonare alla trepidazione del cammello all'appressarsi del leone. [176] Bisognava giuocare l'estrema partita; quanto gli rimaneva di meno triste sulla terra era quel po' di libertà, per cui frustò rabbiosamente il suo bel puledro attraverso l'orecchie: questo balzò due o tre volte e prese la fuga. Il Sultano non voleva di meno, ma lo tenne incatenato colle redini e si compiacque di quella corsa vertiginosa, non pensando al pericolo di essere sbattuto contro un sasso della riva; niente, niente, egli avrebbe rigato di sangue tutta la strada a patto di correre sempre. Lo scopo era di guadagnare tanto spazio in avanti che desse tempo di raccogliere i pensieri e di formare un progetto, e noi sappiamo che il carrozzone del signor delegato era troppo pesante e i suoi cavalli troppo affaticati per vincere la sfida. Il delegato, che si era mosso dall'osteria quasi un quarto d'ora dopo, e vedeva il piccolo trotto delle sue rozze, non si alterava per questo, né bestemmiava, come avrebbe fatto un uomo di testa leggera. Ma come feci in appresso anch'io, al lume di un fanale prima, e poi meglio alla luce chiara del giorno, seguì la callaia lasciata dietro dalle ruote del carrozzino e pareva un erudito che investigasse i segni d'un'iscrizione. A lungo andare doveva cessare anche quella striscia a meno che non si sprofondasse nella laguna. Egli aveva lasciato ordini precisi al signor sindaco, cioè che al ritornare dei due carabinieri, ripetesse il comando di inseguire il carrozzone ed il carrozzino. Infatti appena i due soldati giunsero all'osteria - erano circa le sette - e intesero l'avviso, balzarono a cavallo, e con due tocchi di sprone si buttarono al galoppo. I cavalli, che sentivano la necessità di non perdere tempo, non toccavano terra e andavano soffiando dalle nari dilatate immensi globuli di fumo, finché in meno di mezz'ora ebbero raggiunto il carrozzone. - Noi siamo già in perdita di cinque o sei miglia - disse il delegato - perché il cavallo di Sua Eccellenza è giovane, e furbo come il suo padrone. Voi seguitelo, e quando l'avrete sotto mano, stategli alle coste, finché piacerà al Signore ch'io vi raggiunga. E i due cavalli partirono ancora di galoppo, lasciando indietro le due rozze, che tiravano più il collo che il legno. Infatti, in meno di mezz'ora, scopersero il carrozzino che correva a precipizio per una discesa, vista che fece sorridere di un'infantile compiacenza i due soldati. Il puledro del Sultano faceva del suo meglio, ma non poteva vincerla su quei corridori di buona gamba, che sentivano l'odore degli sproni. Ora non so imaginare la dissoluzione di un'anima presa dallo [177] spavento. Se fosse dato indovinare, direi che il Sultano sentiva mescolati al sangue degli umori rabbiosi. Era astuto, coraggioso, ricco, ma non rimaneva che un tratto di via, e qui doveva risolvere molti problemi, prendere grandi risoluzioni, svilupparsi insomma dalle strette in cui la società e la giustizia lo stringevano. Balzare di carrozza, e darsi a una precipitosa fuga, volgare, giù per le campagne, se anche non gli fosse sembrato inutile, sentiva di non aver le gambe e lo spirito pronto. Cacciò la testa rapidamente e travide in confuso, anzi quasi suppose quell'ombra minacciosa, che gli galoppava dietro e di cui sentiva risonare un top top eguale e monotono come un processo verbale, inesorabile come una sentenza. - Vengono - mormorò con una voce interna profonda, sommessa, come il gorgoglio di uno che sta per affogare, voce che il Sultano non avrebbe voluto sentire. Si fece la domanda se gli conveniva voltare in una porta, deviare dallo stradone, o tirar dritto, oltre la città di Mestre, che già discerneva, o fermarsi e affrontare a viso aperto il pericolo, se v'era pericolo, tentare insomma di corrompere, di persuadere, di provare a quei buoni signori il grosso abbaglio in cui erano caduti; belle parole a dirle, ma dopo tutto era meglio tirar via, lesto, senza pietà dei passeggieri, dei