EDMONDO DE AMICIS IL SOLDATO POGGIO Inaugurandosi il Ricordo in onore dell'Eroico Artigliere in Masio (Alessandria) SETTEMBRE 1925 Pinerolo - Tip. G. Ferrero Fu il glorioso cinquantenario del Regno d'Italia che mi fece conoscere l'esistenza del bozzetto di Edmondo De Amicis «IL SOLDATO POGGIO». Pochissimi, per non dire nessuno, ad eccezione dei congiunti del Poggio e di un limitato numero di amici, sapevano che Edmondo De Amicis avesse ritratto, con la mirabile arte sua, il valoroso artigliere piemontese; pochissimi voglio dire fra i lettori italiani dell'insigne scrittore, il quale aveva voluto che l'eroica istoria di Giovanni Poggio fosse viva oltre i confini dei mari, parendogli forse vano raccontarla in Italia, dove le gesta gloriose del mutilato di Capua dovevano essere note. Toccò al giornale di Buenos Aires: El Nacional, del quale Edmondo De Amicis era corrispondente, l'onore di pubblicare il bozzetto, intitolato «IL SOLDATO POGGIO» nell'autunno del 1884. E lo pubblicò naturalmente in lingua spagnuola, dalla quale lo tradusse poi in italiano il capitano d'artiglieria Morano, perchè rimanesse dolce e prezioso ricordo al Poggio ed alla sua famiglia. Fu così, per la cortesia di questa e specialmente d'uno dei figli del glorioso mutilato, il cav. Urbano Poggio, che mi fu dato di conoscere e leggere quelle pagine. Volgeva al termine l'anno 1910, quando parve a me che un giornale, al quale sono care, per antica tradizione, le rievocazioni dei gloriosi eroismi, ed una Rivista che si intitola dal nome della Patria e per la quale è pur culto antico e gentile il patriottismo, cioè la Gazzetta del Popolo di Torino, e l'Illustrazione Italiana di Milano, non dovessero lasciar trascorrere l'ora giubilare d'Italia senza fregiarsi del ritratto che un chiaro artista, Vittorio Cavalieri, aveva fatto del vecchio mutilato. Giovanni Poggio era entrato in quei giorni nel suo ottantesimo anno di età dopo aver visto poco prima compiersi il cinquantenario del giorno in cui perdeva ambe le braccia all'assedio di Capua. E la tela, offertagli dai bravi figliuoli e dal gagliardo pittore, nella quale l'eroe è fortemente raffigurato col petto splendente di tante decorazioni, fra cui la medaglia d'oro al valor militare che è la più alta distinzione del nostro Esercito, quella cara e vivida immagine era stata una grande gioia per il povero vegliardo. Ma fu gioia ben breve! Sei giorni dopo, il 5 dicembre, per crescente marasmo senile, più che per vera malattia, egli esalava l'estremo respiro. Lentamente, placidamente, si era spenta la vecchia lampada, da cui pure emanava tanta luce di giovinezza spirituale, poichè quell'immagine vivente di soldato e di eroe era pur sempre un esempio meraviglioso di sacrificio e di amor patrio alle nuove generazioni. Si era spento quell'umile e grande eroe a cui il destino, quasi a compenso della terribile, per quanto gloriosa sciagura, aveva dato un conforto rarissimo nel mondo, quello di una compagna mirabile, la quale per lui compì il sacrificio maggiore che si possa immaginare, il sacrificio di tutti i giorni e di tutte le ore, tale da richiedere veramente una bontà ed una pazienza che sembrano sorpassare i limiti dell'umano. «Santa e generosa donna, grande nella tua oscurità, accetta il saluto della nostra gratitudine e della nostra ammirazione»; ripetiamo queste parole che le rivolgeva Edmondo De Amicis, e scriviamone qui il nome: Camilla Fossati! Il giorno seguente, il 6 dicembre; veniva diretto a tutte le autorità militari del Presidio, dal Comando della Divisione di Torino, questo ordine del giorno: «Ieri spegnevasi in questa città Giovanni Poggio, veterano della guerra di Crimea e delle Campagne Nazionali del 1859 e 60, l'eroe mutilato di entrambe le braccia, perdute sotto le mura di Capua, il valoroso soldato sul cui petto brillava la più alta e la più ambita decorazione al valor militare. Nel darne il triste annunzio alle autorità militari del Presidio, onde la vita e l'eroismo di questo modesto artigliere siano additati ad esempio di tutti i militari dipendenti, avverto per opportuna conoscenza di tutti coloro che vorranno rendere un estremo tributo di omaggio all'estinto, che il suo trasporto funebre avrà luogo domani, ecc. ecc. Il Tenente Generale, comandante la Divisione CORRADINI». E la funebre onoranza che si compiva sotto un melanconico cielo piovigginoso nel mattino del 7 dicembre, riuscì una solenne e gentile manifestazione di popolo, alla quale, con lodevole consiglio, si era pure associata la civica amministrazione, interprete sicura di tutta la cittadinanza torinese, ordinando che a spese del Municipio si rendessero i funebri onori. Nè hanno dimenticato certo, quanti vi assistettero, quel commovente spettacolo, che ancor più viva tenerezza suscitava là nel grande atrio della Chiesa di S. Massimo dove il corteo fece capo e dove l'onorata bara, coperta dal