villanzoni testardi, delle donne, dei bimbi distratti. Perché aver pietà? Un pitocco, che stava rannicchiato sui piedi di una colonna, sopra un crocicchio, vedendo quella figura e quel bagliore di armi, alzò un viso giallo, solcato dai grossi muscoli, e sbarrò gli occhi bianchi, mentre salutava i passanti con un grugnito selvatico. Il Sultano avrebbe frustato quel miserabile, che si pigliava beffe di lui: passò oltre maledicendolo. Ora piegava la testa, ora stringeva le labbra, ora fischiava raucamente nella strozza, ma nel cuore al coraggio irritato sottentrava la viltà: le mani stanche e indolenzite non volevano più reggere la testa del cavallo, che volentieri accettava le concessioni del padrone. Quella fuga durò quasi un'ora, perché i carabinieri, ubbidienti al comando, non volevano disturbare Sua Eccellenza prima del tempo. - Sono persone educate - diss'egli fra i denti senza ridere, ma con un sarcasmo doloroso, che è la paura travestita. La strada non era più quella di prima, larga, difesa e piana, ma diventava più tortuosa, più profonda, più angusta, man mano che discendeva in un vallone arenoso poco discosto dal mare. Come, quando e perché avesse lasciato la strada maestra per ficcarsi in quel viottolo, egli stesso non sapeva dirlo; era giunto al punto che le cose si sfiguravano, e nella nebbia confusa dei pensieri non gli rimaneva che una specie di istinto per andar sempre innanzi. [178] Ma la strada ingombra di sassi, anzi di ciottoloni, premuta dalle due parti da rive scoscese e da cespugli spinosi, sdrucciolevole pel ghiaccio, parve alla povera bestia un cammino irragionevole: onde cominciò a impennarsi e a respingere il legno. Il Sultano si accorse d'aver innanzi una cava di sabbia, dove moriva appunto la stradicciuola, e chiese un ultimo aiuto al cielo, con uno sguardo fuggitivo, e cristallizzato. Però due piccole lagrime, le ultime, scintillavano negli angoli delle pupille. Più che altro sentì la ridevolezza dell'avventura, l'impotenza in cui era caduto, la sciocchezza della sua malvagità; e nel tempo che uno dei carabinieri si sbarazzava delle staffe, il Sultano, quasi riassumesse con un impeto di volontà tutta l'ipocrisia d'una vita senza onore, si sforzò di sorridere, e ci riuscì, nell'atto che balzò di carrozza. - Strano! - esclamò una voce alta e sicura, rivolgendosi a colui che gli veniva incontro con troppa sollecitudine. - Strano! Hanno voluto farmi ammazzare a discendere fin qui per la stima d'un carico di sabbia e non trovo nessuno. Il modo, col quale queste parole venivano pronunciate, lasciò alquanto perplessi i miei due amici; ognuno è soggetto ad errare, e Sua Eccellenza pareva sì tranquillo, e sì preoccupato del suo carico di sabbia, che anch'io, confesso, sarei rimasto. - È lei - domandò il più eloquente dei due compagni - è lei il signor...? - e qui disse quel nome ch'io non posso trascrivere. - Per l'appunto - rispose imperturbato il Sultano. - In che posso servirli? - Vorrebbe ella seguirci per un piccolo tratto di strada? - Me ne rincresce; aspetto l'agrimensore e non vorrei... Però se è necessario, io non ricuso un piacere all'autorità. So bene che nella vita si danno dei casi stravaganti e... ah! ah! -- Il Sultano rideva come un buon vivente, a cui ne sia accaduta una bellina assai. Intanto, preso il cavallo per il morso, cercava di farlo voltare in quel piccolo spazio, con certi modi educati che indicavano un uomo, il quale fa di tutto per tirare alla lunga. - È strano! bisogna che io abbia un viso poco galantuomo, perché è la seconda volta che mi pigliano in sospetto e... va là, anima mia... - gridava al cavallino con dolce accento veneziano; poi con maniere obbliganti pregò uno dei carabinieri a montare in carrozza. Il Sultano rideva di quell'ilarità che fa buon sangue, ma vedendo che non v'era più scampo, cominciò a combattere fra sé una lotta grottesca; il suo bel ridere pareva una maschera scempia sopra il volto attratto