tricolore, di fiori e del medagliere, fu salutata dal consigliere comunale avv. Adolfo Bona (rappresentante del Sindaco, senatore Teofilo Rossi) a nome della grande Città di adozione e della piccola terra nativa, a nome cioè di Torino e di Masio. Poi gli diedero l'ultimo addio, con parola non meno commossa e commovente, il Generale Corradini, per la guarnigione di Torino e per l'esercito tutto; il Generale Gilli per i reduci dalle patrie battaglie; il Colonnello Rassaval, che ricordò anzitutto nel Poggio il suo compagno d'armi nella lontana Crimea, ricordò il baldo cannoniere che il 16 agosto del 1855, mentre gli zuavi ed i nostri bersaglieri fugavano i russi alla Cernaia e l'ufficiale piemontese gridava: «Bersagliè, lasseve nen passè dnans dai fransseis» là nella batteria detta «La Rocca di Cavour,» roteando lo scovolo, caricava il pezzo gridando: «Viva 'l Piemont!». Il Maggior Generale Ugo Allason gli porse, in vibranti parole, il saluto dei vecchi artiglieri. E lo salutava ancora nobilmente rievocandone la gloria, il Sindaco di Asti avv. Bartolomeo Bottino, che esclamava, volgendosi alla schiera dei Veterani: «E voi, vecchi soldati, che siete venuti recando i cenci gloriosi che passarono sui campi di battaglia agli itali zeffiri ventando, abbassateli sulla sua bara, così come voi fate, piano, in silenzio perchè il suo spirito non si svegli e migri senza avvertirlo, dall'amplesso della Patria, madre degli Eroi, all'amplesso della terra, madre dell'umanità». Più degne parole non potevano chiedere la corona degli estremi saluti rivolti in quell'ora, vibrante di tanta mesta poesia, alla salma di Giovanni Poggio; così come nessuna parola potrebbe dire tutta l'anima sua di Italiano meglio di queste che si leggono in un foglio, rinvenuto dai figliuoli fra le carte del loro compianto genitore: Ai miei figli, dopo che il Governo avrà sistemato vostra Madre e tutte le cose saranno aggiustate, se potete, mandate non meno di lire Cento al Ministro della Marina, pregandolo di accettarle come primo fondo di una sottoscrizione popolare di cui vi farete iniziatori per regalare allo Stato una nave che porti il nome «PATRIA». Queste, e le parole che egli raccomandò che si scrivessero sulla sua tomba: «Onest Popol, sosten l'unità d'Italia, sempre a la testa chi l'ha savula fè: CASA SAVOIA!» sono il testamento ideale di un Eroe, di un glorioso precursore dei tanti eroi che nell'ultima grande guerra hanno compiuto l'opera di redenzione iniziata da quei primi soldati del nostro vecchio Piemonte; sono il testamento che Giovanni Poggio ha scritto con la penna stretta fra i denti. Quale epigrafe migliore al commovente bozzetto di Edmondo De Amicis - IL SOLDATO POGGIO?» Giuseppe Deabate. L'Epigrafe del Monumento dettata da Paolo Boselli GIOVANNI POGGIO EROICO ARTIGLIERE NELLE GUERRE PER L'ITALIA IN CRIMEA NEL 1859 NEL 1860 COMPIENDO PRODIGI DI VALORE PRODE FRA I PRODI DEL RE E DI GARIBALDI NELL'ESPUGNAZIONE DI CAPUA PROPUGNACOLO BORBONICO PERDETTE AMBO LE BRACCIA ONORATO DELLA MEDAGLIA D'ORO MOSTRÒ LA SERENITÀ DEI FORTI E MILITARE DECORO NELLE ANGUSTIE DELLA VITA NOBILMENTE POVERA ALLIETATA E SORRETTA DALLA CONSORTE CAMILLA FOSSATI CON VIGILE DEVOTA OPERA D'AMORE ———— NACQUE IN MASIO IL 4 AGOSTO 1830 MORÌ IN TORINO IL 5 DICEMBRE 1910 ———— QUESTO RICORDO A SEGNO DI GLORIA AD ESEMPIO DI MERAVIGLIOSE GESTA VOLLERO IL POPOLO DI MASIO AMICI AMMIRATORI IL SOLDATO POGGIO Stamane ultimo giorno di carnevale, giorno sempre triste per me che amo la quiete ed il silenzio, ricevetti un biglietto da un amico carissimo, il buon Capitano d'Artiglieria Ugo Allason, che mi procurò un gran piacere. «Dopo mezzogiorno», mi diceva, «sarò a casa tua col Soldato Poggio che si trova a Torino per due o tre giorni». Parecchie volte avevo parlato in famiglia di questa visita che il mio buon amico mi aveva promessa da molto tempo; ma ormai non ci pensavo più. La notizia mi scosse per questo più che mai. Non potei più scrivere, fui costretto ad alzarmi ed a gironzolare per la casa; i nervi erano agitati e mi trovavo contento di essere eccitato in quel modo; «Via,» pensavo, «ciò prova che, nonostante alcuni capelli bianchi, sono ancora giovane e in me non è ancora morto il fanciullo». Aspettavo con impazienza l'una dopo il mezzogiorno. Al tocco preciso udii suonare il campanello: «Ah! È Poggio!» esclamò il mio figliuolino primogenito dalla camera attigua. Corsi ad aprire, ed il Capitano col Poggio entrarono e sedettero nel mio studio. Il contrasto che presentavano quelle due figure era curiosissimo. Un Capitano sui trentacinque anni, d'aspetto giovanile, svelto, vivacissimo, vestito della sua brillante uniforme d'una eleganza severa nella figura e nei modi; ed un uomo sui cinquantaquattr'anni, grigio, un po' incurvato, con una giacchetta che pareva buttata sulle spalle. Appena seduti, il Capitano levò il cappello di testa al suo compagno e lo