e rigido d'un moribondo. [179] VI FINALMENTE TROVO MARINA IO INTANTO era venuto passo passo, con molta pena e come trascinato, fino alla villa; il cancello era aperto e notai lungo il viale del giardino più netti i segni delle ruote, che con una bella curva andavano a finire in un ghiribizzo, innanzi a un porticato sostenuto da colonne circondate dai rami secchi degli arrampicanti. Quando giunsi sotto l'atrio del palazzo, non un'anima pia mi venne incontro; soltanto un cane invisibile mandò un piagnucolìo fastidioso. Girai lo sguardo a destra e a sinistra per ritrovarmi, ma forse per l'alterazione del pensiero vedeva le cose senza capirle. Il momento era più grave di quel che altri possa immaginare. Alzai la voce e non mi rispose che il cane, una bestiaccia nascosta, io credo, e incatenata in cantina. Temevo - dico proprio temevo - che Marina non mi apparisse di qua o di là: la sua vista mi avrebbe tolta in quel punto la favella. La mia vita pareva sostenuta da un sol pensiero, e le imagini del Lucini, di mio padre, della mamma, della Gioconda, del Sultano, degli amici e dei nemici, mi passarono innanzi come un'apoteosi da teatro. Se Marina, supponiamo, fosse uscita così bella, così gentile, come io me l'era disegnata, in un grazioso disordine mattutino, come risponderle? Come non cadere a' suoi piedi e chiederle perdono di tanti cattivi pensieri, che avevo fatto per lei? Non vedendo, né udendo persona, mi feci animo ed entrai in un salottino a destra, arredato un po' all'antica con molti ritratti scialbi intorno alle pareti: alzai un poco ancora la voce e dalla camera vicina mi rispose un fruscio... Io... Devo dirlo il senso che provai a quel rumore vago e indistinto? mi parve che il cuore si capovolgesse. Era dessa? perché non fuggivo? perché ero venuto? chi più matto, più sciocco, più scellerato di me? Nel tempo d'un respiro mi pentii, mi lodai, mi sbattezzai tre volte. L'uscio era coperto da una cortina di drappo e io vi tenni gli occhi fissi: il passo d'una persona risuonò dietro la cortina, che si mosse, e dopo un istante ecco un vecchio bianco e cadente, avvolto in una zimarra disadorna, venire strascicando i piedi diritto verso di me. Il suo passo era corto, talché mi parve eterno il suo tragitto pel [180] salottino, e quando me lo vidi innanzi cogli occhi fissi, sbarrati nel mio viso e al di sopra delle sopracciglia gli occhiali sospesi come due specchi ustori e guardarmi con quattrocchi, diedi un passo indietro. - Signore... - balbettai: ma il vecchio non mi lasciò parlare. Si fermò, aprì la bocca, alzò le mani, mi prese le mie ed esclamò: - Linucci, voi qui? - Linucci - risposi, ma non sapeva come contenermi. - Vi ho subito riconosciuto, mio giovane amico: voi vestite ancora un po' alla brigantesca, e la vostra presenza in questo luogo mi ricorda il tempo passato insieme a Venezia. Il vecchio era veramente commosso e non mi fu difficile riconoscere in lui il padre di Marina: dovevo io disingannarlo? Quand'anche avessi voluto, egli non mi lasciava parlare. - Siete venuto a buon tempo: l'avete forse incontrato per via? - Chi? - domandai. - Il Sultano. - Il vecchio sogghignò, poi aggiunse: - So che lo chiamate così; poveretti tutti e due! Noi siamo giunti a villa Carnica da uno, due, tre, quattro, cinque, sei giorni. - Il vecchio contò questi giorni sulla punta delle dita. - Mia figlia vi giunse malata... - E ora? - Ora è guarita e sta bene. Suo marito è partito stanotte. Che storie!... - Raggrinzò la fronte, fissò un punto invisibile dell'aria, aprì e chiuse le palme come si fa coi ventagli, quindi aggiunse: - So che la giustizia mi cerca. Son venuti stamattina per arrestarmi... ah povero me! - Potrei parlare a Marina? - Tremai nel dire queste parole. - Certo, caro Linucci. Venite con me; avete con voi il vostro violino? Venite di qua. Egli si incamminò barcollando, io lo seguii col passo d'un burattino, che qualcuno trascini troppo per terra. Entrammo