depose su di una sedia, quindi gli disse: «Caro Poggio, ecco il signore di cui ti parlai; egli desiderava conoscerti per scrivere qualche cosa su di te». Poggio mi guardò con una certa timidezza; il suo sguardo però era piena di benevolenza e gratitudine per l'emozione che scorgeva nella fissità del mio sguardo; poi parlando in dialetto piemontese, disse: «Grazie; però come mai un poveraccio par mio può fornire materia da scrivere?» «Andiamo,» gli disse il Capitano mettendogli una mano sulla spalla, «raccontaci un po' la tua storia» Poggio balbettò alcune parole con l'espressione di chi teme di dar noia: «Nacqui in Masio, piccolo paese della Provincia di Alessandria; fui chiamato al servizio militare all'età di vent'anni; presi parte alla campagna di Crimea come artigliere nell'Esercito Piemontese; al finir della guerra fui congedato e chiamato di nuovo nell'anno 1859 in cui presi parte alla campagna di guerra contro gli Austriaci in Lombardia e poi a quella del 1860 contro i Borboni, e sempre in qualità di semplice soldato. Ecco tutto». Pareva non volesse dire di più. «Quale fu la prima battaglia a cui hai preso parte?» gli chiese il Capitano. «Quella di Santa Maria» rispose. «Sei troppo laconico» replicò il Capitano; poi rivolgendosi a me, disse: «Devi sapere che durante la campagna di Crimea è scampato dalla morte e da pericoli d'ogni fatta per il suo ardimento, ed arrischiò di lasciare la vita nel lazzaretto dei colerosi. Al fatto d'armi di Santa Maria, il primo ottobre 1860, il suo accorgimento evitò la strage di una colonna Garibaldina e gli meritò di essere decorato della medaglia d'argento al valor militare; era capo pezzo; faceva tutto dal mattino alla notte, esponendosi sempre il primo ai pericolo ed animando tutti. I Reali avevano completato le batterie già incominciate dai Garibaldini. Erano tutte nascoste tra le piante, meno quella del Poggio, appostata presso la stazione di Santa Maria di Capua, sulla strada che mena a Capua. Egli doveva far fuoco per primo e dare i dati di tiro ai suoi compagni. Di buon'ora si vide issare in Capua la bandiera rossa ed i Borbonici uscire in grandissimo numero. I Garibaldini, che occupavano i posti avanzati, battendosi da eroi, com'ebbe a dire il Gran Re, li trattennero per varie ore, ma verso mezzogiorno, estenuati dalla fatica e sopraffatti dal numero, incominciarono a ripiegare verso le proprie batterie. Il Maggiore dei Garibaldini Angherà, che le comandava provvisoriamente, ordinò il fuoco, ma Poggio, prima di obbedire, gli fece osservare che una colonna di Garibaldini, non conoscendo la posizione di quelle batterie, indietreggiava proprio verso di esse; se i cannoni avessero sparato la colonna sarebbe stata decimata; quando questa fu al sicuro, s'incominciò un fuoco ben nutrito e regolare che durò per più di due ore e costrinse il nemico a ritirarsi lasciando morti e feriti e molti prigionieri. Lo stesso Maggiore Angherà, per premiare il Poggio della sua avvedutezza e del suo valore, offerse da bere a tutti a sue spese, e ordinò di gridare: Viva l'artigliere Poggio, salvatore nostro e dei nostri compagni!». Poggio ammise sorridendo. «Durante quell'allegria, qualche compagno scorse sul vestito di tela del Poggio delle chiazze di sangue. Una palla di moschetto della cavalleria nemica, attraversandogli la placca del cinturino, gli si era conficcata per un buon pollice nel ventre, tanto che gli rimane tuttora una cicatrice profonda un centimetro e larga cinque. Qualche giorno dopo ed ancora attorno a Capua, nonostante l'affettuoso e ripetuto divieto del suo Capitano Emilio Savio, che non vuol mettere inutilmente a repentaglio la sua vita, attraversa a nuoto il Volturno per compiere una ricognizione nel campo nemico. Anche questa volta la sua temeraria audacia trionfa sul pericolo grave e sicuro; egli che ha sfidato la morte e che insinuatosi fra le batterie nemiche riporta informazioni preziose al proprio Capitano, viene da lui elogiato, ma anche punito con quella sola punizione che può toccare un nobile cuore! Partito strisciando per non essere veduto, ritorna baldanzoso con un cavallo del nemico: lo offre al suo Capitano e questi lo rifiuta.». «Ma dove avete ricevuto la ferita alle braccia?» gli chiesi io. Allora si vide costretto a parlare ed incominciò la sua narrazione animandosi alquanto, esprimendosi però sempre con semplicità ed in modo da lasciar trasparire una simpatica bontà. Bisognerebbe poter ripetere la sua narrazione nel dialetto piemontese rude e soldatesco, per aver un'idea di quanto fosse espressivo il suo aspetto di vecchio soldato, colorito un po' dal calore dello improvvisare. «Dove fui ferito?» disse: «È un'affare da niente; lo dirò in due parole. Sanno come si rese la fortezza di Capua. Era il due novembre 1860. Eravamo in batteria; il mio Capitano era il Barone Emilio Savio, uno dei due celebri fratelli, giovanissimi, che morirono durante la stessa campagna, il primo a Gaeta, colpito in fronte da un proiettile, l'altro in Ancona in seguito all'amputazione di una gamba per ferita. In quel giorno però il Capitano comandava un'altra batteria; con noi c'era il Tenente Persi. Avevamo in batteria sei mortai; dietro di noi si trovava una casa con terrazzo. Anche allora facevo le funzioni di capo pezzo. Il fatto avvenne nel modo seguente: Dalla fortezza ci facevano addosso un fuoco infernale. Eravamo, come si suol dire, soffocati; non si poteva più reggere. Si tirava, così... a caso. Le granate dei Borbonici piovevano sulla casa; era necessario verificare ogni tanto il tiro dal terrazzo. Allora il Tenente disse: «Chi si arrischia a salire?» Non aveva finito che io mi ero slanciato per le scale, ma il Tenente mi richiamò e mi gridò col tono più energico: «Non più tu, Poggio; tu hai già fatto troppo ed hai molto da fare ancora senza esporti a nuovi rischi». Nessuno però si mosse perchè il fuoco s'era fatto in quel momento veramente micidiale. Allora io dissi: «Andrò ancora una volta». «No» interruppe il Capitano Allason, «non alterare le parole storiche: tu rispondesti: dove gli altri non vanno, Poggio va.» «Ebbene, sì» rispose Poggio sorridendo, «risposi in questo modo; uscii, ed appena fuori fui ferito. Ecco tutto.» «Ma in che modo foste ferito?» gli chiesi. «Non lo so bene» rispose ingenuamente. In tali momenti si prova una certa commozione! Fu l'affare d'un istante. Misi il piede sul terrazzo, sentii un gran colpo ed un gran dolore; mi s'oscurò la vista, ma non svenni. Feci uno sforzo e mi voltai per vedere. Una granata era scoppiata tra i miei piedi.» «Che cosa vedeste?» «Eh! Qualche cosa di sgradevole, caro signore; il braccio destro mi penzolava dall'omero. Mentre però lo miravo con un senso di raccapriccio pensando a rialzarmi, sentii come un fischio, un altro intensissimo dolore e ricaddi a terra. Una palla di cannone mi aveva strappato l'altro braccio lanciandolo a qualche passo da me. Feci un ultimo sforzo, riuscii a rizzarmi ed a scendere qualche gradino. Il Colonnello, che stava abbasso, salì correndo, mi pose le mani sotto le ascelle e mi aiutò a discendere; qui mi legarono le braccia stringendole molto con una fascia che portavo indosso; poi un camerata, il caporale Branca, il più forte forse della batteria, mi prese sopra le spalle e mi trasportò all'ambulanza che distava circa un mezzo miglio. All'ambulanza dissero subito che era necessario fare l'amputazione delle due braccia e ben vicino alle spalle. In seguito mi fecero l'operazione che riuscì bene. Non soffersi molto. Sembrava che tagliassero nella cera. Fecero crak, crak, da una parte; volsero il letto e, crak, crak, dall'altra parte, e tutto fu finito. Il medico era un certo Cipolla, medico in capo di Garibaldi, un cuor d'oro che mi pose moltissima affezione. Sanno chi mi sorreggeva la testa mentre si eseguiva l'amputazione, e veniva a vedermi tutti i giorni quando fui trasportato all'ospedale dello Spirito Santo a Napoli? La signora Jessie White; l'intrepida Garibaldina, suora di carica, corrispondente di giornali, scrittrice che sposò poi Alberto Mario, l'illustre repubblicano. Una buona signora - continuò Poggio dolcemente - e dico buona perchè era di quelle che sapevano compatire gl'infermi. Si figurino che, mentre mi operavano, io che non sapevo dove diavolo avevo la testa, impazientito perchè essa mi copriva la faccia con una mano, togliendomi il respiro, le dissi una parolaccia da screanzato. Ma ella mi perdonò e ogni volta che mi rivedeva mi domandava ridendo: «Siete sempre in collera, Poggio?» Si può dare una creatura simile?» Gli chiesi se era stato molto tempo convalescente. «Mi condussero a Napoli, all'ospedale» rispose, «Il viaggio fu un po'... penoso! Ero più morto che vivo. L'osso di un moncherino si era scoperto e minacciava una cancrena; si temeva dovesse ripetersi l'operazione; me lo rimisero a posto stirandomi molto bene la pelle. Per molti giorni però fui quasi moribondo. Mi trovavo in un sito pulito, in un buon letto. I giorni passavano e mi pareva sempre di sognare. Ero stato premiato con la medaglia d'oro al valor militare. I signori che venivano a visitare l'ospedale guardavano il cartellino collocato vicino al mio letto, sul quale si leggeva: Poggio, soldato d'artiglieria; e avvicinandosi mi parlavano; ma io capivo poco perchè avevo perduto molto sangue.» Non si può immaginare la naturalezza con cui diceva queste cose, vergognandosi quasi di occuparmi con la sua compassionevole storia e guardando di quando in quando il Capitano come per domandargli se non aveva già parlato troppo. «Continuate, Poggio,» gli dissi: «fate conto di narrare le vostre avventure ad un amico». «I miei racconti sono finiti» rispose: «Ah! no!» soggiunse sorridendo «mi scordavo il meglio. Ascolti ancora un po', signore. Questa è cosa che