nella stanza vicina e di là in un corridoio, dove il vecchio si fermò per dirmi: - Correste un brutto pericolo, eh? Il Sultano voleva ammazzarvi, lo so, ed è venuto a Milano apposta. - Ella lo sa? - chiesi curiosamente. Ma al modo di ridere mi persuasi che al vecchio era svanito alquanto il cervello. - Certamente lo ha saputo e si ammalò, - rispose - ora sta bene. Questa è la sua stanza. - Signore, - dissi per trattenerlo, ma egli si accostò a un uscio, origliò colla testa bassa e infine batté due colpi colla nocca delle dita chiamando: - Marina. Io caddi sul muro: ero per udire finalmente la sua voce! [181] - La chiamo così per dirle che siete voi. Ma nessuno rispose e allora il vecchio ripicchiò e chiamò di nuovo con più dolcezza: - Marina, Marina. Silenzio, e in fondo me ne rallegrai, perché non mi sentivo ancora preparato. - È forse malata? - chiesi colla pena d'un moribondo. - È guarita, vi dico. Si è levata questa mattina ed è forse andata alla messa di San Giorgio. Ma sì! or mi ricordo di averla veduta uscire. Aspettate, prendo il cappello e sono con voi. Mi lasciò un solo istante e, non potendo trattenere la curiosità, spinsi l'uscio avanti. Vidi un'altra stanza con molti mobili vecchi e impolverati e dal loro disordine era facile capire che il Sultano e Marina, giunti all'improvviso, senza servi e senza roba, non avevano prolungata la loro dimora che per necessità. Come mai però il geloso marito aveva potuto abbandonarla sola quella mattina? Non sapevo spiegarlo, ma la risposta la sentivo nell'aria di quella casa vecchia e sbiadita, in cui risonava di tanto in tanto il gemito del cane rinchiuso, e poiché il vecchio pazzo non ritornò subito, passai oltre, come un uomo che venga a rubare, fino a una vetriata, che metteva sul giardino. Sforzandomi di guardare attraverso i quadretti piccoli e verdognoli dei vetri, vidi il mio vecchio che si raggirava a testa nuda, ancora in veste da camera, e che adocchiava qua e là per le aiuole coperte di neve, come se cercasse qualche cosa. Provai quasi la compressione di due dita di legno sul cuore, e se i pensieri hanno un colore, cominciai a pensar grigio. Quell'ululato che usciva di sotterra, il gelo della mattina, il vuoto di quella casa, la pazzia del vecchio, spettacolo sempre desolante, la fuga del Sultano, quel che io sapevo e quel che era facile supporre concordarono in fascio a dirmi: Essa è proprio morta. La villa era isolata, la casa senza servi e nemmeno un castaldo, perché comperata da poco tempo dal Sultano, che non vi aveva provveduto. Chi sa? la scelleraggine è astuta e forse il Sultano aveva così disposto per finire tacitamente la sua vendetta e lasciarla nascosta il tempo di mettersi in salvo. Perché il vecchio seguitava a guardare nella neve? Fu una brutta idea, che mi guizzò nella mente, e ne vidi il bagliore sanguigno fin nella pupilla degli occhi. Che il geloso l'avesse uccisa? V'è un punto di esaltamento in cui il cervello par che si mescoli al cuore e allora ciò che prima era dubbio, pensiero, imaginazione dolorosa, diventa vero dolore che si sente. Io cominciai a lamentarmi, [182] a muovermi con più trepidazione, a chiamare aiuto a voce alta; vidi una scala e la percorsi metà, ma tornai indietro in cerca del vecchio, per interrogarlo e scoprire, se era possibile, dove fosse Marina. Ma le imposte che davano sul giardino erano fermate al di fuori da un piccolo gancio di ferro, e apersero solamente l'adito ad una mano. Allora mi parve che qualcuno mi facesse guerra e cominciai a lottare, strappando, conquassando, lacerando quelle vecchie imposte, finché ne ruppi un paio di vetri, levai l'ostacolo, uscii nel giardino e presi il vecchio per ambo le braccia. - Dov'è? - gridai. Il vecchio sbarrò gli occhi e vidi che stava per gettare un urlo di spavento. - Sono ancora qui? di là, di qui? - Chi? - gli domandai. - I carabinieri: il Sultano mi ha accusato, lo so; son venuti a cercarmi. Si sbarazzò con una stretta