mi procura sempre un gran piacere. Un giorno in cui stavo assai male, udii un rumore di passi, vidi un gran numero di ufficiali, e il Direttore dell'Ospedale mi disse: «Sua Maestà». Era il Re stesso, il nostro Re Vittorio Emanuele II.» «Vi parlò? Vi ricordate bene le sue parole?» gli chiesi. «Come non le ricorderei?» mi rispose. «Non ne ho scordata una sola. Non si parla tutti i giorni col Re. Si avvicinò al mio letto; sapeva già che cosa avevo; mi guardò fissamente... Creda, signore, non fo per dire, ma non ho udito nella mia vita una parola, lo giuro, come se avessi la mano sul cuore, nemmeno le ultime che mi disse la buon'anima di mio padre, che mi abbia fatto provare... come devo dire.... Era il Re che parlava. La prima cosa che mi disse, con accento che mi andò fino al cuore, fu: «Poggio!» Così bonariamente come un padre ad un figlio «Poggio, come state?» I generali rimasero indietro. Non si sentiva volare una mosca; non seppi che rispondere. Che vuole? In questi casi uno rimane senza parola. Ma Egli capì dai miei occhi ciò che volevo dirgli. «Sei un bravo soldato» disse, «hai dato il tuo sangue pel tuo paese. Io penserò alla tua famiglia; abbi coraggio, figliuolo». Mi pareva che gli tremasse la voce, signore, mentre pronunciava quelle parole. Mi pareva che avesse qualche cosa nella gola, il nostro buon Re! E pensare che è morto e che io sono qui tutt'ora senza servire a nulla....» «Non gli rispondeste nulla?» gli chiesi. «Oh, sì» replicò: «Cara Maestà» gli dissi «toccò a me, poteva toccare a un altro; tutto per l'Italia». «It regrete gnente; 't ses un fieul 'd coeur» rispose il Re, ed immediatamente si rivolse al Direttore e gli disse: «Togliete questo cartello dal letto e mettetene un altro che dica: Poggio Ufficiale». Gli chiesi come era andata che era rimasto soldato semplice non ostante quella promozione. «Dio mio!» rispose, «si spiega benissimo. Il Re ordina le cose e coloro che devono farle qualche volta non le eseguiscono. Sua Maestà aveva tante cose per la testa... inoltre era sicuro che ciò che aveva detto sarebbe stato eseguito. Ma ciò non importa. Da quel giorno in poi mi trovai meglio. Un mese dopo tornavo a casa». «E che altro vi disse Vittorio Emanuele?». «Oh! molte altre cose» rispose, «e tutte molto belle; di quelle che cicatrizzano le ferite. Egli mi parlava a voce bassa, ma sonora che riempiva tutta la stanza. Rimase un buon quarto d'ora. Di quando in quando taceva e mi guardava. Nell'andarsene mi disse: Arrivederci». Parlando così Poggio aveva un aspetto diverso da quello che aveva mostrato nell'entrare. I lineamenti risoluti del soldato s'erano meglio designati; i suoi occhi brillavano. Per farlo riposare gli offrii un sigaro. Il Capitano lo ruppe in due, gliene pose la metà tra le labbra, glielo accese e gli tirò indietro un ciuffo di capelli che gli cadeva sulla fronte. Poggio allora raccontò il suo ritorno al focolare paterno in Alessandria; le peripezie del viaggio che fece assieme ad un soldato che gli diede per compagno la Direzione dell'ospedale; la tristezza, gli imbarazzi, le mille difficoltà che portava con sè la nuova e strana condizione in cui si trovava, e senza lamentarsi di nulla faceva intendere la disgrazia del suo stato in modo che opprimeva il cuore. La notizia della sua gloriosa e tremenda sventura era stata comunicata alla sua famiglia da una affettuosissima e nobilissima lettera del Capitano della batteria, il barone Emilio Savio. Suo padre, sua madre, i suoi fratelli lo attendevano alla stazione della strada ferrata. Egli arrivò con la sua medaglia d'oro sul petto, pallido e sorridente; fu ricevuto con singhiozzi di dolore frammisti a grida di giubilo, festeggiato e compianto, colmato di lagrime e di affetto. «Ah! signore!» esclamò con tristezza «una sola cosa mi fece soffrire in quel momento! - non poter più abbracciare mia madre!». La doppia amputazione era stata fatta tanto in prossimità alla spalla che tutti i tentativi fatti per poter applicare sul tronco del braccio due apparecchi che servissero a qualche cosa furono sempre inutili. «Dopo alcuni mesi di permanenza in casa» continuò Poggio, «cominciai a sentire tutta la mia miseria. Non poter lavorare, non poter mangiare, non potermi vestire, non poter soddisfare a nessuna delle mie necessità. Creda che non si può immaginare neanche dalle persone d'ingegno che cosa sia una condizione simile. Inoltre io avevo trent'anni, ero giovane di bello aspetto, ed avevo sempre sentito la necessità di una affezione. Il pensiero dell'avvenire mi atterriva. Che sarebbe di me quando rimanessi solo?! Mio padre morì poco dopo, mia madre era vecchia. La pensione del Governo, seicento lire! Anche unita alla pensione che mi aveva accordata Sua Maestà, non mi sarebbe bastata per vivere, perchè bisogna capire che un uomo senza braccia non solo non può lavorare, ma ha bisogno di una persona che lo serva, che