e fuggì verso un muricciuolo, che pretendeva di poter scavalcare. Io non so dire se fossi men pazzo di lui; tornai di corsa in casa e provai a salire al primo piano. Il Sultano non era fuggito, ma il suo viaggio non doveva durare, secondo la sua intenzione, che poche ore, il tempo cioè di riprendere certi documenti dal suo notaio, ed essere così più spedito in seguito. Marina l'aveva seguito fino a villa Carnica senza ripugnanza, perché, animo di gran fortezza, superato il primo sgomento e veduta la necessità di vivere per salvare suo padre, faceva estremo sacrificio di sé. Ammalò alcun poco, ma ne accusò il viaggio. Onde suo marito, non imaginando che ella sapesse la morte di Giorgio, si rassicurò, trovandola perfino disposta a lasciare l'Italia; nella sua miseria la bellezza e la gioventù di Marina gli era mantenuta e assicurata, almeno finché il vecchio falsario vivesse. Bisognava trattarlo bene questo vecchio miserabile, che era come la cauzione di nuove tenerezze coniugali. Dirò anche che il pensiero del povero Giorgio non spingeva più all'ira il furioso Sultano, ma lo conturbava di uno spavento misto a compassione, di modo che, se Marina lo aveva amato, non gli pareva oggi tanto orribile come prima. Marina, l'ho detto, era rassegnata, ma seguiva con una certa curiosità il procedere lento di una pazzia, che avrebbe reso irresponsabile suo padre; il vecchio, che, vile per animo, aveva seguito il suo protettore e nemico fino alla villa, agitato da continui spaventi, provò lo scompiglio di quel po' di ragione che gli restava all'apparire dei due carabinieri. [183] Questi erano venuti per arrestare il Sultano; avevano visitata la casa da cima a fondo, interrogando il vecchio e la signora; solo quando furono sicuri che egli era veramente partito e che forse l'avevano incontrato per via, se ne andarono, lasciando freddo di paura il vecchio e stranamente esaltata Marina. Ella sentì della gioia al primo pensiero che gli fosse tagliata la via del ritorno; ma era una gioia amara, che spingeva al piangere, all'infuriare, al fanatismo della selvaggia, che sale il rogo del marito. Vide suo padre sorridergli in faccia, gonfiando le ganascie, e stralunando gli occhi; poi piangere e rincantucciarsi come un bambino ad ogni scricchiolìo, e cadere in quella tranquillità cupa, che precede il furore. Marina n'ebbe paura, perché la pietà non giungeva fino a vincere il ribrezzo. Pensò se ella avesse ancora ragione di vivere, e quella risoluzione balenata dapprima parve adesso più semplice e più applicabile. Perché riservarsi alle vergogne di un processo, al triste spettacolo della follìa, a un perpetuo rammarico? Giunto al primo piano ed entrato in un camerone deserto con molti usci in giro, come tante celle di monastero, fui tratto da un gemito sommesso verso un andito a destra, finché mi arrestai a due battenti di una porticina di legno intagliata all'antica. Il gemito veniva di lì e tesi l'orecchio per riudirlo; ma il cuore soltanto rispose con un martellare sonoro, che pareva determinato a fiaccarmi la vita. In quell'attesa dolorosa si ripeté anche l'ululare del cane, e io mi appoggiai al paletto dell'uscio, che tentai smuovere. Ficcai l'occhio nella serratura, ma un cencio di carta la chiudeva ermeticamente: chiedere soccorso in quella solitudine era inutile, e, seguendo i consigli del momento, provai a tentennare l'uscio. Bisognava che io lo sfondassi, perché il tornare indietro a cercare la mano d'un fabbro, era perdere troppo tempo. Marina, persuasa che per suo padre non v'era più pericolo a temere, rimasta sola, coglieva una buona occasione per morire. Io me ne accorsi al puzzo di carbone. - No, no - gridai, mentre faceva leva con le braccia e con le ginocchia, appoggiando la schiena al muro opposto (l'andito era assai ristretto), per scompaginare quelle pareti di vecchio frassino. - No, Marina, - ripetei con un singhiozzo, e preso da una specie di pazzia, infuriava coi piedi e colle mani contro quei vecchi congegni di ferro. Un altro gemito mi rispose di dentro. [184] - Sono il Lucini, vengo a salvarti - gridai e nel dire queste parole nessuno avrebbe dubitato meno di me che fossero una menzogna, perché la passione del povero Giorgio era da un pezzo diventata mia e il destino di Marina era legato alla mia vita. - Sono il Lucini. - Dammi aiuto, madonna santissima, o io spezzo il cranio contro questa parete. L'uscio non era serrato a chiave, e il paletto irrugginito cominciò a cedere agli urti robusti delle mie braccia: credetti al primo tratto che la madonna mi avesse ascoltato, e perché mi accorsi che l'ostacolo cominciava a cedere, mi rovesciai sopra con tutta la persona, tagliandomi le dita, e sprofondai quei battenti e irruppi nella camera. Ma un'afa calda mi ributtò, non meno che se fosse una muraglia invisibile: rinculai per non essere asfissiato. In faccia a me era la finestra chiusa della camera e Marina giaceva a destra o a sinistra dell'uscio. Era giorno fatto; sui vetri splendeva il sole, e il bagliore della neve, caduta la notte, si rifletteva dal giardino nell'ambiente della camera con una bianchezza festosa. Bisognava che io corressi alla finestra e invocassi l'aiuto della natura; ma uno sgomento fastidioso del pericolo parve che m'impiombasse i piedi: piangevo, senza accorgermi, e gemevo come un tormentato. L'esitazione non fu che di un quarto di minuto: sfidai la morte; balzai alla finestra, e mi sostenni a stento al suo parapetto; l'aprii, e mi volsi. Avevo le vertigini. La vista tremolante non mi lasciò vedere dov'ella giacesse, e già sentivo dei cerchi, che mi serravano le tempia, e mi pareva che il pavimento barcollasse come un'altalena. A destra dell'uscio scorsi un padiglione, che forse copriva un letto. Dio aveva pietà di me: l'ambiente era già abbastanza corretto, perché io potessi aprire la bocca, e respirare la vita. Corsi innanzi a quelle cortine di seta, le lacerai, strappandole a destra e a sinistra; e ai piedi del letto, messa quasi a sedere sul suolo, con un braccio morto lungo la vita, e l'altro e la testa abbandonati sulla sponda, pallida... Oh! io non saprei descrivere come mi apparve veramente in quell'istante. Io avevo poco più di venti anni e uscivo allora allora da un mondo ove la donna si considera peccato. La mia vita non era mai stata adorna di fiori e non conosceva, lo giuro, il bacio di una donna. Il fantasma di Marina mi era comparso una notte dolorosa, e dopo averlo perseguitato, come un assetato del deserto incalza la visione di una fontana, l'avevo ora fra le mie braccia e senza rimorso o paura di offenderla, potevo sollevarla, [185] metterla a giacere coll'innocenza e il candore, che farebbe un padre verso una sua bambina; potevo chiamarla con tutti i bei nomi dell'amore, schiuderle gli occhi, ricercarne la morente pupilla, ridarle un po' di calore col fiato, coi baci, colle lagrime. Ella forse, udito poco prima il nome di Lucini, era balzata per venirmi incontro, ma la vita era già troppo insidiata e cadde. Non era morta; un filo di roseo le coloriva le guancia, e un alito sottile le moveva appena appena il petto: il suo volto aveva veramente quel non so che d'alabastrino, che mi era apparso dal ritratto, e dell'alabastro teneva anche la morbidezza e il gelo. Vestiva un abito bianco di mattina e le mani forse avevano tentato di lacerare il corsetto alla gola, nello spasimo dell'agonia. Non era morta, ma non voleva guardarmi: le sue braccia che io mi era cinte al collo, per levarla da terra, serbavano ancora una piccola tenacità, ultima espressione di un immenso amore. Pareva dicesse: Questo amplesso è per te. Per me, povero Marcello? Per me che ti chiamo inutilmente, dopo aver udite le mille volte ne' sogni la tua voce, dopo aver imparato nel tuo pensiero ad amare meglio la vita e a meglio conoscere la natura delle cose? - Marina! - esclamai posando il mio viso al suo, e sollevando alquanto