non lo abbandoni mai, neanche un minuto. Di quando in quando la tristezza mi opprimeva l'animo. Veder tutti gli altri con la loro famiglia e coi loro figli, andare, venire, far tutto da sè, allegri e contenti, ed io sempre solo, impotente e ciò nonostante pieno di vita e di cuore. Ma vi è una Provvidenza, caro signore». Non compresi ciò che volesse dire, sembrava che aspettasse di essere interrogato per proseguire, mentre guardava dalla finestra della stanza, nella via dove in quel momento passavano delle maschere. «Vuol dire - riprese dolcemente il Capitano, «che trovò una ragazza, un'eccellente creatura che gli pose affezione e la sposò». «Questo, volevo dire,» aggiunse Poggio animandosi: «la figlia di un nostro vicino, con diciotto anni meno di me, buona come il pane e non tanto povera da non poter fare un buon matrimonio. Io la conoscevo da bambina, quando aveva otto mesi. Oh! questa è una storia! Le nostre famiglie si volevano bene. Quando io avevo vent'anni, mi si soleva dare la bambina perchè ne avessi cura; l'ho vestita molte volte; le insegnai quasi a camminare ed essa si era affezionata a me come a suo padre. Quando andai soldato aveva due anni; al mio ritorno dalla Crimea ne aveva otto, e quando ripartii nel 1859 era ancora una ragazzina. Aveva tredici anni quando ritornai da Napoli senza braccia; era allora una bella giovinetta ben voluta da tutti...». Qui s'arrestò. Io gli chiesi insistentemente, con la famigliarità di un fratello, di raccontarmi colla massima esattezza, passo passo, la storia della sua affezione che mi stava moltissimo a cuore. «Come successe la cosa?» lo interrogai: «Come giungeste a conoscere che vi amava? Quali furono le prime parole che vi diceste?». Egli mi raccontò tutto; ma come farei a ripetere le commosse e timide frasi che, quantunque ingenue, tronche e rozze, dette da lui commuovevano e lette tal quale le pronunziava si presterebbero al ridicolo?... Quanta poesia in quella narrazione tanto semplice e tanto soave! Il cielo s'era annuvolato, la catena delle Alpi era coperta; non si vedeva dalle finestre che un lungo velo grigio il quale copriva il cielo, gli alberi dei viali lontani e le case; dalla strada veniva il rumore continuo e regolare delle vetture eleganti che percorrevano il corso, ed un gridìo di maschere e di ragazzi. Il buon Poggio continuava intanto la sua storia. Affermava che la sua più grande amarezza fu quando notò che la sua compagna, quanto più avanzava negli anni, tanto più sembrava volersi allontanare da lui. Egli l'aveva sempre considerata come sua figlia. Ora essa non gli dimostrava più affezione alcuna. Lo salutava con buona grazia, gli rimaneva ancora spesso vicina, ma non gli diceva più le parole affettuose d'altri tempi. Sembrava sempre pensare ad altro... ad una persona assente; pareva che un pensiero triste passasse e ripassasse sulla sua fronte. Stava per compiere sedici anni; doveva essere innamorata. Questo pensiero affliggeva il pover'uomo, non perchè fosse geloso, egli era lontano le mille miglia dal pensare all'amore; quel matrimonio gli pareva impossibile; «ma perchè» diceva fra sè, «se la mia compagna si marita è perduta per me!» e perdendola gli pareva di perdere una creatura del suo proprio sangue. E si rattristava ogni giorno di più. Quando egli la guardava in viso, ella volgeva i suoi occhi da un'altra parte; quando le domandava qualche servizio, come quello di accendergli un sigaro o di porgergli un bicchiere d'acqua alla bocca, sembrava che le sue mani tremassero e che il suo viso impallidisse. Era compassione? Era noia o fastidio?... L'idea che potesse essere ripugnanza gli penetrò nel cuore come una punta di un pugnale. Non le chiese più nessun servizio. Non la chiamò più quando la vedeva passare; la salutava ciò nonostante con uno sguardo affettuoso e triste. «Le son venuto a noia - pensava, - pazienza, dev'essere perdonata; io non sono più un uomo; sono un tronco, una... specie di creatura che deve vivere nascosta». Ma a poco a poco questo pensiero lo esasperava; gli pareva un indizio di poco cuore, in quella ragazza che egli aveva amato tanto, il lasciar preponderare l'orrore fisico sulla gratitudine. Un giorno non potè trattenersi dal dirglielo. Erano rimasti soli e vicini per alcuni momenti dietro la chiesa; lei si era fermata passando; lui era seduto sopra un muricciuolo; appena si vedevano in faccia perchè incominciava ad imbrunire. «Sapete - le disse ad un tratto con voce commossa: - ciò che mi dà più pena nella mia disgrazia? È il non poter più lavorare, non potermi formare una famiglia, e con la prospettiva alla fine di morire solo in uno spedale! Ma sapete ciò che mi arreca maggior tristezza?» La ragazza non rispose. «Ciò che più mi accora - continuò il soldato, - è il vedere che queste due cose (e scosse i moncherini delle braccia) vi fanno orrore!». La ragazza gettò un grido di indignazione: «Orrore a me!» e proruppe in pianto. Quindi con impeto di vigorosa passione mi prese le due spalle e mi gridò in faccia con un singhiozzo: «Ma sì... voglio sposarvi!...». «Ecco come andò la cosa,» disse Poggio, adoperando la sua frase prediletta, «Ci siamo sposati ed abbiamo avuto dieci figli». Gli chiesi se sua moglie era stata per lui una buona compagna. «Buona compagna! una santa donna, una donna da viverle inginocchiato dinanzi. In diciotto anni dacchè siamo uniti, si può giurare che non è uscita di casa che per andare a messa o a fare le compere per la famiglia. In diciott'anni non uscì mai dalle sue labbra una parola di lamento. Viviamo in una villetta che ereditò da sua madre e tutto il tempo che non consacra ai suoi figli lo dedica alla casa. Una pazienza da angelo». È lei che gli pone il cibo in bocca come ad un paralitico, lo deve svestire e vestire come un bambino. È sempre diligente, affettuosa, pronta a tutto; è la Provvidenza della casa, la vita della sua vita. Una gran disgrazia lo ha colpito; ha perduto i suoi tre primi figli per la difterite. Poggio mi fece a questo proposito un'osservazione che mi commosse. «Signore,» disse, «pensate quanto grande è in questi casi la disperazione di un padre che non può coprirsi la faccia con le mani, che non può fare un gesto, neppure strapparsi i capelli!». Adora i suoi figli! Vedete ciò che sono i piccini! E mi disse: «Venne il giorno in cui ciascun di loro, quando cominciava a parlare mi chiedeva: «Papà, perchè non hai le braccia?» E tutti, quando la madre rispondeva loro che ero stato soldato e che le avevo perdute in guerra, quantunque non capissero bene, rimanevano ciò nonostante con gli occhi fissi, come capissero e volessero piangere». E appena arrivavano a tenere il cucchiaio in mano, si impegnava fra loro una disputa per mettergli il cibo in bocca e pulirgli le labbra coi loro grembialini. «Nella mia casa» aggiunse, «mi hanno tutti tanta attenzione che quasi non mi accorgo di quel che sono. Io faccio i conti, vigilo i lavori della campagna e v'assicuro che passo i miei giorni abbastanza contento. Solo sento una pena quando gli amici vengono a vedermi e si prendono i miei figli sulle ginocchia e li abbracciano facendoli saltare come s'usa coi bambini. Questo piacere non l'ho provato mai e mi cagiona invidia; un'invidia che mi obbliga ad alzarmi di dove sto per non assistere a quello spettacolo. Talvolta mi vedo obbligato di dire a mia moglie che prenda un piccino e me lo stringa fortemente contro il petto con tutta la sua forza; io gli pongo la barba sulla testa, gli stringo il corpo colle ginocchia, rimango così per alcuni minuti e mi faccio l'idea di abbracciarli come fanno gli altri». Gli chiesi se non avesse riveduto il Re. «Una sola volta; lo vidi nuovamente mentre passava per la stazione di Felizzano sulla strada ferrata da Alessandria a Torino e gli presentai una lettera. «Oh! Poggio!» mi disse il Re quando mi vide; «come vanno le faccende?» E si rallegrò nel sapere che avevo cinque figli. «Baciali da parte di Vittorio Emanuele» disse salutandomi. «Tutta la mia storia finisce qui,» concluse Poggio facendo atto di alzarsi. Poi guardò di nuovo verso la finestra come fanno tutti quelli che si trovano imbarazzati per andarsene. Per la via, in mezzo ad una folla di ragazzi con berretti colorati, passava un carro di maschere che gettavano aranci e confetti. A lui passò certo per la mente che in tutto il giorno si sarebbe gettato per il valore di tante lire quante gliene dava il governo in compenso delle sue braccia perdute. «E come vi trovate ora di salute?» gli chiesi. «Non soffrite abitualmente qualche dolore per effetto del vostro stato?» «Dolori, no;» rispose con un senso di leggera tristezza, «ma quanto più avanzo in età, lo stomaco mi si indebolisce e sento di più l'inconveniente di non poter fare ginnastica con le braccia; la digestione si fa difficile..... il sonno cattivo..... Si capisce che i miei ultimi anni non potranno essere belli» E poi, dopo una pausa: «Purchè i ragazzi stiano bene, che importa!» E fece atto di andarsene. Io chiamai il mio figlioletto maggiore, lo alzai e gli dissi: «Abbraccia questo signore». Il ragazzo gli strinse il collo fra le sue braccia. Poggio gli diede un bacio in fronte commosso. Poi si diresse verso l'uscita vacillando come succede sempre quando si è rimasti molto tempo seduti. Il Capitano gli pose il cappello. «Se avrò bisogno di qualche altro dato vi scriverò due righe ed avrete la gentilezza di farmi rispondere, non è vero? «Risponderò io,» esclamò con aria trionfante animandosi, «ho imparato a scrivere stringendo la penna coi denti. Nel registro del Sindaco, quando mi sposai, firmai così. Stamattina ho scritto a mia moglie». L'alterezza infantile con cui disse ciò mi commosse. Gli avvicinai la mia faccia; egli esitò un momento, sorpreso; quindi mi baciò con effusione e sparì. Ed