la sua testa nelle mie mani - Marina, perché hai voluto morire? Ella forse mi sentiva dalle profondità tenebrose della sua agonia: mi parve che le ciglia balenassero una volta o due per rispondermi, ma il mio desiderio non aveva le mani sì lunghe per trattenerla al limitare della morte. Posai le labbra sulla sua bocca e colle dita cercai sollevare le sue palpebre: la serrai una volta ancora con più veemenza al mio corpo. Era morta. Anch'io mi sentii morire. L'aria della camera era avvelenata e l'aspetto della morte è fatale. Poiché il suo volto si raffredda sotto i miei baci, poiché le sue braccia si svincolano come cosa morta dal mio collo, e io sento la sua testa pesare, e indarno le afferro e l'una e l'altra mano, e le carezzo i capelli, e la chiamo e grido, è giusto che muoia anch'io. Chi mi trattiene ancora sulla terra? Sento che in me v'è qualche cosa di troppo, di inutile, d'ingombro: quell'anima nuova e bizzarra, che discese in me col primo pensiero d'amore, tenta scatenarsi. Le ginocchia si snervano e io cado ai piedi del letto, a guisa d'uomo sfiaccolato di un troppo lungo viaggio: vedo discendere [186] molti veli bruni innanzi agli occhi, mentre le forze mi escono da tutte le membra. È un dolce venir meno, che sembra un addormentarsi, anzi provo la strana sensazione di chi si immerge in un bagno tiepido di latte. È così bello il morire? Tutto si ritira e si spegne: è la fine d'una festa, in cui i fiori, gli specchi e le gemme illuminate dall'ultimo moccoletto hanno bagliori radi e moribondi per l'ebbro libertino che sonnecchia. Addio, luce falsa del mondo: l'aria gela intorno a me, e forse mi serra una crosta di ghiaccio: io muoio tentando di aggrapparmi a lei. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Era svenuto e due giorni dopo, quando ritrovai la coscienza di me, il prete, che mi aveva raccolto pietosamente nella canonica, mi disse: - Povera putela, l'emo sepolta sta matina. [187] CONCLUSIONE IL Sultano È STATO assolto, avendo potuto il suo avvocato dimostrare che il Lucini era figlio dell'accusato, il quale (e mostrò varie lettere) aveva già fatto dei passi per riparare i suoi vecchi torti; aveva procurato di trarlo a Venezia per essergli più vicino e meritare il perdono. Il contegno franco dell'accusato durante l'arresto e il processo, ribadirono questa verità e, come disse l'illustre avvocato, la causa dell'umanità fu vinta. Il vecchio pazzo è più pazzo di prima e dopo che l'hanno rinchiuso in un ospizio, seguendo sempre l'ordine delle sue sciagurate ambizioni, cominciò a credere d'essere un pretendente al trono di Francia: poveretto! Più fortunato di tutti è ancora Marcello, che tornato alla semplicità dell'anima, ha ieri assistito al matrimonio di Gioconda col signor Pietro Manganelli, imbiancatore, che mette in opera anche campanelli. Morto il capo ufficio del catasto - penava tanto, poveretto! - Marcello ha ottenuto il posto sospirato e passa i suoi giorni, come prima, al numero ventitré, fra quelle pareti color acqua piovana, tra gli scialacquamenti di Doro e l'odore d'aglio, in cui il signor Placido riassume tutti i suoi intingoli, come in un'idea generale. La sua vita oggi è più malinconica, sebbene dorma, senza pericolo, nel letto elastico di Gioconda: e spesse volte, guardando dalla sua finestra certe nuvolette color d'oro che passano attraverso la guglia del duomo, si sente chiamato a grandi destini, che io gli auguro anche un po' per amor mio. Marcello però, ripigliando il suo zimarrone color tané e le sue vecchie scarpe, venne a un più retto giudizio intorno alla vita, e compiange di cuore gli uomini di troppo spirito, anche quando ne inventano di curiose. Errori materiali corretti: Pag. 87 È un un gran Milano È un gran Milano Pag. 95 tenebria tenebra Pag. 100 iera sera ieri sera (1) Anche questa relazione è tolta dai giornali di quel tempo. MARCELLO (2) (1) Io credo invece che la barbolina non fosse in buona fede. MARCELLO