io pensai che il sentimento che la sua visita mi aveva lasciato nel cuore, non lo avrei potuto esprimere meglio che narrandolo ai lettori del Nacional. E l'ho narrato semplicemente, senza aggiungere una parola superflua. Poco tempo fa il Conte di Sambuy, Deputato di Chieri, rivolse una interpellanza al Ministero, appunto per il soldato Poggio, perchè gli fosse aumentata la pensione governativa, la quale sarebbe insufficiente anche se fosse solo, senza famiglia. Il Ministero rispose: ricorra per via amministrativa. Ricorse. Gli mandarono trecento lire che il Poggio respinse sdegnosamente dicendo di non aver bisogno di elemosina. Dio mio! Si potrebbero ben modificare le leggi! Si formuli un articolo in forza del quale si debbano dare diecimila lire all'anno a coloro che perdono le due braccia o le due gambe per la Patria; si formuli senza timore: siamo sicuri che nessuno farà una speculazione di ciò e che le finanze dello Stato non soffriranno per questo un grande sovraccarico. Ma pel povero Poggio, Stato, Governo, Patria, è stata la sua affettuosa e nobile compagna una ragazza di diciott'anni, una figliuola di campagna che forse non sa leggere e che appena saprà che cosa sia l'Italia. Santa e generosa donna, grande nella tua oscurità, accetta il saluto della nostra gratitudine e della nostra ammirazione. Edmondo De Amicis. Traduzione di una corrispondenza del Giornale "EL NACIONAL" di Buenos Aires. F. M. Settembre 1884. Tradusse il Capitano Morano. UN'UMILE GRANDE EROINA Si chiamava Camilla Fossati, e si è spenta il 30 agosto del 1915 povera o quasi, com'era vissuta, e in quell'ombra che è cara alle anime veramente grandi. Perchè un'anima grandissima Ella ebbe, un'anima quale forse non ebbero neppure talune eroine di cui la storia registra il nome in virtù di un loro magnifico ma momentaneo gesto. Camilla Fossati non era che una bella e modesta fanciulla del contado; la sua mente non ebbe forse altro ornamento se non quello che le potè dare la scuola elementare d'un piccolo comune, cinquant'anni or sono; ma il suo cuore seppe intuire un'opera di bontà così eroica, che mille altri cuori, pure forti, non avrebbero osata. E quell'opera seppe compiere, non solo senza un istante di smarrimento e durante tutto un cinquantennio, ma sempre con così ferma gentilezza, che il suo lungo inaudito sacrificio quasi non pareva. Si chiamava Camilla Fossati; ma da cinquant'anni portava un nome glorioso, un nome che nella storia d'Italia è scritto a caratteri d'oro; il nome che le aveva dato, sposandola, il soldato Giovanni Poggio, il nome cioè del prode artigliere che sotto le mura di Capua, il 2 novembre 1860, per un atto eroico e necessario, che niuno osava e che Egli invece volle compiere, ebbe ambedue le braccia stroncate dalle granate borboniche. All'umile e grande soldato, che ebbe l'encomio personale di Vittorio Emanuele II, l'Italia ufficiale non seppe dare altro compenso che una medaglia d'oro, una croce di cavaliere e una pensione di seicento lire annue. Ella invece, Ella Camilla Fossati, gli seppe, gli volle offrire spontaneamente i tre più grandi doni che una fanciulla possa porgere all'uomo eletto: l'amore; la gioia d'una famiglia e, infine, dono incommensurabilmente grande, per Lui povero uomo senza braccia, l'assistenza sua, l'assistenza affettuosa e dolce per tutta la vita... Poichè fu lei, la giovinetta bella, che volle sposare il mutilato artigliere, fu lei che con amore grande e con pietà infinita scelse il suo sacrificio. E di esso, attingendo conforto nella sua viva fede cristiana, seppe fare il nobile scopo della sua vita oscura. Mille gesti eroici compiuti da donne forti registra la storia; ma io non ne conosco nessun altro che, come questo, richieda un più forte animo, un animo più lungamente forte. L'umile e santa eroina si è spenta nell'agosto di quest'anno e cioè pochi anni soltanto dopo la morte dello sposo suo, il quale pure era di lei diciott'anni più vecchio. Quasi si direbbe che Ella, finita la sua meravigliosa missione in terra, fosse impaziente di raggiungere il suo compagno lassù. E si spense povera ed oscura come visse: oscura perchè, per quella modestia che è propria delle anime grandi, Ella si era sempre tenuta nel limite dell'ombra; e povera, perchè l'Italia ufficiale, non avendo saputo far sua la frase con cui Vittorio Emanuele II, in un impeto di generosità, creava, senza decreti e firme, ufficiale il soldato Poggio, a lei, vedova grande d'un soldato semplice, l'Italia ufficiale non volle - non seppe volere - continuata quella misera pensione di seicento lire annue colla quale aveva premiato l'eroe. E l'umile eroina troppo forse avrebbe sofferto, se per lei non ci fosse stata l'assistenza devota, riconoscente, affettuosa dei figli, che la veneravano, e la pietà - spontanea, tacita, munifica, personale - della Regina Margherita. Torino, ottobre 1915. Oreste Fasolo.